Duterte arrestato, Filippine al bivio

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Foto Flickr

 Mario Lombardo 

Alcuni mandati internazionali di arresto sono apparentemente più pesanti ed efficaci di altri e a sperimentarlo in prima persona è stato l’ex presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, preso in custodia martedì mattina all’aeroporto di Manila dalle autorità di polizia del suo paese in seguito a un ordine emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI). Ci sono pochi dubbi che il 79enne ex sindaco della città di Davao abbia gravi responsabilità nei fatti contestati dal tribunale de L’Aia, da collegare alla guerra scatenata contro il traffico di droga durante il suo mandato alla guida del paese del sud-est asiatico. La rapidità con cui l’attuale governo, guidato dal presidente Ferdinand Marcos jr., ha eseguito l’arresto è dovuta però in primo luogo al feroce conflitto interno alla classe politica indigena, conseguenza a sua volta dello scontro in atto sulla direzione da dare alla politica estera filippina nel pieno della competizione tra Cina e Stati Uniti.

Duterte è accusato di “crimini contro l’umanità” in relazione all’offensiva contro i trafficanti di droga – veri o presunti – scatenata tra il 2011 e il 2019. Le indagini della CPI hanno riscontrato moltissimi episodi di arresti illegali ed esecuzioni sommarie anche di minori, portate spesso a termine da sconosciuti poi identificati come agenti di polizia. La fama di politico “law-and-order” di Duterte negli anni in cui era sindaco di Davao aveva contribuito a lanciarlo alla presidenza delle Filippine nel 2016. A livello nazionale, Duterte aveva poi replicato queste iniziative ultra-repressive, trovando inizialmente l’aperto sostegno del governo degli Stati Uniti.

Washington aveva poi progressivamente espresso preoccupazioni per le macroscopiche violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia filippina sotto la protezione del presidente. Gli scrupoli degli USA erano tuttavia da collegare non tanto alle violenze, se non per l’imbarazzo che da esse derivava, quanto per la svolta in politica estera di Duterte, deciso a costruire rapporti più stretti con la Cina a discapito dell’alleato americano.

Duterte è stato dunque arrestato martedì al ritorno da un viaggio a Hong Kong e messo poche ore più tardi su un volo verso l’Olanda. Le stime ufficiali parlano di oltre seimila morti nel quadro della guerra alla droga lanciata dal presidente, anche se varie organizzazioni a difesa dei diritti umani stimano una cifra vicina alle 30 mila vittime. La CPI aveva iniziato a indagare la vicenda nel 2018 e, per tutta risposta, l’anno successivo Duterte aveva ritirato le Filippine dallo Statuto di Roma. Nel 2021, poi, aveva chiesto e ottenuto la temporanea sospensione dell’indagine internazionale, sostenendo che le autorità filippine si stavano occupando del caso. La CPI ha infatti giurisdizione solo se le autorità del paese dove si sono verificati i fatti oggetto delle accuse non svolgono indagini su di essi.

Una sentenza del luglio 2023 aveva però stabilito che il procedimento internazionale poteva ripartire. L’attuale presidente Marcos jr., succeduto a Duterte nel 2022, aveva alla fine deciso di non riportare il suo paese nello Statuto di Roma, ma si era detto disposto a collaborare nell’indagine in corso, anche perché coinvolgeva il suo principale rivale politico. Così, martedì la polizia di Manila ha preso in custodia Duterte con una iniziativa che minaccia di infiammare ancora di più il clima politico in concomitanza con le scosse prodotte dal ritorno di Trump alla Casa Bianca e a poche settimane dalle delicatissime elezioni parlamentari di metà mandato nelle Filippine.

Il conflitto tra le diverse fazioni delle élites politiche filippine era esploso apertamente, dopo mesi di tensioni più o meno latenti, a inizio febbraio con l’approvazione alla camera bassa del parlamento di Manila del procedimento di impeachment nei confronti della vice-presidente, Sara Duterte, figlia dell’ex presidente. È la prima volta nella storia delle Filippine che il vice-presidente viene formalmente incriminato e ciò dà l’idea della gravità dello scontro. Sara Duterte si era candidata con Marcos jr. in seguito a un accordo tra le due potenti famiglie che si basava su un programma di continuità anche nell’ambito della politica estera, volta a privilegiare i rapporti con Pechino e a sfruttare le occasioni di sviluppo offerte dalla Repubblica Popolare.

Una volta eletto, Marcos jr. aveva subito invertito la rotta, assecondando le richieste degli ambienti militari filippini, tradizionalmente legati agli USA, e dell’amministrazione Biden. Le relazioni con la Cina avevano quindi subito un brusco deterioramento, mentre erano state subito lanciate trattative con Washington per stipulare una serie di accordi al fine di garantire la presenza sul territorio filippino di soldati ed equipaggiamenti militari americani. In una parola, per integrare il paese-arcipelago nei piani di guerra degli Stati Uniti contro la Cina.

Queste dinamiche hanno determinato uno scontro frontale tra i clan Duterte e Marcos, i cui rispettivi interessi anche personali sono appunto legati alle due potenze rivali. Con l’impeachment della vice-presidente Sara Duterte e ora con l’arresto del padre di quest’ultima, l’offensiva del presidente in carica, figlio del defunto dittatore di cui porta lo stesso nome, è passata a un livello superiore. L’obiettivo immediato è di vincere le elezioni di “metà mandato” il prossimo 12 maggio ed emarginare i propri nemici politici in un clima internazionale sempre più caldo. Una disputa ancora più accesa per via del fatto che sarà il Senato filippino a decidere della sorte del procedimento di impeachment e un terzo dei 24 seggi che lo compongono si rinnoverà proprio nel voto di maggio.

Le tensioni che attraversano la politica e la società delle Filippine sono acuite, come accennato in precedenza, dal riassestamento della posizione strategica degli Stati Uniti. Il ricorso allo strumento dei dazi, il rimpatrio forzata degli immigrati che risiedono e lavorano in America e la guerra commerciale in preparazione contro la Cina rendono Trump un fattore destabilizzante che, in queste fasi iniziali del suo secondo mandato, si riflette sulle dispute interne di molti paesi, soprattutto se alleati di Washington e in bilico tra USA e Cina. In ultima analisi, la posta in gioco è la posizione e il ruolo delle Filippine nello scontro tra i due colossi e, soprattutto, in un eventuale conflitto armato.

Per il momento, le scelte dell’amministrazione Marcos lasciano pochi dubbi sul percorso suicida intrapreso. Alcuni eventi registrati nelle ultime settimane confermano l’intenzione di fare del suo paese una sorta di rampa di lancio delle future operazioni belliche degli Stati Uniti e dei loro alleati. Le conseguenze materiali per le Filippine in uno scenario di questo genere sono facilmente immaginabili.

Gli Stati Uniti continuano a rafforzare la loro presenza militare nel paese in virtù di un accordo sottoscritto oltre un decennio fa e ampliato nel 2023. L’aspetto più allarmante è il posizionamento del sistema missilistico americano Typhon nelle Filippine. Questi ordigni erano arrivati in occasione di un’esercitazione militare congiunta lo scorso anno e, nonostante il loro impiego fosse stato definito come temporaneo, non sono ancora stati rimossi. I Typhon hanno una gittata tale da raggiungere buona parte del territorio cinese, inclusa la capitale Pechino.

Più in generale, gli USA coordinano e assistono le forze armate filippine nelle operazioni sempre più frequenti che provocano scontri navali con la Cina nel Mar Cinese Meridionale. Qui persistono dispute territoriali a lungo dormienti ma che negli ultimi anni sono state alimentate ad arte da Washington per provocare scontri tra i paesi del sud-est asiatico e la Repubblica Popolare, così poi da denunciare la presunta aggressività di quest’ultima.

Tornando agli sviluppi delle scorse settimane, le Filippine hanno ospitato in rapida successione navi da guerra e delegazioni di alto livello di Francia e Giappone. In parallelo, Manila sta negoziando accordi militari come quello già in vigore con gli USA con altri paesi, come Canada e Nuova Zelanda. L’Australia, invece, ha già sottoscritto un documento di questo genere nel 2022. I vari accordi in questione hanno scopi e termini differenti, ma tutti, oltre ad alimentare le tensioni con la Cina, implicano una maggiore presenza di militari stranieri nelle Filippine e una più intensa cooperazione in ambito militare.

Queste circostanze fanno ovviamente aumentare il rischio di un incidente con Pechino che potrebbe condurre a una guerra di vasta portata. La disputa politica in corso a Manila, aggravatasi con l’arresto di Rodrigo Duterte, peserà quindi in modo decisivo sulla situazione attuale, contribuendo a determinare il futuro prossimo delle Filippine e la traiettoria della competizione tra Cina e Stati Uniti in Asia sud-orientale.

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/10607-duterte-arrestato-filippine-al-bivio.html






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