Il cosiddetto Save Act, Safeguard American Voter Eligibility, presentato dai repubblicani della Camera come HR 22, afferma di voler proteggere il diritto al voto degli americani. In realtà, se dovesse passare, metterebbe quel diritto a rischio per milioni di persone.
Secondo il Save Act tutti i cittadini americani che vogliono registrarsi per votare o aggiornare la propria registrazione elettorale (a causa di un trasloco, un matrimonio, una transizione di genere), dovrebbero presentare di persona una prova documentale della propria cittadinanza. Il che, per la stragrande maggioranza degli americani, significa il possesso di un passaporto valido o del certificato di nascita.
Come evidenzia il rapporto del Center for American Progress 146 milioni di cittadini americani non hanno un passaporto valido (per contestualizzare: alle presidenziali del 2024 hanno votato 153 milioni di americani). In sette stati, meno di un terzo dei cittadini ha un passaporto valido.
Fra chi ha un reddito inferiore a 50.000 dollari all’anno, solo un americano su 5 possiede un passaporto valido, e tenendo conto che l’83% delle donne Usa cambia il proprio cognome quando si sposa, 69 milioni di donne americane potrebbero non avere un certificato di nascita con il proprio nome legale, da usare come prova di cittadinanza. In aggiunta il Save Act esclude la prova del cambio di nome o il certificato di matrimonio come prova di identità, e qui rientra anche la comunità transgender.
Il Save Act renderebbe anche impossibile inviare per posta una domanda di registrazione, ed eliminerebbe la possibilità di condurre campagne di registrazione degli elettori. Nemmeno le patenti di guida rilasciate dal governo e i documenti d’identità militari o tribali soddisfano le esigenze del disegno di legge.
Anche se il Save Act non menziona esplicitamente le donne, è evidente che la norma sulle persone che hanno cambiato cognome le penalizzi. La misura è stata presentata per la prima volta l’anno scorso, dal deputato repubblicano del Texas Chip Roy, e poi approvata dalla Camera a maggioranza repubblicana, ma non è mai arrivata al voto del Senato, fortemente diviso.
A gennaio Roy ha ripresentato il disegno di legge e, sebbene sia probabile che venga nuovamente approvato dalla Camera, dovrà affrontare una dura battaglia al Senato, dove ha bisogno del voto dei democratici.
Ora che Trump ha iniziato ad attuare il programma del secondo mandato, diventa sempre più chiaro, nonostante lo abbia sempre negato, che molti dei piani che ha presentato sono strettamente allineati con quelli dettagliati nelle 900 pagine del manuale Progetto 2025, in cui si definiscono i modi per riformare il potere esecutivo. Supervisionato dalla Heritage Foundation, il Progetto 2025 è un’iniziativa su più fronti, ideata per fornire una tabella di marcia al futuro presidente repubblicano, vale a dire Trump.
Uno degli aspetti principali del Progetto 2025 riguarda proprio la restrizione del diritto al voto in ogni modo possibile, che va a coniugarsi con l’attenzione speciale nei confronti dei diritti delle donne. Il progetto ha esplicitamente dichiarato di voler «rimettere a fuoco l’uguaglianza di genere» anche attraverso un cambio di retorica che, ad esempio, include la ridenominazione dell’Ufficio Usaid «per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile», in Ufficio Usaid «per le donne, i bambini e le famiglie». E questa è de facto la via intrapresa da Trump, che ha licenziato tutte le donne a capo di programmi che ne difendono i diritti lasciando le posizioni scoperte, e cancellato programmi come quello per la protezione dei lavoratori con contratto federale dalla discriminazione sul posto di lavoro. Protezioni, queste, garantite da un ordine esecutivo che è stato rispettato per sessant’anni dai presidenti di entrambi i partiti.
Questo decreto è stato uno strumento importante per lo sradicamento della discriminazione di genere: ha portato alla luce disparità salariali difficili da scovare e contribuito all’aumento del numero di donne in posizioni di leadership di livello superiore e più retribuite. Ora che l’amministrazione Trump ha annullato l’ordine esecutivo nella sua interezza, tutti i lavoratori soggetti a discriminazioni da parte dei datori di lavoro, in particolare le donne e ancora più in particolare le donne di colore, sono lasciati senza possibilità di fare ricorso. E quando è lo stato a fare la prima mossa, privati seguono a ruota.
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