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Come si definisce «ricco» nel secolo delle vite a scrocco, nel secolo dell’umanità che segue gente che va in vacanza in posti che non si potrebbe permettere in cambio di tag e lascia la propria indignazione nei commenti, perché neanche lei se lo può permettere ma nessuno la ospita in cambio di tag, nel secolo della lotta allo scambio pubblicitario scambiata per lotta di classe?
L’ultimo scandalo da un quarto d’ora è uno scandalo da diciannove dollari, e si chiama Elly Amai. È una fragola. Arriva in America da Kyoto, e lo scandalo è cresciuto di recente, ma tutto è iniziato tre settimane fa, grazie a Alyssa Antoci, che se cercate su Google vi risulta “internet personality”, il che prova uno dei concetti più importanti e trascurati del presente: Google è utile solo se già conoscete ciò che cercate, altrimenti ne uscirete sentendovi esperti e ripetendo perentori un sacco di stronzate.
Alyssa Antoci è un’ereditiera, parola chissà perché trascurata in questo secolo pieno di seconde e terze generazioni di ricchezza. “Ereditiera”, come concetto, è il contrario di “internet personality”, che dovrebbe essere chi ha fatto fortuna appunto con l’internet, chi la ricchezza se l’è procurata grazie a un mondo di scemi che cliccano, mica chi l’ha ereditata.
Alyssa Antoci non è ricca perché ha duecentomila e spicci follower su TikTok: lo è perché la sua famiglia è proprietaria d’una catena di negozi, Erewhon, che in California vendono cibo agli acquirenti rimbambiti dalle paroline magiche di cui parlavo ieri: health, wellness, longevity e altre illusioni di questo secolo pasciuto. Alyssa Antoci è ricca perché esiste un pubblico che compra frappé da diciotto dollari che dentro hanno il collagene e l’acido ialuronico e altre promesse di vita eterna.
Qualche settimana fa sono andata a vedere a teatro Arianna Porcelli Safonov che parlava di cibo e vino, e demoliva l’idea che esista roba sana, e continuava a dire che tornati a casa non avremmo più mangiato niente, e io tornata a casa ho mangiato le solite schifezze e ho pensato che sopravvalutasse la capacità umana di rimuovere e raccontarsela, e di quello spettacolo ricordo solo il momento in cui dice «ma siete proprio sicuri di voler vivere centovent’anni?», dubbio che probabilmente rimuove, con la stessa determinazione con cui io rimuovo la consapevolezza dei solfiti nel vino e dei coloranti nel cibo, quell’umanità che rende ricca la famiglia Antoci.
Comunque, Alyssa tre settimane fa posta un video in cui mangia la prelibatezza dello scandalo, in vendita nelle boutique di famiglia: una fragola, confezionata singolarmente, da diciannove dollari. Non sarò certo io a notare che la generazione che scassa la minchia con la sostenibilità ambientale poi è la stessa che trova normale che una fragola confezionata con non so quanta plastica venga trasportata da Kyoto alla California: è anche la stessa generazione che pubblica i propri penzierini contro gli aerei privati su social i cui server inquinano ben più degli aerei privati, e quando si sente sola parla con Chat Gpt, ogni risposta della quale consuma e inquina molto più delle macchine diesel, con la differenza che quelle puoi discriminarle non facendole entrare in centro, ma ai ventenni mica puoi dare dei coppini ogni volta in cui chiedono a Chat Gpt come risolvere il fatto che la migliore amica non è empatica coi tuoi problemi di universitaria.
Grande e prevedibile scandalo alla corte dell’internet, la fragola da diciannove dollari, giacché essa è uno schiaffo alla miseria, e in effetti lo è, ma forse non più di quanto lo sia il mio (che sospetto non sia esclusivamente mio) comprare quand’è stagione fragole che vengono da assai più vicino e hanno costi assai più contenuti, e lasciarle però marcire in frigo invece di gustarle in favor di telecamera.
A che cifra inizia lo spreco? Se di una spesa da cento euro nei giorni successivi ne butti la metà, è più o meno imperdonabile che se ne butti diciannove per una sola fragola fuori stagione e fuori continente? Se butti diciannove euro per una fragola invero pazzesca, è meno grave che se li butti per una fragola che non è nemmeno un granché? Tra le mie obiezioni preferite allo scandalo della fragola, quelle di chi – non so bene se in quanto esperto di fragole o di Giappone – puntualizza che Kyoto non è famosa per la qualità delle sue fragole.
Su Instagram c’è il video d’un tizio che ha la sventura di vivere nella casa i cui esterni vengono filmati come esterni della casa di Carrie Bradshaw in “Sex and the city” (o come s’intitola ora). Il tizio si affaccia esasperato dal turismo imbecille che visita i posti finti come fossero veri e fotografa la porta di casa sua convinta che lì abiti davvero un personaggio di fantasia (non eravamo così scemi prima dell’istruzione obbligatoria: ve la butto lì, forse ha fatto più danni che altro).
Si affaccia e dice «Ricordate che questa non è casa di Carrie, è casa mia», che è il punto di partenza d’un saggio sulle relazioni parasociali che prima o poi qualcuno scriverà, tra venti o trent’anni, se e quando tornerà un pubblico di lettori in grado di capire che non ha davvero un rapporto con la gente cui mette cuoricini sui social, sia essa gente realmente esistente o personaggi di fantasia (non è che Demi Lovato, che mangia la fragola da diciannove dollari prolungando lo scandalo, esista più di Carrie Bradshaw: per chi non la conosce se non via schermo del telefono, non è un personaggio meno di fantasia).
I commenti al video del tizio che si affaccia dicendo che quella è casa sua si dividono in base a un’interessante etica della ricchezza. Non merita la nostra simpatia perché «vive in una casa da quindici milioni di dollari». No, la merita giacché quando l’ha comprata ne valeva solo 241mila (pensa metterti a fare una ricerca sugli atti di vendita delle case altrui per lasciare un commento su Instagram: poi dice che il problema di questo secolo non è l’eccesso di tempo libero).
Ha torto, perché i turisti sono sul marciapiede e il marciapiede non è suo. No, ha ragione perché gli hanno bussato chiedendo di farsi le foto dentro casa sua.
Dov’è Sarah Jessica Parker e perché non fa un comunicato stampa chiedendo al pubblico di lasciare in pace questo tizio. No, non vuol essere lasciato in pace, io lo so perché l’ho visto farsi le foto coi turisti e si vedeva che gli piaceva. Non è vero, è una brava persona, fuori da casa sua c’è una raccolta offerte per tutti quelli che vogliono dargli dei soldi per farsi le foto fuori dalla casa d’un personaggio di fantasia, e quelle offerte vanno in beneficenza per gli animali abbandonati.
Non ho capito come si definisca la ricchezza, ma sono abbastanza certa che “beneficenza” sia la parola che pone fine alle discussioni, nell’americanizzazione d’occidente. D’altra parte i social sono ancora pieni di gente che accusa la Ferragni di aver sottratto cure a bambini malati di cancro, perché il pubblico medio, quello che non compra fragole da diciannove dollari ma compra telefoni da mille, ha imparato la vita dagli sceneggiati americani, e quindi è convinto che i bambini malati di cancro in Italia non li curi il servizio sanitario nazionale pagato con le mie e le loro tasse, ma le donazioni benefiche organizzate dalle miliardarie di buon cuore. Non so come si definisca la ricchezza, ma ogni giorno il paese reale sfrutta la libertà d’espressione per ricordarmi come si definisce l’analfabetismo.
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