La Grande Rassegnazione 2.0: stiamo smettendo di investire in noi stessi?

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Non più tardi di eri, un ex-collega mi ha raccontato di essersi inscritto a una formazione per migliorare la sua impiegabilità: “Ho cominciato a lavorare a una exit strategy”, mi ha detto. È da un po’ in una posizione scomoda all’interno di un’azienda difficilina. Quindi ha deciso di investire in formazione.

Mentre pensavo al fatto che era una buona idea, ho anche pensato che è da un po’ che vedo solo una forma di utilitarismo, nelle scelte formative delle persone che conosco e con le quali lavoro. Ho come l’impressione che sia tutto finalizzato a qualcosa che va ben oltre l’acquisizione di competenze. E non come lo era in passato. Questa impressione mi ha fatto scattare un paio di riflessioni – e quando rifletto in maniera strutturata, di solito comincio a fare ricerche. Qui di seguito trovate il risultato di questo “pensarci su”.

Un cambiamento di attitudine

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’ondata di cambiamenti senza precedenti nel mondo del lavoro e della crescita personale. Prima, il mantra dominante era quello della reinvenzione: migliorarsi, trovare nuovi stimoli, inseguire il proprio potenziale. La pandemia ha accelerato questo processo, spingendo milioni di persone a lasciare il proprio impiego nella cosiddetta Great Resignation, la Grande Dimissione. Sembrava l’inizio di una nuova era in cui il benessere e la realizzazione personale avrebbero finalmente avuto la priorità sulla semplice sopravvivenza economica.

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Oggi, però, il vento è cambiato. Sempre più persone non stanno solo lasciando il lavoro, ma stanno smettendo di investire in formazione, ovvero su se stesse. Il desiderio di crescita sembra essersi spento, sostituito da una forma di rassegnazione sottile e pervasiva. Non si tratta di un disinteresse consapevole, ma di un progressivo distacco da quel bisogno di miglioramento che fino a pochi anni fa sembrava inarrestabile. Se la Great Resignation è stata un atto di ribellione, la fase che viviamo ora somiglia più a una stanchezza diffusa, a un limbo esistenziale in cui l’unico obiettivo è rimanere a galla.

Ma cosa è successo? Perché molte persone, che fino a poco tempo fa investivano energie nel proprio sviluppo personale, hanno perso la spinta? E, soprattutto, perché?

Dalla crescita personale alla stanchezza cronica: il collasso della motivazione

Una volta soddisfatti i bisogni primari di sicurezza e stabilità, gli esseri umani aspirano naturalmente alla realizzazione del proprio potenziale (sì, esatto, è la famosa piramide di Maslow). Ma cosa accade quando la stabilità stessa diventa un lusso? In un’epoca di precarietà economica, burnout diffuso e crisi globale, molte persone si ritrovano a gestire non un percorso di crescita, ma una continua lotta contro l’incertezza.

La crescita personale, che un tempo era vista come una scelta, oggi appare sempre più come un dovere sociale. Se un tempo il miglioramento era motivato dalla curiosità e dal desiderio di evolvere, oggi è percepito come un requisito indispensabile per restare competitivi. Corsi di formazione, coaching, aggiornamenti professionali: tutto sembra far parte di una macchina che spinge a fare sempre di più, senza lasciare spazio a una vera riflessione su cosa sia davvero importante. L’ansia da prestazione ha sostituito l’entusiasmo, e molte persone, di fronte a questa pressione costante, hanno semplicemente deciso di fermarsi.

Ma oltre alla pressione sociale, esiste un fattore ancora più sottile e insidioso: il costo psicologico dell’incertezza. Sono passati più di vent’anni da quando Demerouti aveva teorizzato che le risorse personali come energia, motivazione e resilienza sono fondamentali per affrontare le richieste del mondo del lavoro e della società. Tuttavia, quando le condizioni esterne si fanno instabili – come accade in un periodo di crisi economica e sociale – queste risorse tendono a esaurirsi, portando a un fenomeno noto come learned helplessness, teorizzato invece da Martin Seligman in uno dei migliora anni di sempre, il 1975. Quando le persone percepiscono di non avere alcun controllo sulla propria crescita, smettono di tentare. E questo include anche investire in formazione.

Così, mentre la Grande Dimissione nasceva dall’idea di prendere in mano il proprio destino, oggi ci troviamo davanti a un fenomeno opposto: la Grande Stagnazione.

Dal desiderio di libertà all’immobilismo psicologico

Se nel 2021 il problema era un lavoro alienante e privo di significato, nel 2025 il problema è la perdita di un orizzonte motivazionale. Lo smart working, inizialmente percepito come un’opportunità di libertà, si è trasformato per molti in una gabbia invisibile, riducendo le interazioni umane e spegnendo la creatività che spesso nasce dal confronto con gli altri (non per tutti: gli introversi come me si scaricano solo inutilmente, in mezzo alla gente, ma questa è un’altra storia).

La tanto celebrata flessibilità, che prometteva di restituire alle persone il controllo sulle proprie scelte professionali, ha rivelato il suo lato oscuro: anziché generare più possibilità, ha creato incertezza, instabilità e un costante senso di precarietà.

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Vi sarete trovati anche voi davanti alla sezione dentifrici di una grande supermercato: prodotti tutti simili e tutti diversi tra i quali scegliere. Un eccesso di opzioni può avere un effetto paralizzante, generando ansia piuttosto che libertà. Oggi ci troviamo proprio in questa condizione: bombardati da infinite possibilità di crescita, corsi, competenze da acquisire, ma senza una direzione chiara. Il risultato non è una maggiore realizzazione personale, ma un senso di stanchezza decisionale che porta all’immobilismo, anche quando dovremmo scegliere se investire in una formazione.

Come si esce da questa paralisi?

Se la spinta a migliorarsi si è trasformata in un peso, probabilmente il problema non è la crescita in sé, ma il modo in cui la stiamo vivendo. Il primo passo potrebbe essere quello di ridefinire il concetto stesso di crescita personale. Non dovrebbe essere un’imposizione sociale, ma un percorso autentico, scelto in base ai propri interessi e alle proprie energie, piuttosto che dettato dalla paura di rimanere indietro. Invece di accumulare nuove competenze in modo compulsivo, potremmo chiederci: cosa mi interessa davvero?

Una delle possibili soluzioni potrebbe essere di smetterla di fissare traguardi sempre più ambiziosi, ma piuttosto adottare un approccio più umano e sostenibile, basato su piccoli passi e su scelte che abbiano un significato reale per noi.

Un altro aspetto fondamentale è accettare che non possiamo essere sempre al massimo delle nostre capacità. La narrativa della crescita infinita è insostenibile e rischia di generare solo ulteriore frustrazione. Esistono momenti in cui è naturale rallentare, fare il minimo indispensabile, dedicarsi al riposo senza sentirsi in colpa.

Forse la domanda giusta non è come fare di più, ma perché abbiamo smesso di investire nella formazione. Cosa ci entusiasma ancora? Dove troviamo energia? Possiamo ridefinire il successo in un modo più autentico e meno ossessionato dalla performance?

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È una questione di costi?

Se per anni il concetto di crescita personale è stato alimentato non solo dalla motivazione individuale ma anche dal supporto delle aziende, oggi questa dinamica sembra essersi interrotta. Molte imprese, spinte dall’incertezza economica e dalla necessità di ridurre i costi, hanno drasticamente tagliato le risorse dedicate alla formazione e allo sviluppo dei dipendenti. Il messaggio implicito è chiaro: l’apprendimento continuo è ancora necessario, ma i costi devono essere condivisi o, addirittura, spostati a carico del singolo individuo.

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Il problema è che i percorsi formativi di qualità hanno un costo sempre più alto, diventando un lusso per pochi. Master, corsi di aggiornamento, certificazioni professionali richiedono un investimento economico e di tempo che molti non possono più permettersi, soprattutto in un contesto in cui la precarietà lavorativa assorbe già gran parte delle energie. Di conseguenza, l’idea stessa di investire su se stessi diventa meno accessibile, trasformando la crescita personale in un privilegio piuttosto che in un diritto.

Nonostante le sfide, molte aziende riconoscono il valore strategico della formazione. I dati variano, ma si può dire che circa il 63% delle aziende si è dichiarato interessato a continuare a investire in formazione, e una su quattro intende migliorare ulteriormente le competenze dei dipendenti. Tuttavia, esistono differenze settoriali: in Italia, nel settore finanziario, il 64,6% delle aziende offre percorsi di formazione, mentre nei settori della ristorazione e dell’alberghiero, la percentuale scende al di sotto del 25%.

La vera domanda: torneremo a crederci?

Non serve un nuovo corso di formazione. Non serve nemmeno una rivoluzione professionale. Forse serve solo il coraggio di tornare a credere che vale ancora la pena scommettere su noi stessi. Ma per farlo, dobbiamo prima riconoscere che non siamo noi a essere “difettosi” o privi di motivazione. Siamo parte di un sistema che ha reso il miglioramento personale un obbligo, che ha sostituito la curiosità con l’ansia da prestazione, che ci ha chiesto di investire senza darci gli strumenti per farlo.

Significa anche pretendere che le aziende e la società tornino a credere nel valore delle persone, non solo quando sono produttive, ma quando sono umane.

Scommettere su noi stessi, oggi, è un atto di resistenza. È scegliere di non lasciarsi risucchiare dal cinismo, di non accettare che il futuro sia solo un susseguirsi di incertezze. È credere che, anche se il mondo sembra chiederci di sopravvivere, noi possiamo ancora trovare il modo di crescere. A modo nostro.

E tu, oggi, su cosa scommetteresti?

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