La ricetta di Mainetti: «Sull’AI in Italia non abbiamo capitali per competere, puntiamo sul deeptech»


È stato Ceo di Polihub fino al 2020 e prima ancora ha insegnato al Politecnico di Milano e ha fatto l’imprenditore. «Ho sempre messo in pratica ciò che portavo a lezione». A confronto con Stefano Mainetti sul ruolo strategico del trasferimento tecnologico nella nuova puntata del lunedì sui protagonisti dell’innovazione

«Sono figlio di una maestra di scuola elementare. Mi ha trasmesso che insegnare è un atto d’amore. Ma il mio approccio è stato diverso. La mia gratificazione derivava dall’insegnare qualcosa che poi si traducesse rapidamente in pratica. Per me non bastava il metodo, l’invenzione, il brevetto: dovevo vedere lo sviluppo sul mercato finale. Gli anni alla guida di PoliHub sono stati tra i più belli della mia vita». Stefano Mainetti, 65 anni, è stato tante cose nel corso della sua carriera.

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Professore a contratto di Tecnologie dei sistemi informativial Politecnico di Milano, imprenditore, Ceo di uno degli acceleratori universitari più apprezzati a livello internazionale, e tenutario di un corso che dentro il PoliHub voleva spiegare le basi dell’imprenditoria. «L’ho intitolato startup for Dummies. Partiva nel tardo pomeriggio, sempre pieno di gente, con la musica alla fine». Oggi è Executive Chairman di adesso.it srl e Venture Partner in KYIP Capital SGR.

Stefano Mainetti

Quando insegnare non basta

StartupItalia lo ha intervistato per la rubrica del lunedì dedicata ai profili del settore investimenti. Sono quegli attori che sostengono chi fa impresa, si mette in gioco ogni giorno in prima persona e sa rischiare in modo consapevole. Con capitali, ma anche attraverso suggerimenti e indicazioni. «Essendo un docente,  l’altra mia vena da imprenditore è stata sempre naturalmente alimentata. Le cose che ho insegnato le ho sempre messe in pratica. Un approccio metodologico è per me fondamentale, ma assolutamente non basta. Per imparare a sciare puoi sapere fisica, fisiologia, meccanica, aver visto tutte le gare. Però finché non ti metti gli sci ai piedi, non impari».

Una questione di approccio. «Ho da sempre avuto l’attitudine di mettermi in gioco in prima persona e, dopo la laurea in ingegneria, non vedevo l’ora di mettere in pratica quanto appreso. Ho capito che l’imprenditoria sarebbe stato il mio futuro: nel 2000 ho fondato WebScience, una boutique company che ho realizzato con alcuni miei studenti. E quando ha raggiunto una dimensione tale per cui il mercato locale era un limite ho ceduto il pacchetto azionario e mi sono unito ad adesso SE, un gruppo internazionale quotato a Francoforte». 

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In Italia conosciamo le numerose eccellenze nel campo della ricerca accademica. Spesso lamentiamo però che c’è una fatica nell’attuare il cosiddetto tech transfer: trasferire un’invenzione, un brevetto, in un’idea di impresa per lanciarlo sul mercato. «L’università è un fucina di buone pratiche – ha premesso Mainetti -. In PoliHub le persone mi vedevano come un mentore forte della sue esperienza imprenditoriale. E al tempo stesso sentivano che potevo dare loro una metodologia. Se si va a vedere nell’ambito del tech transfer operano con successo molte figure con un profilo professionale simile al mio».

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Un’accelerata all’ecosistema

Stefano Mainetti ha guidato il PoliHub dal 2013 al 2020. «Non mi è sembrato vero. Abbiamo costruito una valida value proposition nel deeptech. Negli ultimi tempi valutavamo fino a 1400 team l’anno, una settantina li consideravamo validi, e alla fine, con il fondo Poli360 investivamo in tre/quattro pre-seed l’anno». Grazie all’esperienza con Poli360, gestito in collaborazione con 360 Capital Partners, «ho appreso quanto sia importante la professionalità di chi opera per sviluppare le iniziative imprenditoriali mediante il capitale di rischio». 

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In quegli anni di sviluppo dell’ecosistema startup Stefano Mainetti si sentiva al PoliHub come quello «con i capelli bianchi». L’esperienza da imprenditore lo ha aiutato a fornire suggerimenti pratici ai founder. «Sei nel momento giusto per la raccolta? Hai trovato i soci corretti? Ti manca qualcuno nel team? Molti founder, anche a causa della loro giovane età, mancano dell’eperienza utile per dare risposte consapevoli a queste domande».

E poi un’altra doccia fredda per i futuri imprenditori. «Li mettevo a confronto su dati oggettivi. Che tu sia innamorato della tua idea, è fondamentale, ma non è importante in questo momento, devi portare fatti concreti in sequenza che dimostrino la reale domanda di mercato e la tua capacità di execution». Da allora sono stati fatti molti passi avanti e, al netto di gap da colmare, il comparto startup italiano è cresciuto. Permangono ancora delle criticità relative alla disponibilità di capitali, ma le cose stanno cambiando e le migliori stratup italiane ora sanno farsi notare anche agli occhi degli investitori stranieri.

Puntare sull’AI?

Una mano potrà arrivare anche dal tech transfer? «In italia il tech transfer ha ancora un potenziale inespresso. La creatività è un bel carburante. Si unisce alla cultura della PMI. Visto dal Politecnico ho sempre avuto un osservatorio privilegiato: l’Ateneo è una fucina incredibile di invenzioni con un potenziale di mercato da esplorare. In altre parole, al PoliHub non è mai mancato un deal-flow interessante su cui lavorare e investire».

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Sam Altman, founder e CEO OpenAI

Nei giorni scorsi OpenAI ha chiuso un round da 40 miliardi di dollari a una valutazione da 300. I colossi dell’Intelligenza artificiale battono bandiere americana e cinese. L’Italia su cosa può invece investire per competere e valorizzare le proprie eccellenze (creando ricchezza e posti di lavoro)? «Siamo capaci di fare prodotti fisici, con il gusto del bello. Siamo bravi nel manufacturing, nel realizzare apparecchiature, macchine scientifiche in qualsiasi dominio. Penso a chimica, pharma, metalli». Nell’immateriale invece? «La capacità di avere ottime idee e di produrre innovazioni importanti non manca, ma non abbiamo la stessa capacità di investimento. Corriamo il rischio di essere sottocapitalizzati per giocare sfide globali della portata di quella necessaria per l’AI».

È il deeptech il settore a cui punta Mainetti. «Qui i capitali che servono devono essere più pazienti, hanno un approccio diverso rispetto al capitale di rischio del digitale. Nel deeptech servono fabbriche, produzione, nuove leghe, materiali. Occorre una filiera di investitori con ritmi e culture diverse e in questo il nostro Paese è naturalmente più attrezzato».

Di una cosa poi è convinto: «L’innovazione a volte è questione di fortuna, magari nel trovare le persone adatte o nell’inciampare sull’idea giusta. Qui il ruolo dell’imprfenditore è quello di accorgersene e di saperci fare leva in modo virtuoso». Tanti anni dopo i corsi al Politecnico Stefano Mainetti continua a lavorare nell’ambito dell’innovazione, sia come imprenditore, sia come venture partner del fondo di Private Equity KYIP Capital, che mira a supportare le piccole e medie imprese italiane nell’affrontare le sfide future, accelerando l’adozione e l’implementazione di modelli di business innovativi. 





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