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Anche se c’è, almeno, una novità importante (la possibilità di fare debito comune per 150 miliardi da spendere in progetti comuni), ci sono diversi aspetti ancora non chiari nel piano presentato da Ursula von der Leyen la settimana scorsa per “riarmare” l’Unione. Non si capisce, ad esempio, perché tra le cinque strade che si individuano per finanziare un grande investimento (800 miliardi di euro nei prossimi dieci anni) si decida di citare la possibilità data agli Stati di riallocare al Piano i fondi delle politiche di coesione. Non si capisce quest’ultima cosa perché rischia di togliere consenso ad un progetto che ne ha, invece, un assoluto bisogno. Tuttavia, è verissimo che le politiche di coesione hanno bisogno di una riforma radicale. Come ha ricordato più volte il vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto che delle politiche di coesione è responsabile da qualche mese.
Sono 392 i miliardi che il budget della Commissione Europea dedica ai Fondi (di Sviluppo Regionale, Sociale Europeo, di Coesione e quello per una “Transizione Giusta”) per ridurre le distanze: tra Regioni, all’interno delle Regioni e sul mercato del lavoro tra fasce di popolazione diversamente qualificate. SI tratta, di gran lunga, della più grande voce all’interno del bilancio comunitario ed è gestita da due diverse direzioni: quella per le politiche regionali e quella dedicata all’occupazione (guidata dall’italiano Mario Nava).
È anche una delle politiche più antiche dell’Unione (il Fondo Sociale Europeo fu istituito con il Trattato di Roma del 1957) ed è forse per questo motivo che ne è necessario un forte ripensamento. Del resto, sono i numeri a dire che le politiche europee destinate a ridurre le diseguaglianze debbano essere ripensate. Quelli dell’Eurostat indicano che le differenze tra Regioni (misurata in deviazione rispetto alla media dei redditi pro capite tra i Paesi che hanno beneficiato dei fondi strutturali sin dall’inizio) sono in aumento a partire dal 2008. E c’è poi la questione famosa della spesa: alla fine del 2024, secondo la piattaforma della Commissione, quando avevamo già superato la metà del periodo entro il quale i fondi andrebbero spesi, solo il 6,4% dei 392 miliardi erano atterrati su famiglie e imprese. L’Italia era più indietro al quint’ultimo posto con il 3,6% ed era, invece, l’Olanda a far registrare la prestazione migliore (13,9). Ma come ripensare lo strumento conservandone un obiettivo che cresce al crescere delle diseguaglianze? Tre le ipotesi strategiche attorno alle quali il Commissario Fitto potrebbe, forse, articolare la proposta.
Giusta l’ipotesi che fa qualcuno di cambiare il criterio che fa scattare i pagamenti alle Regioni (e ai Ministeri) responsabili dei programmi. Attualmente le amministrazioni pubbliche nazionali sono pagate dalla Commissione quando rendicontano le spese; in futuro, le risorse potrebbero essere trasferite al raggiungimento di specifici obiettivi, come per il Dispositivo per il Rilancio e la Resilienza (l’RRF che in Italia è il PNRR). Ma è sbagliato immaginare di applicare alle nuove politiche di coesione quella valanga di indicatori (i 7092 “milestones” e “targets” del RRF) che hanno reso la gestione del PNRR complicata e poco trasparente.
Bisogna, poi, avere un meccanismo chiaro e flessibile per assegnare l’onore/ onore di gestire i programmi. Se una Regione non raggiunge i risultati, va sostituita a metà periodo: trasferisco le risorse più in basso – i Comuni che in quella Regione hanno prestazioni migliori – o più in alto – governo nazionale. Facendo in modo che le risorse continuino a raggiungere i cittadini che hanno bisogno di quell’intervento. Stesso discorso vale – verso il basso – per i Ministeri che, come dicono le evidenze della Commissione, non necessariamente sono capaci di spendere meglio.
Infine – non meno difficile – vanno accorpati i diversi fondi (già lo fanno alcune Regioni italiane) mettendo insieme, ad esempio, le azioni per le imprese e quelle di formazione. In maniera da avere strategie tarate su un territorio. E non contenitori di bandi appiattiti dalla necessità di rispettare un regolamento.
Decidere, finalmente, di doverci proteggere ha senso politico se ricordiamo che lo facciamo per proteggere i valori che ci definiscono. Ed è per questo un errore far percepire che c’è una scelta da fare tra difesa e coesione. Ma è assolutamente necessario portare le politiche di coesione su una curva più alta di efficienza: c’è bisogno di idee nuove che non possono più venire da si è occupato di certi dossier stancamente per decenni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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