l’autore mediato (Vincenzo Giglio) – TERZULTIMA FERMATA

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Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 8075/2025, udienza del 18 febbraio 2025, ha affermato che integra il delitto di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 la condotta di chi, agendo quale “autore mediato”, onde evadere le imposte, predisponga fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, che traggano in errore il soggetto tenuto alla presentazione della dichiarazione fiscale, inducendolo ad inserire, in quest’ultima, elementi passivi fittizi.

Provvedimento impugnato

Con sentenza del 10 giugno 2024, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza, con la quale il Gip del Tribunale di Monza ha condannato MG, in relazione al reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., e 2, commi 1 e 2, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per avere, in qualità di liquidatore dell’impresa “G. s.r.l.”, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicato, nelle dichiarazioni presentate per l’anno 2015, elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture emesse per operazioni inesistenti.

Ricorso per cassazione

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, tramite il difensore, chiedendone l’annullamento.

Con un primo motivo di censura, lamenta l’inosservanza della disposizione incriminatrice, sotto il profilo della carenza di un requisito essenziale della fattispecie, ovvero la presentazione della dichiarazione. Sostiene il difensore che il giudice del merito ha ritenuto consumato il reato, che consiste nella presentazione della dichiarazione mendace da parte del ricorrente; tuttavia, l’affermazione risulta contraddittoria, in quanto lo stesso giudice del merito assume che tale dichiarazione è stata in realtà presentata dal curatore fallimentare, e non invece dal ricorrente, il quale, al tempo, rivestiva la carica di liquidatore dell’impresa.

Con un secondo motivo, si lamenta la violazione della regola della necessaria correlazione tra imputazione e sentenza, di cui all’art. 521 cod. proc. pen. Si denuncia che, secondo il giudice del merito, la dichiarazione fiscale è stata presentata dal curatore fallimentare, e non dal ricorrente, già liquidatore dell’impresa, il quale avrebbe fatto realizzare la falsa dichiarazione al curatore fallimentare per mezzo di un inganno, indicandogli una falsa situazione patrimoniale, agendo perciò quale autore mediato, secondo lo schema di cui all’art. 48, cod. pen.; la contestazione invece descrive il fatto come opera del solo ricorrente.

Se ne ricava che la condanna è intervenuta per un reato ritenuto in sentenza come plurisoggettivo, ma contestato come monosoggettivo, in violazione della regola della correlazione.

A sostegno della conclusione, la difesa richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui tale regola non può ritenersi violata nell’ipotesi in cui è contestato il reato plurisoggettivo e la condanna interviene per il monosoggettivo, poiché in tali casi la descrizione del fatto per cui interviene la condanna, riguardando la condotta del singolo, risulta comunque “contenuta” nella contestazione del più ampio fatto concorsuale, ricavandone che, nel caso inverso, in cui la condanna interviene per il reato plurisoggettivo ma è contestato quello monosoggettivo, il primo non potrebbe ritenersi comunque contenuto nel secondo, intervenendo la condanna per un fatto più ampio, e dunque diverso, da quello contestato.

Con un terzo motivo, la difesa denuncia il vizio di motivazione relativamente al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Lamenta che il giudice non ha valorizzato gli elementi, di segno positivo, dell’incensuratezza e della lontananza nel tempo dei fatti, ritenuti invece soccombenti di fronte alla mancata riparazione del danno.

Decisione della Corte di cassazione

…Configurabilità della responsabilità dell’autore mediato nella falsa dichiarazione di imposta

Il primo motivo, con cui si lamenta il mancato compimento della condotta ad opera del ricorrente, è infondato.

In proposito merita premettere che, in base all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, è punita la condotta tipica di chi realizza una falsa dichiarazione d’imposta per aver indicato elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti riportanti una falsa rappresentazione della realtà.

Tuttavia, la disposizione non prevede che essa debba essere realizzata necessariamente, e per intero, per mano del soggetto che materialmente presenta la dichiarazione; per cui non può escludersi la responsabilità anche di chi lo porta a presentare tale dichiarazione, avendolo tratto in inganno, con indicazioni false circa lo stato patrimoniale dell’impresa, rappresentato con passività maggiori del reale. Non può perciò negarsi la responsabilità anche dell’autore mediato” che, attraverso quell’inganno, porti l’altro soggetto a presentare una dichiarazione falsa: infatti, la presentazione del falso dipende dalla condotta dell’ingannato, ma questa condotta è stata solo Io strumento per realizzare l’opera dell’ingannatore, che si pone come il vero autore del fatto, seppure “mediato”.

Dunque, correttamente si è affermato che integra il delitto di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 la condotta di chi, agendo quale “autore mediato”, onde evadere le imposte, predisponga fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, che traggano in errore il soggetto tenuto alla presentazione della dichiarazione fiscale, inducendolo ad inserire, in quest’ultima, elementi passivi fittizi. Ciò vale, ad esempio, per l’amministratore di fatto di una società che abbia consapevolmente indicato, nelle scritture contabili, elementi passivi fittizi, inseriti nella dichiarazione presentata dall’amministratore giudiziario (Sez. 3, n. 17211 del 14/12/2022, dep. 2023, Rv 284551 – 01).

Con riguardo al caso in esame, merita rilevare che la difesa non ha contestato, neppure con l’atto di appello, la conoscenza, da parte del ricorrente, della natura fittizia degli elementi passivi introdotti con la relativa documentazione e, anzi, ha prospettato che: le fatture erano state emesse per operazioni inesistenti; il ricorrente le aveva messe a bilancio; tali fatture erano state fornite dal ricorrente al curatore; quest’ultimo le aveva utilizzate, insieme al bilancio, per

predisporre la dichiarazione. Sarebbe stato allora evidentemente illogico ritenere il ricorrente estraneo al fatto, accedendo alla tesi prospettata dal difensore, solo perché, in veste di liquidatore, non aveva materialmente presentato la falsa dichiarazione.

…Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza

Il secondo motivo — che contesta la violazione della regola di cui all’art. 521 cod. proc. pen. per essere la condanna intervenuta per un fatto sostanzialmente plurisoggettivo, ex art. 48 cod. pen., tuttavia contestato in forma monosoggettiva, senza alcun riferimento al contributo dato dal curatore e all’inganno nei confronti di questo — è fondato.

In proposito merita ricordare che si ha violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito; poiché la verifica dell’osservanza del principio va condotta in funzione della salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato, la sua violazione è ravvisabile solo qualora la fattispecie descritta nel capo di imputazione venga mutata nei suoi elementi essenziali, in modo tale da determinare uno stravolgimento dell’originaria contestazione, onde emerga dagli atti che su di essa l’imputato non ha avuto modo di difendersi (così, Sez. 3, n. 22301 del 07/05/2024, non mass.; Sez. 2, n. 30488 del 09/12/2022, dep. 2023, Rv. 284953 – 01).

Se ne ricava che la regola deve ritenersi violata nell’ipotesi in cui la sostanza dell’imputazione risulta mutata al momento della condanna, con ciò precludendo l’esercizio del diritto di difesa dell’imputato; e, per contro, che essa deve ritenersi rispettata se quel fatto si mantiene inalterato nei suoi tratti essenziali, con la conseguenza che la difesa non perde l’opportunità di sollevare censure diverse da quelle proposte sulla base dell’imputazione concretamente formulata.

Nel caso in esame, tuttavia, la descrizione del fatto oggetto di condanna è sostanzialmente diversa da quella contenuta nell’imputazione.

La condanna è intervenuta per il fatto di aver fornito le fatture e le indicazioni false al curatore fallimentare, che ha presentato la falsa dichiarazione, mentre l’imputazione si riferiva ad una falsa dichiarazione direttamente presentata dall’imputato, senza alcun riferimento a una condotta del curatore, che non viene menzionato.

Per il giudice del merito, il curatore è stato un mezzo per la realizzazione della falsa dichiarazione, però riconducibile al ricorrente; dunque, il fatto risulta sostanzialmente opera di quest’ultimo, mentre il curatore è solo un tramite per arrivare alla falsa dichiarazione.

Stando così le cose, è evidente che la condanna è strutturata nel senso di stigmatizzare la posizione del ricorrente quale unico autore del fatto, mediante inganno a carico del curatore, rilevante ai sensi dell’art. 48, cod. pen.

Si è delineato, cioè, un fatto sostanzialmente monosoggettivo, che, tuttavia, non è sovrapponibile a quello descritto nell’imputazione, perché l’applicazione dell’art. 48 cod. pen., implica un errore determinato nell’autore immediato dall’inganno dell’autore mediato; errore ed inganno dei quali l’imputazione non tiene conto.

Il terzo motivo, riferito alle circostanze attenuanti generiche deve essere ritenuto assorbito, perché logicamente subordinato all’accertamento della responsabilità penale.

In conclusione, la sentenza impugnata e la sentenza di primo grado devono essere annullate senza rinvio, in applicazione dell’art. 522 cod. proc. pen., con trasmissione degli atti al Tribunale di Monza per l’ulteriore corso del procedimento, nel quale si valuterà l’opportuna modificazione dell’imputazione.



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