di Aldo A. Mola
Sonnambuli?
L’odierna crisi dell’Europa non sta nell’affannosa ricerca di una risposta armata, comunque tardiva, a un’indefinita minaccia militare esterna, bensì nella mancanza di consapevolezza di sé, di equilibrio e di razionalità. L’Europa non pare un Serpente, simbolo di Sapienza, ma una serpentina di velleità, prima fra tutte quella di abolire – ovviamente con il voto dei 27: nessuno discepolo di Origene – il principio di unanimità. Essa è preda di pulsioni emotive, che la spingono a cercare modelli di comportamento al di fuori di sé, del suo patrimonio storico e a pensare più da contabili che da statisti. Non è la prima volta. Gli storici sono pervenuti pressoché unanimi alla conclusione che nel 1914 l’Europa, culla di civiltà e del diritto internazionale (mera convenzione quest’ultimo, in assenza di una fonte riconosciuta dalle parti), precipitò da sonnambula nella conflagrazione che dette inizio alla guerra dei Trent’anni, dal 1914, appunto, al 1945: approdo catastrofico, segnato dalla sua spartizione in due aree di influenza, la statunitense, collaborativa e simpatizzante, e la sovietica, vendicativa e totalitaria.
Alla vigilia della Grande Guerra in Europa fiorivano movimenti internazionalistici e pacifisti come mai prima. Parevano vittoriosi. Basti ricordarne le manifestazioni più spettacolari, dai moderni Giochi Olimpici alle interlingue (l’“esperanto”, fra tutte), dalle Esposizioni universali ai Premi Nobel, in specie quelli per la pace, conferiti nel 1901 a Henri Dunant, ideatore della Croce Rossa a seguito della battaglia franco-austriaca di Solferino (giugno1859), all’Istituto di diritto internazionale di Gand, all’italiano Ernesto Teodoro Moneta (poi interventista) e all’Ufficio Internazionale della pace di Berna. A cospetto della guerra tra il 1914 e il 1918 l’unico Premio Nobel per la pace fu assegnato nel 1917 alla Croce Rossa Internazionale, che faceva il possibile per lenire gli effetti più atroci della “inutile strage” (Benedetto XV dixit).
Tra i tentativi di portare l’Europa fuori dalla fornace ardente spiccò la proposta di creare la Società delle Nazioni (con tanto di statuto e bandiera: azzurra con stelle arancioni) avanzata dal Congresso delle Massonerie dei paesi dell’Intesa e neutrali (Parigi, 28-30 giugno 1917), superata l’8 gennaio 1914 dai Quattordici punti enunciati dal presidente degli USA, Wilson, quale base giuridica, ideologica e morale dell’intervento americano contro gli Imperi Centrali. I suoi capisaldi erano: libertà assoluta di navigazione sui mari, sia in pace sia in guerra; soppressione delle barriere economiche (dazi); riduzione degli armamenti; composizione pattizia dei conflitti coloniali; restaurazione del Belgio; “sviluppo autonomo” dei popoli degli imperi austro-ungarico e turco; libertà di navigazione attraverso i Dardanelli; rinascita della Polonia; indipendenza garantita di Romania, Montenegro e Serbia, con accesso al mare di quest’ultima; rettifica delle frontiere italiane “secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”, e quindi tramite plebisciti che Roma vedeva come il fumo negli occhi nella certezza che nell’Alto Adige e da Gorizia all’Istria sarebbero prevalsi germanofoni e slavofoni. Silenzio sulla sorte della Germania e non riconoscimento dei trattati pregressi fra gli stati in guerra, compresi quelli tra la Triplice Intesa, alla quale l’Italia aveva aderito (non alla pari) con l’“arrangement” di Londra il 26 aprile 1915. Quei princìpi furono alla base del “Covenant” di Versailles istitutivo della Lega (poi Società) delle Nazioni (28 aprile 1919, assente la delegazione italiana per protesta per il mancato riconoscimento di Fiume all’Italia, del resto non previsto dall’Accordo di Londra). Tra i suoi 21 articoli il più interessante in prospettiva di lungo periodo era l’ultimo, secondo il quale «i trattati di arbitrato, le intese regionali, come la “dottrina” Monroe (“l’America agli Americani”, enunciata il 2 dicembre del 1823, Nda), che assicurano il mantenimento della pace, non saranno considerati incompatibili con alcuna disposizione del Patto». Era la conferma del primato mondiale degli USA, mentre la Russia era in preda alla Rivoluzione (inizialmente guardata con indulgente simpatia dalla stessa“America”).
Guerra giusta?
Nel 1914-1918 la Grande Guerra, divenuta mondiale dal 1917 e proseguita, strisciante, sino al secondo conflitto planetario (1939-1945), fece da spartiacque della storia: una svolta suggellata il 6-8 agosto 1945 dal lancio di due bombe atomiche “pedagogiche” sul Giappone parte degli Stati Uniti. Nel 1914 non tutti gli uomini “di pensiero” si schierarono per la guerra. Esemplare fu il francese Romain Rolland (1866-1944), che quello stesso anno pubblicò la Dichiarazione di indipendenza dello spirito, “au dessus de la mélée”, alla quale aderirono Albert Einstein, Maksim Gorkij, Bertrand Russell e Benedetto Croce. Dall’esito della guerra altri insigni storici dedussero “Il tramonto dell’Occidente”, titolo dell’opera più famosa del tedesco Oswald Spengler (1880-1936), pubblicata in Italia da Julius Evola, e “La crisi della Civiltà” dell’olandese Jan Huizinga.
Oggi non si levano voci altrettanto autorevoli a interpretazione della crisi di panico che sta travolgendo l’Europa. Eppure basta un poco di memoria per capire che ogni sforzo bellico si traduce in militarizzazione della società e nella fatale suddivisione dei cittadini in “leali” (o succubi, che dir si voglia) e in potenziali “traditori”, con tutte le conseguenze del caso. Il dissenso diviene reato, a cospetto della “guerra giusta”. Nel 1920 l’Europa cercò di risalire la china con l’insediamento, a Ginevra, della Società delle Nazioni, presieduta dall’antico pacifista francese Léon Bourgeois, massone, subito Premio Nobel per la pace. Ma sappiamo come finì, anche perché proprio gli USA, che ne avevano voluto la nascita, non vi s’intrupparono
Trentacinque anni orsono, al tempo della prima guerra in Iraq, Giovanni Paolo II ammonì che nel mondo attuale, a differenza di quanto accadde nei secoli andati, non vi sono più “guerre giuste”. Ogni azione militare investe popolazione e ambiente in spazi illimitati, con ripercussioni imprevedibili, durata incalcolabile e conseguenze irreversibili. Pertanto la scelta tra la pace e la guerra non può più essere lasciata in balia dei governi. La credibilità degli Stati dipende dalla loro capacità di soddisfare i diritti non negoziabili dei cittadini, oggi proclamati (anche se non assicurati) da nuove forme di statualità e quindi da nuove percezioni della cittadinanza. Ne è una anticipazione il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004: una Carta di 448 articoli, con molti protocolli aggiuntivi e un preambolo che richiama le «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto». Secondo alcuni il Trattato è reticente ed elusivo. Non ricorda in modo esplicito le radici greco-romane ed ebraico-cristiane. Tuttavia sulle sue prospettive esso è assai chiaro. Uniti nella diversità, gli Stati aderenti si dicono infatti «convinti che l’Europa, ormai riunificata dopo esperienze dolorose, intende avanzare sulla via della civiltà, del progresso e della prosperità per il bene di tutti i suoi abitanti, compresi i più deboli e bisognosi; che vuole restare un continente aperto alla cultura, al sapere e al progresso sociale; che desidera approfondire il carattere democratico e trasparente della vita pubblica e operare a favore della pace, della giustizia e della solidarietà nel mondo». Essa non può quindi ammettere, men che meno al proprio interno, la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, che ne costituiscono il cardine. E’ l”umanesimo” evocato dal presidente Emmanuel Macron nel discorso-appello del 5 marzo.
La missione civile dell’Italia
All’avvento dell’Europa odierna l’Italia ha dato e dà un contributo fondamentale. Quando nacque, nel 1861, la Nuova Italia si affermò come punto di arrivo della lunga lotta di indipendenza da domini stranieri, di “liberazione”, e al tempo stesso quale modello di libertà per i popoli senza Stato. Senza nulla togliere a Vincenzo Gioberti e ad altri fautori dell’unione degli italiani, la proclamazione del Regno dette corpo all’unico vero importante “primato degli italiani”: non una presunta superiorità civile e morale sulle altre genti ma la capacità di fare da rompighiaccio per l’emancipazione dei popoli all’insegna della fratellanza e della cooperazione, nel superamento di antichi contrasti per motivi religiosi o etnici e per rivalità anacronistiche. I patrioti italiani insegnarono che la memoria del Risorgimento non serve per tener desti rancori ma per spiegarne le motivazioni e disinnescare la micidiale carica di conflitti e di morte. È quindi del tutto infondato attribuire al Risorgimento e all’unificazione una valenza etnocentrica o nazionalistica.
L’Italia si affermò come energia liberatrice per sé e per tutti i popoli. La sua premessa fu il riconoscimento dell’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge (articolo 24 dello Statuto del regno di Sardegna, promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 4 marzo 1848 e poi esteso al regno d’Italia). Dalle guerre per l’indipendenza essa risorse e col tempo fu accettata nel diritto, oltre che nei fatti, anche da chi, come l’Impero d’Austria e la Santa Sede, avevano dovuto cederle vaste regioni. Le “patrie battaglie” furono dunque accadimenti del passaggio tra l’antico e il nuovo, ma non costituiscono il nucleo immarcescibile del Risorgimento: che è “liberazione”.
Per cogliere la complessità dell’Italia attuale non basta dunque fermarsi alla carta fisica. Occorre ripercorrere le carte storiche. Ne occorre almeno una per ogni secolo. Vuol dire che per avere una visione almeno sommaria del lungo cammino degli “Stati” che si sono susseguiti in Italia dalla fine (convenzionale) dell’Impero romano in Occidente (476 d.C.) alla metà dell’Ottocento occorre un “album” di almeno sedici pagine. Quello italiano è un caso unico tra gli Stati dell’Europa centro-occidentale.
Nel corso dei secoli il territorio dalle Alpi alla Calabria e alle grandi isole appare brulicante di popoli e seminato di eventi, che rendono affascinante e al tempo stesso problematico comprendere l’intreccio tra spazio geografico e vicende politico-militari, il lungo cammino da “abitanti in Italia” a “cittadini italiani”. L’avvento dello Stato unitario tra il 1860 e il 1870 fu ispirato e guidato da patrioti, cioè da fautori dell’indipendenza, dell’unità e delle libertà. Gli indipendentisti erano convinti che l’Italia dovesse essere unita, ma la maggior parte di essi non mirava affatto all’avvento di un governo accentratore, né a norme uniformi da un capo all’altro del Paese. Alcuni pensavano che l’unione dei popoli d’Italia fosse meglio dell’unificazione burocratica e che una federazione o lega tra gli Stati esistenti avrebbe assicurato l’unitarietà degli italiani senza costrizioni o sacrificio delle specificità esistenti. I più pensavano che l’Italia dovesse avere una sola capitale e quasi tutti, a cominciare da Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Camillo Cavour, la identificavano con Roma, ma parecchi ritenevano che forse era meglio riconoscere al papa un ruolo rappresentativo “super partes”, quale presidente della “lega degli italiani”: un progetto che però cozzava con la missione della chiesa cattolica, chiamata ad accentuare il Magistero universale (religioso, morale, pedagogico e quindi “politico”) proprio mentre perdeva il rango di Stato.
Per altro, anche i fautori dell’unificazione dichiaravano che la diversità costituiva non un impaccio ma una ricchezza. Il dibattito su come unire o unificare gli italiani in un solo Stato (confederale, federale, unitario, accentrato…) fu interrotto dal precipitare degli eventi tra l’aprile del 1859 e l’ottobre del 1860. In soli diciotto mesi il regno di Sardegna divenne regno d’Italia. L’azione precorse il pensiero.
Proprio la rapidità del passaggio da sette Stati a quello unitario conduce a inquadrare il Risorgimento in una visione europea anziché riduttivamente italocentrica. L’unificazione prese corpo nel quadro delle tensioni e delle lotte tra le maggiori potenze per l’egemonia sull’Europa. Queste finirono per accettare, sia pure controvoglia, l’indipendenza e l’unità della Nuova Italia, che nessuna di esse aveva davvero auspicato. Nessuna potenza europea assecondò il Risorgimento quale costruzione di uno Stato che facesse coincidere i confini politici dell’Italia con quelli geografici, raggiunti, infatti, solo nel 1918-1924. Strenuamente combattuto dall’impero d’Austria, contraria a perdere le sue terre più popolose e ricche, il processo di aggregazione alla Casa di Savoia venne assecondato per brevi tratti da chi, come Francia e Gran Bretagna, tra loro rivali, lo accettò non per compiacere gli italiani o perché ritenesse che gli abitanti del nuovo Stato costituissero una comunità capace di autogovernarsi. Dalle potenze maggiori, impegnate nella secolare gara per l’egemonia su Europa e Mediterraneo, l’unificazione italiana, del resto incompleta, fu accettata come male minore perché conteneva problemi irrisolti. Il nuovo regno non sarebbe stato vassallo di una sola di esse e quindi il suo avvento non modificava il “concerto europeo”. La Nuova Italia pareggiava i conti tra gli Stati in competizione, inclusi Prussia e Russia che la riconobbero nel 1862.
Secondo i governi di Londra, Parigi e Vienna, accollandosi tante e diverse regioni, dal Milanese alle Due Sicilie passando per Emilia-Romagna, Toscana e gran parte dello Stato Pontificio, il re d’Italia sarebbe risultato più debole di quand’era sovrano del regno di Sardegna, uno Stato cuscinetto anfibio, che andava da Nizza alle porte di Ginevra, da Genova all’Ossola. Prima poteva sognare e far sognare. Ora doveva fare. Prima poteva coltivare e suscitare ambizioni. Ora doveva soddisfare appetiti insoddisfatti da secoli, col rischio di rimanere schiacciato dal passivo della storia. Prima poteva contare su amici. Ora avrebbe avuto solo alleati occasionali in conflitti circoscritti.
Lo storico Werner Kaegi ha scritto l’elogio del “piccolo Stato” nella “vecchia Europa”, non più infelice delle grandi potenze. I piccoli Stati furono fattore di equilibrio a fronte dell’impero, mentre quelli grandi imboccarono la via delle guerra come ineluttabile fatalità. Lo stesso Kaegi riconobbe l’“unicum singolare dell’Italia”, che, cinque secoli prima della nascita del moderno “stato nazionale”, già aveva un’effettiva coscienza della propria identità anche se “priva di forma politica”. Ma il pensiero degli storici non sempre è condiviso da sovrani, diplomatici, militari e neppure da “pensatori politici”, che spesso, ignari delle responsabilità gravanti sui protagonisti della storia, danno voce all’insoddisfazione per i risultati via via conseguiti e alle lecite speranze di miglioramenti realizzabili nel flusso del tempo. Consapevoli dell’enorme indebitamento dello Stato e delle incolmabili disparità tra le risorse disponibili per un Paese indebitato prima ancora di nascere e la somma di sottosviluppo e di arretratezza di tanta parte del suo territorio, nel primo quindicennio i governanti della Nuova Italia si mossero con grande prudenza. L’incitamento di Alfredo Oriani alla “rivolta ideale” è del 1908: quasi vigilia dell’impresa di Libia e sette anni prima dell’intervento nella Grande Guerra, nell’illusione che terminasse entro il settembre del 1915.
A metà Ottocento all’estero non si stimava affatto che l’Italia fosse una “nazione”. Era una congerie di “popoli”. Le sue antiche glorie erano considerate materia di studio, non alimento vitale. Ne scrisse lo svizzero Jacob Burckardt in “La Civiltà del Rinascimento in Italia” (1860). Certo l’Italia era stata teatro di cospirazioni, sommosse, moti, insurrezioni; ma altrettanto era accaduto in altri paesi europei, che rimasero com’erano: privi di Stato unitario. Non ci arrivarono neppure i tedeschi quando nel gennaio 1871 il re di Baviera annunciò nel Castello di Versailles la nascita di un Secondo Impero germanico che lasciò intatti sovrani, principi, duchi e città libere esistenti.
Perciò la proclamazione del regno d’Italia sembrò e ancora viene detta un “miracolo”, come ha ripetuto Domenico Fisichella (Premio Acqui Storia). Abituate da secoli a farne quel che volevano, a spartirsela e a dominarla a piacere, a vezzeggiarne le bellezze naturali e artistiche e a disprezzarne gli abitanti, le maggiori potenze pensavano che, malgrado l’unificazione politica, essa sarebbe rimasta qual era. Non per caso, il processo di unificazione fu interrotto e rinviato a chissà quando: nel luglio 1859 con l’armistizio di Villafranca, nel 1860, nel 1866… Non era scritto in alcun libro del destino che ogni volta il cammino sarebbe ripreso nella direzione vaticinata. A volte la storia è come l’inseguimento della tartaruga da parte del piè veloce Achille, che deve sempre compiere metà dell’ultimo passo per raggiungere l’obiettivo (è quanto accade nell’“Europa” odierna). Così fu per l’Italia: dal 1859 non raggiunse mai la meta. Tra l’ingresso in Roma e quello in Trento e Trieste passarono 48 anni, quasi due generazioni, e altri sei per arrivare a Fiume (1924), quando però da settant’anni il regno di Sardegna aveva ceduto la Savoia (geograficamente oltralpe) e il Nizzardo alla Francia, alla quale la Repubblica di Genova sin dal 1868 aveva venduto la Corsica.
L’unificazione, comunque, non fu un “miracolo” ma la conquista conseguita da un movimento profondo di gruppi dirigenti e di cittadini, che per ottant’anni coinvolse gli italiani e li fece sentire partecipi di uno Stato capace di mettere radici e compiere progressi enormi, in buona parte irreversibili. Questo entrò per ultimo nel concerto delle potenze, ma con una tradizione civile che lo pose all’avanguardia in un’Europa lacerata, inchiodata ad antiche rivalità (lo mostrò la guerra franco-prussiana o franco-germanica del 1870), ma che non aveva molto da apprendere dagli Stati Uniti, impegolati nella guerra di secessione: la prima fondata sulla produzione bellica industriale per lo sterminio del nemico. Il codice penale varato nel 1889 dal governo Crispi – quello dal più alto tasso massonico – per opera del giurista Giuseppe Zanardelli, antico iniziato, abolì per primo nel mondo la pena di morte: un primato civile che costituisce gloria imperitura della Nuova Italia, ispirata dal garibaldino “fascio della democrazia”, condiviso dal governo del re, Umberto I di Savoia. Fu un traguardo significativo di chi per quindici secoli era stato “volgo disperso” e succubo del dominio straniero.
DIDASCALIA: Re Umberto I di Savoia (1844-1900). Nel 1889, durante il suo regno, in Italia venne abolita la pena di morte, sin dal 1786 cancellata nel Granducato di Toscana da Leopoldo I di Asburgo-Lorena, figlio di Maria Teresa d’Austria, dal 1790 al 1792 asceso a Vienna sacro romano imperatore.
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