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L’attuale ondata di protezionismo è iniziata dopo la Grande Crisi Finanziaria ed è quindi in fase avanzata. Tuttavia, l’accelerazione delle misure volte a danneggiare i rivali commerciali si è verificata solo di recente, con la prima presidenza di Donald Trump (2017-2021), e prosegue da allora.
Ma questo processo non avviene in modo uniforme nei diversi Paesi, e anche la natura del protezionismo – in termini di misure adottate – continua ad evolversi. Mentre Trump prosegue con la politica sui dazi, con effetti sui mercati dei capitali, sia gli Stati Uniti che altri importanti attori globali si stanno orientando verso forme alternative di interventi governativi che penalizzano gli interessi commerciali stranieri.
Vecchio protezionismo vs nuovo protezionismo
Il protezionismo è una politica commerciale estera adottata con l’argomentazione che i produttori nazionali debbano essere tutelati dalla concorrenza estera. Gli strumenti standard del “vecchio” protezionismo sono i dazi e le quote all’importazione. Ma negli ultimi decenni è emerso un “nuovo” protezionismo, caratterizzato da numerosi ostacoli alle libere transazioni internazionali. Ciò che accomuna queste misure è che sono meno evidenti e più soggette alla discrezionalità nel trattamento delle controparti estere rispetto agli strumenti protezionistici tradizionali. Per questo, tali barriere sono politicamente più facili da sostenere per le lobby e da attuare per i governi.
In linea di principio, gli interventi governativi possono comportare modifiche volte a liberalizzare o a limitare il trattamento degli interessi esteri rispetto a quelli nazionali. Il database Global Trade Alert (GTA) registra per ogni intervento informazioni sulla sua natura, classificandolo come quasi certamente discriminatorio (rosso), probabilmente discriminatorio (ambra) o non discriminatorio e quindi liberalizzante (verde). La maggior parte degli interventi governativi è stata discriminatoria, mentre la quota di quelli liberalizzanti è rimasta relativamente stabile al 25-30% fino al 2018. Tuttavia, con l’acuirsi delle tensioni nel commercio internazionale e nelle transazioni di investimento, questa quota è scesa a circa il 20% negli ultimi anni.
Tra gli interventi penalizzanti, fino al 2009 le misure più adottate sono state i dazi all’importazione, i finanziamenti al commercio e i prestiti statali. Sebbene da allora siano rimasti tra gli strumenti più utilizzati, le sovvenzioni finanziarie e gli appalti pubblici hanno recentemente guadagnato popolarità. Poiché queste ultime misure, come anche i prestiti statali, prevedono generalmente l’impiego di fondi pubblici per finanziare specifici enti o progetti, è probabile che aggravino la situazione la situazione finanziaria dei Paesi che le adottano. Ciò contrasta gli effetti dei dazi d’importazione, che di solito generano alcuni contributi fiscali positivi, anche se di modesta entità. Inoltre, tali interventi possono alterare l’allocazione delle risorse se il denaro pubblico sostiene attività produttive inefficienti.
È importante notare che il database GTA probabilmente sottostima gli interventi governativi, soprattutto nei casi in cui il protezionismo è incorporato in regolamenti, sussidi o politiche fiscali che non rientrano tra le politiche esplicitamente legate al commercio. Ne sono un esempio le normative ambientali – adottate su larga scala nell’UE – o gli stimoli fiscali con requisiti di contenuto nazionale – come l’Inflation Reduction Act negli Stati Uniti. Queste misure sono molto più difficili da classificare come interventi commerciali e, di conseguenza, rischiano di non essere incluse nel database GTA.
Dal 2009 gli Stati Uniti e la Cina vantano una lunga tradizione e una leadership globale nell’adozione di misure protezionistiche. Tuttavia la recente guerra commerciale, iniziata con la prima amministrazione Trump, ha portato entrambi i Paesi a intensificare significativamente le politiche restrittive rispetto al resto del mondo. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, anche la Russia si è distinta per l’adozione sistematica di misure volte a penalizzare i propri partner commerciali. Ma anche i quattro maggiori Paesi dell’UE (Germania, Francia, Italia e Spagna) hanno recentemente incrementato l’attuazione di misure dannose. Al di là di questi interventi documentati, i membri dell’UE hanno recentemente introdotto diverse misure – alcune delle quali stabilite a livello comunitario – che, pur non figurando nel database GTA, potrebbero comunque risultare discriminatorie nei confronti degli interessi commerciali esteri. Tra queste, ad esempio, la legge tedesca sulla supply chain, in vigore dal 1° gennaio 2023, che impone alle aziende di rispettare specifici requisiti in materia di diritti umani e rischi ambientali lungo la propria catena di approvvigionamento.
Il quadro appare più equilibrato se si considera il numero di interventi dannosi che hanno colpito le diverse economie. Tutti i grandi attori globali ne sono stati colpiti in misura pressoché analoga. Il confronto a livello di singolo Paese, tra il numero di interventi dannosi attuati e quello delle misure subite evidenzia un saldo positivo per Stati Uniti, Cina, Russia e per i quattro principali Paesi dell’UE, con un numero di interventi adottati superiore a quello delle misure che hanno interessato le rispettive economie. Nel Regno Unito, invece, il saldo è diventato negativo dopo la Brexit, mentre è rimasto quasi sempre negativo in Giappone.
La probabilità che questa ondata di protezionismo sfoci in un gioco a somma negativa è elevata e in costante aumento, a causa dell’intensificarsi degli interventi governativi dannosi in tutto il mondo. Con l’insediamento di Donald Trump, deciso a mantenere le promesse elettorali, l’economia globale dovrebbe prepararsi a un’ondata di nuovi dazi statunitensi, che probabilmente innescheranno misure di ritorsione. Tuttavia, sulla base dell’esperienza passata, il protezionismo non si limiterà ai dazi: con il crescente utilizzo di misure non tariffarie, il loro impatto negativo si estenderà a un’ampia gamma di provvedimenti dannosi. Poiché tali misure – oltre a comportare costi nascosti legati all’aumento della spesa pubblica – tendono a deviare risorse verso settori nazionali meno efficienti, potrebbero generare inefficienze produttive.
Anche se è probabile che tutte le parti coinvolte subiscano alla fine delle perdite economiche, la loro distribuzione sarà probabilmente disomogenea, a seconda dell’intensità relativa del coinvolgimento nella corsa al protezionismo. Tuttavia, poiché tutte le principali potenze commerciali mostrano una forte propensione al protezionismo, è improbabile che le conseguenze negative rimangano a livello nazionale, resta però la speranza che le grandi potenze possano ancora invertire la rotta.
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