La tregua non fermerà Israele – Tariq Kenney-Shawa

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Dilazioni debiti fiscali

Assistenza fiscale

 


Steven Witkoff, il nuovo inviato di Donald Trump in Medio Oriente, ha saltato le formalità quando ha informato gli israeliani che sarebbe arrivato per incontrare il primo ministro Benjamin Netanyahu sabato 11 gennaio. Gli hanno fatto notare allora che la sua visita coincideva con lo Shabbat, quindi il premier non sarebbe stato disponibile fino a sera, ma Witkoff ha chiarito che la festività ebraica non avrebbe interferito con il suo programma. Netanyahu, capendo la posta in gioco, è andato in ufficio nel pomeriggio per incontrarlo. Poi Witkoff è partito per il Qatar (che ha fatto da mediatore tra Israele e Hamas insieme a Egitto e Stati Uniti) per affrettare l’accordo su un cessate il fuoco a Gaza.

Non si sa molto dei dettagli della loro conversazione, ma è chiaro che Witkoff in un solo incontro con Netanyahu ha ottenuto più di quanto abbia fatto l’amministrazione di Joe Biden in quindici mesi. Il 15 gennaio Israele e Hamas hanno concluso un accordo per un cessate il fuoco in più fasi, che prevede lo scambio di ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi e il ritiro totale di Israele da Gaza.

È troppo presto per dire se l’accordo reggerà. La lunga tradizione di cessate il fuoco violati da Israele, unita alle richieste dei ministri israeliani di continuare il genocidio, fanno essere scettici. Ma la notizia della tregua ha portato un sollievo indescrivibile a milioni di persone a Gaza che hanno affrontato una campagna di annientamento per più di un anno.

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

Se la tregua reggerà, sarà il risultato delle dinamiche introdotte dall’amministrazione Trump che si è appena insediata negli Stati Uniti, un promemoria di quanto facilmente Washington possa influenzare le azioni di Israele se lo vuole davvero. Joe Biden, accecato dal suo impegno verso un sionismo mitico che esiste solo nella sua immaginazione, ha finto di non vedere che la guerra era non solo moralmente mostruosa, ma anche dannosa per gli interessi statunitensi e israeliani nella regione. Per molti versi, il genocidio compiuto da Israele a Gaza e la campagna israeliana di destabilizzazione regionale sono diventati la guerra dell’amministrazione Biden.

Trump agisce senza gli stessi vincoli ideologici ed è molto più interessato a quello che può guadagnare da una determinata relazione. Ha cercato un accordo per il cessate il fuoco non solo perché gli serve come un enorme successo d’immagine – può vantarsi di aver risolto un problema che Biden non è mai riuscito a risolvere – ma soprattutto perché permetterà alla sua amministrazione di andare avanti con altre priorità, come favorire la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita.

In altre parole, per il nuovo presidente il cessate il fuoco non è una questione di principio o di moralità, ma una transazione commerciale. Mentre Biden era disposto a lasciare che il genocidio a Gaza ostacolasse una vasta gamma di interessi statunitensi e regionali, Trump era determinato a rimuovere qualsiasi ostacolo al suo programma politico. Ma lui e le persone di cui si circonda hanno anche chiarito di voler fare in modo che a Netanyahu convenga cooperare. Se il primo ministro israeliano rispetterà il cessate il fuoco anche solo nella sua prima fase, si aspetterà qualcosa in cambio, e sarà probabilmente un altro trasferimento di massa dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania.

Ma non bisogna dare troppo merito a Trump. Poco è cambiato per quanto riguarda gli strumenti che era disposto a usare per influenzare la condotta di Israele. Per quanto ne sappiamo, non ha mai minacciato di condizionare gli aiuti militari a Israele. Né ha fatto capire di voler cambiare atteggiamento rispetto al suo predecessore, che ha ignorato il diritto internazionale per proteggere Israele dalle sue responsabilità sulla scena mondiale.

Alcuni sosterranno che le minacce di Trump e il crollo di diversi fronti di resistenza nella regione hanno costretto Hamas a fare concessioni nel negoziato. Ma non era Hamas che aveva bisogno di essere convinto: aveva già accettato le precedenti proposte di cessate il fuoco in gran parte indistinguibili dall’accordo attuale, fin dal maggio del 2024. Alla fine, è stato Israele ad aver bisogno di una spinta, e Witkoff ha probabilmente fatto capire a Netanyahu che, anche se non condivide la cieca fedeltà di Biden a Israele, Trump avrebbe fatto di più per premiare la cooperazione. Il fatto che Netanyahu abbia finora deciso di rispettare l’accordo dimostra che è sicuro di ricavarne qualcosa. I mezzi d’informazione israeliani riferiscono già che il “pacco regalo” di Trump a Netanyahu per il cessate il fuoco potrebbe includere una lunga lista di offerte, dalla revoca delle sanzioni sul software di spionaggio Pegasus dell’azienda israeliana Nso Group e sui coloni israeliani violenti (decisa il 21 gennaio), alla benedizione di Wash­ington per un grande furto di terra in Cisgiordania o per una vera e propria annessione, fino a consentire o perfino favorire un attacco diretto all’Iran.

Ma non si tratta solo di quello che Israele otterrà in cambio del cessate il fuoco. Si tratta anche di quello che ha già ricevuto. Negli otto mesi trascorsi da quando Tel Aviv ha rifiutato per la prima volta un accordo quasi identico, a cui Hamas aveva dato il suo consenso di principio, l’esercito israeliano ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e distrutto ampie zone della Striscia di Gaza. Questo è stato il prezzo per il raggiungimento dei veri obiettivi di Israele: non l’eliminazione di Hamas o il rilascio degli ostaggi – molti dei quali sono stati uccisi mentre Israele temporeggiava sul cessate il fuoco – ma la distruzione e il “ridimensionamento” di Gaza e il riassetto del Medio Oriente.

I fatti sul terreno a Gaza oggi dipingono un quadro che non possiamo ancora comprendere appieno. Le forze israeliane hanno demolito interi quartieri per ampliare la zona cuscinetto che circonda la Striscia, espandere il corridoio Netzarim che taglia in due il territorio e, infine, dividere l’enclave per un futuro controllo perpetuo. Così facendo, si sono impadroniti di più del 30 per cento della superficie di Gaza, rendendo inabitabile gran parte del resto. Nel frattempo, Israele ha messo in atto il cosiddetto “piano dei generali”, che prevede la pulizia etnica dell’area settentrionale della Striscia, a nord della città di Gaza. Beit Hanun, Beit Lahia e Jabalia, città dove un tempo abitavano più di 300mila persone, sono state ridotte in macerie, per spopolare l’area e consolidare il controllo israeliano, gettando le basi per la costruzione di insediamenti ebraici.

Altrove, Israele ha chiuso il suo fronte con Hezbollah e la caduta di Bashar al Assad in Siria gli ha permesso di impadronirsi di altre terre sulle alture del Golan e sulle pendici orientali del monte Hermon, in arabo Jabal al Shaykh. Nel frattempo, in Cisgiordania, gli attacchi dei coloni contro i palestinesi sono aumentati in frequenza e brutalità, mentre l’Autorità nazionale palestinese (Anp) partecipa a pieno titolo all’aumento della repressione della resistenza che l’esercito israeliano compie a Jenin, Nablus e Tulkarem.

È chiaro che Netanyahu ha dato il via libera all’accordo per il cessate il fuoco sapendo che il palcoscenico è pronto perché Israele rivolga la sua attenzione all’annessione della Cisgiordania, al confronto con l’Iran e a consolidare il suo futuro di stato fortezza sotto attacco. Anche se l’accordo non dovesse superare il periodo iniziale di 42 giorni, senza dubbio salverà moltissime vite e darà ai palestinesi la possibilità di respirare, mangiare, elaborare il lutto e ricevere cure mediche. La struttura in più fasi dell’accordo dovrebbe rendere difficile a Israele tirarsi indietro, ma questo dipende da come sarà applicato. Al momento, l’unica cosa che potrebbe impedire la ripresa dell’annientamento una volta che il cessate il fuoco comincerà a stabilizzarsi è la comunità internazionale, che ha abbandonato i palestinesi per più di un anno.

Alcune figure fondamentali della coalizione di estrema destra di Netanyahu hanno già avvertito che non rinunceranno a continuare l’assalto israeliano a Gaza dopo il completamento della prima fase dell’accordo, anche a spese degli ostaggi rimanenti. E dopo essersi preso il merito di aver raggiunto il cessate il fuoco, non è detto che Trump farà pressione su Netanyahu per portare a termine la seconda e la terza fase dell’accordo.

Se da un lato il cessate il fuoco può fermare l’immediato spargimento di sangue, dall’altro cementa una nuova realtà: Gaza come prigione frammentata e inabitabile. La stragrande maggioranza della popolazione è stata costretta in campi di concentramento ampiamente sorvegliati nel sud e nel centro della Striscia, dove la sopravvivenza dipende dai capricci di Israele. Un genocidio non si porta avanti solo con bombe e proiettili e non finisce quando le armi tacciono. Malattie, malnutrizione e traumi – con un sistema sanitario ridotto in macerie – continueranno a fare vittime per anni, mentre per rendere di nuovo vivibile la terra dopo la devastazione ci vorranno decenni. E Israele non ha finito: ha creato le condizioni per una pulizia etnica completa e permanente di Gaza, guidata dall’etica sionista vecchia di un secolo e basata sul principio “il massimo della terra, il minimo di arabi”.

Il cessate il fuoco ridurrà l’intensità della furia omicida di Israele, ma probabilmente darà il via a una nuova, estenuante fase di questo genocidio in corso che non abbiamo ancora compreso del tutto e che è pienamente sostenuta dalla nuova amministrazione Trump. La pulizia etnica di Gaza forse non sarà portata a termine in un colpo solo, ma in un processo graduale che prende forma mentre valutiamo la portata della distruzione compiuta da Israele di tutto quello che sostiene la vita nella Striscia. Qualunque cosa ha in serbo il futuro, dovremmo aggrapparci alle parole di Refaat Alareer, poeta, scrittore e docente universitario, ucciso da un raid israeliano nel nord della Striscia di Gaza nel dicembre 2023: “Come palestinesi, a prescindere da quello che succederà, non abbiamo fallito. Abbiamo fatto del nostro meglio. E non abbiamo perso la nostra umanità. Non ci siamo sottomessi alla loro barbarie”. ◆ dl

Tariq Kenney-Shawa è un giornalista e analista politico statunitense-palestinese che fa parte di Al Shabaka, un centro di ricerca sulla Palestina. +972 Magazine è un sito indipendente di giornalisti israeliani e palestinesi. Questo articolo è uscito anche sul giornale statunitense The Nation.

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo.
Scrivici a: posta@internazionale.it





Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Mutuo 100% per acquisto in asta

assistenza e consulenza per acquisto immobili in asta