Per Israele nessun compromesso che mantenga Hamas al comando, il cui potere dipende anche dalla gestione degli aiuti

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Per buttarla in polemica si potrebbe dire che l’altro giorno, quando ha annunciato di voler sospendere il flusso degli aiuti a Gaza, Israele non ha fatto altro che proseguire la politica di sterminio per fame che da un anno e mezzo ha inflitto ai palestinesi. È dall’inizio della guerra, infatti, che a Israele si addebita di aver fatto ricorso a quello strumento – la fame – nell’attuazione del proprio progetto genocidiario.

Nelle accuse sudafricane depositate e reiterate con almeno tre ricorsi alla Corte Internazionale di Giustizia, nelle risoluzioni delle Nazioni Unite intervenute a grappolo in argomento, nelle richieste e poi negli ordini di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, quell’addebito – cioè l’aver procurato fame e carestia a Gaza – era inesorabilmente immancabile. Non c’è mai stato un morto per fame a Gaza, ma a Gaza c’era la carestia. Israele ha fatto entrare a Gaza oltre un milione e trecentomila tonnellate di aiuti, ma Israele voleva prendere Gaza per fame.

Appunto polemicamente, dunque, si potrebbe dire che la decisione israeliana di interrompere le forniture non cambia nulla perché – se fossero fondate le accuse rivolte a Israele in tutti questi mesi – non si tratterebbe proprio di nessuna interruzione ma della pura e semplice continuazione di una pratica consolidata. La realtà, ovviamente, è un’altra. La realtà è che non andavano in rassegna senza effetto le immagini degli ostaggi israeliani resi irriconoscibili da un anno e mezzo di prigionia. Non suscitavano uno sdegno precario, in Israele, le immagini delle bare contenenti i resti degli altri rapiti. Non provocavano un’indignazione momentanea le immagini della folla palestinese adunata a festa nella celebrazione della “vittoria” su quegli spettri d’uomo e sui cadaveri di quei due bambini visti l’ultima volta il 7 ottobre, quando in braccio alla madre erano deportati dai nazisti di Gaza.

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Lo stillicidio di quella ferocia spettacolare, tanto più intollerabile per com’era inscenata da turbe pasciute di cui sino al giorno prima si raccontava la condizione derelitta, induceva Israele a ritenere che non fosse ulteriormente possibile confidare in uno sviluppo delle trattative che, simultaneamente, assicurasse la restituzione degli ostaggi e la destituzione del potere di Hamas. E l’asset più importante su cui Hamas può contare, anche più importante rispetto alla dotazione di armamenti, risiede esattamente nel controllo degli aiuti dei quali fa sistematicamente bottino sia per fruirne in proprio, sia per farne commercio a condizioni iugulatorie per la popolazione che dovrebbe beneficiarne.

Un significativo elemento concomitante alimenta la consapevolezza israeliana circa la necessità di impedire, dopo un anno e mezzo di guerra, che Hamas possa ancora esercitare il proprio potere a Gaza e su Gaza. È di questi giorni, infatti, la diffusione di un rapporto sul disastro militare e di Intelligence che ha reso tanto devastante l’attacco del 7 ottobre. Quel rapporto, molto articolato e approfondito, enumera i difetti di prevenzione, di contenimento e di contrasto per cui si è segnalata l’azione dei comandi militari, i quali hanno sottovalutato o trascurato la serqua di “segnali” che preconizzava l’imminente assalto e, poi, non hanno saputo o potuto porre rimedio al dissesto strategico che per molte ore avrebbe lasciato indisturbata l’azione massacratrice degli aggressori.

Il grande errore israeliano consistette nel non capire che non si trattava di contrastare l’attacco che Hamas avrebbe potuto scatenare; si trattava di capire, al contrario, che se avesse potuto scatenarlo lo avrebbe fatto. E, quindi, che occorreva colpire Hamas non “se” Hamas avesse attaccato, ma già per il fatto che avrebbe potuto attaccare. Le immagini di quei miliziani ancora tronfi mentre riconsegnavano gli ostaggi torturati o assassinati, abbondantemente sostenuti da masse di civili in tripudio, agitavano in faccia a Israele il pericolo di un nuovo errore: un errore tanto più grave dopo i massacri del Sabato Nero e sulla scorta non della possibilità, ma della certezza, che Hamas non intende rinunciare al proprio potere e, soprattutto, alle proprie ambizioni. Che erano, prima del 7 ottobre, di perpetrare quel macello e che continuano a essere, dopo tutti questi mesi, le stesse di sempre: cioè distruggere Israele e uccidere gli ebrei al costo della distruzione di Gaza.
È comprensibile che la comunità internazionale sia abituata al fatto che Gaza costituisca ancora un pericolo per Israele. È difficile pretendere che vi si abitui Israele.





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