Non un personaggio, ma una persona che ha fatto della semplicità uno stile inconfondibile. E ciò nonostante la popolarità, che in queste ore è confermata a livello nazionale e non solo. La scomparsa di Bruno Pizzul (Udine, 8 marzo 1938 – Gorizia, 5 marzo 2025), giornalista sportivo e telecronista Rai, da giovane calciatore professionista cresciuto sul campetto parrocchiale nella sua Cormons, è su tutte le prime pagine dei giornali, in tv e sui social. In servizio alla televisione nazionale dal 1969, è progressivamente divenuto il commentatore e la voce più nota del calcio italiano. Ne ricostruiamo alcuni elementi biografici e familiari con il figlio Fabio Pizzul, a sua volta giornalista, che si è reso disponibile dedicandoci del tempo nonostante il momento doloroso per sé e per la famiglia.
Partiamo dallo sport. Quale, per suo padre, il senso e il valore dello sport?
Lo sport è stato una parte essenziale della vita di mio papà. Considerava lo sport come una metafora della vita: rispetto delle regole, correttezza nei confronti degli avversari, volontà di mettersi continuamente alla prova tentando di migliorare se stessi. Direi anche sport come possibilità per sdrammatizzare alcuni momenti della vita e cogliere invece gli aspetti positivi dell’esistenza umana. Lo sport per tirar fuori il bello e il meglio delle persone. Quella sua espressione che molti considerano idiomatica – «tutto molto bello» – secondo me racconta bene il suo modo di vedere lo sport come luogo in cui le persone possono dare il meglio di sé e per far emergere la positività dello stare insieme con gli altri.
Bruno Pizzul si è messo a disposizione tantissime volte per dialogare con i giovani nelle parrocchie, negli oratori, nelle sedi associative, negli incontri pubblici, discutendo di educazione, di valori, di responsabilità. Può essere certamente considerato un educatore…
A mio avviso è stato un educatore anzitutto facendo bene il suo mestiere, mettendosi nell’ottica di essere attento alle persone. Avrebbe avuto la possibilità di centrare l’attenzione su se stesso. Commentando la Nazionale di calcio, quando solo la Rai ne trasmetteva le partite, avrebbe potuto persino essere schiavo del suo personaggio televisivo; non lo è mai stato proprio per questo modo di interpretare il giornalismo, raccontando agli altri qualcosa di bello e di positivo. In quel senso è stato un educatore, provando a mettere al centro la dimensione dell’umano. Il fatto di stare insieme alla gente, negli oratori, sui campetti di calcio era per lui un’esigenza di semplicità. Del resto è noto che ogni giorno, prima di andare in Rai, passava dal bar per una partita a carte. Gli piaceva stare tra la gente e il farlo negli oratori e nelle parrocchie era anche un modo per togliersi di dosso un po’ di tossine che lo sport di vertice portava con sé e che lui non accettava così di buon grado.
Quale il suo rapporto con la fede?
Da giovane aveva soprattutto… la fede di chi gioca a calcio in oratorio! Frequentava quello che in Friuli si chiama “ricreatorio”, partendo dalla voglia di trascorrere il tempo con i coetanei e di giocare a pallone. Poi va considerata una forte tradizione di fede familiare, che ha raccolto dalla sua famiglia e che ha continuato a vivere lungo i suoi anni, trasmettendola a noi figli. Questo, forse, anche grazie – indegnamente – ai figli, impegnati in oratorio e nell’associazionismo cattolico. Aggiungerei una curiosità.
Quale?
Era uno dei più assidui frequentatori della Messa domenicale nella cappellina della Rai in corso Sempione a Milano, anche per dare un senso di comunità al luogo di lavoro. È stato poi vicino all’Azione cattolica, anche in ragione dell’impegno dei figli, ed è sempre stato molto vicino al Csi e alle sue radici ecclesiali che coincidono appunto con quelle dell’Ac. Occorre poi riconoscere che ha sempre avuto una grande disponibilità, e un grande affetto, una vera devozione verso gli Arcivescovi di Milano, che ha conosciuto, i quali poi lo hanno coinvolto in molte iniziative anche attraverso le parrocchie.
Un ricordo personale?
Un ricordo di nonno Bruno… Con i nipoti mio padre è sempre stato molto, molto affettuoso. Non tanto quando erano piccolini, perché si sentiva in imbarazzo, lui grande e grosso a maneggiare i frugoletti. Ma appena hanno potuto giocare a carte con lui, è stato il loro comune divertimento. Lo hanno fatto anche di recente, non più di qualche settimana fa: la partita a scopa con i nipoti è sempre stata un momento molto gradito, anche se temuto, perché mio papà giocando a carte si arrabbiava parecchio. Tanto è vero che mia mamma non ha mai voluto giocare a carte con lui (e qui Fabio Pizzul sorride… – ndr) per salvaguardare l’integrità del matrimonio. Mentre i nipoti si facevano bonariamente maltrattare dal nonno quando giocavano la carta sbagliata. Ci lascia bellissimi ricordi. E tanti insegnamenti.
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