2025, Agrigento Capitale della Cultura. Breve ritratto del suo figlio più grande. – Quasimezzogiorno

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A Roma, il dicembre del 1936 è particolarmente freddo e piovoso. In quel periodo Pirandello lavora alla nuova riduzione per il cinema de “Il fu Mattia Pascal”, anche se da qualche tempo la salute sembra abbandonarlo: frequenti sono le bronchiti w spesso l’angina pectoris lancia i suoi inquietanti messaggi.

Un giorno torna a casa pallido e febbricitante. Viene costretto a letto nonostante le sue proteste. Nei giorni seguenti, col peggiorare delle sue condizioni, scherza, si burla del medico e delle medicine. Nelle prime ore del 10 dicembre, al medico che è venuto a visitarlo e lo conforta, dice: “Dottore, non abbia tanta paura delle parole. Questo si chiama morire.” Dopo poco più di un’ora, Pirandello cessa di vivere. Viene chiamato un prete che l’assolve e due suore che lo assistono per il resto della notte, inginocchiate, quasi intimidite da quella salma senza fiori né ceri. Il figlio Stefano legge le sue ultime volontà: non vuole, nel sudario, né decorazioni, né camicie nere “…nudo, avvolto in un lenzuolo, e poi cremato…le mie ceneri, al vento.”

In questo addio silenzioso, solitario, c’è forse un pizzico di polemica per il silenzio che negli ultimi tempi era calato su di lui e sulla sua opera. Corrado Alvaro commenterà: “Se n’è andato sbattendo la porta.”

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La sua era stata un’esistenza scandita da drammi familiari, dalla tristezza e dal dubbio, dallo scetticismo e dall’angoscia esistenziale. E la sua opera teatrale, tra le più significative ed influenti del Novecento, fu tutta imperniata sui contrasti tra l’essere profondo e l’apparenza nell’ambito della personalità umana. Il suo non era un teatro “facile”, soprattutto per quel tempo.

Testi come “Questa sera si recita a soggetto” o “Sei personaggi in cerca d’autore” urtavano contro le tradizioni e gli schemi della commedia borghese allora in voga, scavavano nell’animo umano, facevano discutere e arrabbiare, ed erano anche la risposta più immediata al “teatro di poesia” che il dannunzianesimo proponeva, come unica novità, in quegli anni. La sua opera, inizialmente sottovalutata o addirittura ignorata dalla critica ufficiale, venne scoperta prima all’estero e poi finalmente si impose anche da noi, sia pure attraverso accese polemiche. Il punto centrale del dissenso stava tutto nella concezione della vita, e la polemica nasceva dal fatto che per la maggior parte degli spettatori e dei critici contava solo la realtà apparente, mentre per Pirandello la verità stava ben oltre questa barriera di comodo e andava inseguita nell’ombra e nel mistero del cuore umano.

Pirandello “svestiva” l’uomo dei suoi tempi (e di ogni tempo) degli abiti psicologici o politici o sociali coi quali siamo soliti recitare la nostra parte di attori involontari.

Così le domande che faceva e poneva sulle labbra dei suoi personaggi erano sempre domande capitali e che non si spegnevano con le luci della ribalta.

Da quel lontano 1936 naturalmente le cose sono cambiate e il tempo ha fatto giustizia delle incomprensioni, delle diffidenze e delle ostilità più o meno aperte e confessate. Il che dimostra che le grandi opere vanno ben al di là degli schemi immediati e devono essere giudicate a cuore libero, specie quando le ragioni del dissidio non sono più inquinate dalle passioni. In genere gli scrittori veri sono sempre un po’ in anticipo sui gusti del tempo, e se in un primo momento appaiono come dei trasgressori, dopo risultano per quelli che veramente sono: i continuatori della vita delle idee.

 A questo punto vorremmo sottolineare un particolare della complessa personalità di Pirandello, un particolare che è sfuggito alla maggior parte dei critici e che solo Leonardo Sciascia ha messo in risalto riportando il brano di una lettera di Pirandello a Silvio D’amico: “…io sono religioso, caro Silvio, sento e penso Dio in tutto ciò che sento e penso.” Si tratta di un sentimento sincero che contrasta con tutte le forme di relatività e di sfiducia pirandelliana. Se vogliamo sottolineare l’aspetto religioso nell’opera di Pirandello c’è da dire che il lavoro più interessante per penetrare l’idea di Pirandello a proposito della religione e in modo particolare del cristianesimo è certamente “Lazzaro”, dove Dio è l’eterno presente.

L’arte di Pirandello ci ha insegnato cose che vanno rilevate: la sua sincerità nella introspezione è immediata e assoluta, le sue analisi psicologiche sono lucide e penetranti. L’esperienza pirandelliana è preziosa soprattutto perché mette in evidenza i deserti del cuore senza fede: a nulla valgono le conquiste del pensiero più raffinato senza l’alimento di una fede. All’indomani dei funerali dell’Agrigentino così scrisse Vitaliano Brancati: “C’era qualcuno alla stazione di Roma quando Pirandello arrivò per la prima volta da Girgenti? S e costui è vivo, racconti quello che ricorda. Senza dubbio egli avrà visto Pirandello salire con una povera valigia sopra una povera carrozza e recarsi a un piccolo albergo. Con un carro non meno povero egli ha lasciato Roma ed è tornato a Girgenti, dopo aver dato all’Italia il più grande teatro della nostra epoca. Questo mettersi nelle mani della povertà altro non può essere che religione. Vecchia, forse trascurata religione dovunque, tranne che nella terra d’origine a cui egli aveva voluto ritornare.”

Ciò che resta di Pirandello, un pugno di cenere conservato in un’anfora greca, non è stato disperso al vento. Il grande scrittore riposa nella sua terra, sotto un pino della contrada del Kaos. Chiunque si rechi in quel posto è assalito da un profondo senso di solitudine. Molti anni fa, durante una gita alla Valle dei Templi, feci visita anche alla casa del Kaos e alla tomba.

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Davanti a quella “rozza pietra” che custodisce le ceneri di Pirandello rimasi a lungo immobile, non riuscivo a muovermi, mi sentivo avvinto da qualcosa. Forse a trattenermi era un incantesimo di seta. Ogni tanto volgevo lo sguardo verso il mare, nella folle speranza di veder comparire all’orizzonte una trireme. Solo il vento e le prime ombre della sera riuscirono a smuovermi riportandomi alla realtà. Il vento si scagliava contro la casa quasi a voler scuotere le ombre che l’abitano, la luna intanto si alzava sopra le querce e i pioppi (incantati, come quelli delle fiabe). Poco distante un cane gridava alla luna il suo lamento.



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