Quando le guerre commerciali sono anche conflitti di classe

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«Per i nostri clienti cambia poco pagare un vestito 6mila euro o 6500 euro». Lo ha detto l’imprenditore umbro Brunello Cucinelli ieri dopo l’ultima ritorsione del padrino della Casa Bianca Donald Trump sui dazi, stavolta su vino e alcolici. Lo stesso vale per un altro mercato del lusso, quello del «Super Tuscan», i vini rossi toscani come il Sassicaia che hanno un target alto e altissimo. Il problema sarà «per la stragrande maggioranza delle etichette toscane che ne risentirebbero certamente» ha detto Letizia Cesani, presidente Coldiretti Toscana e di Vigneto Toscana.

Dal punto di vista dell’abbigliamento, e del vino, ecco riassunto il senso della guerra mondiale dei dazi lanciata dagli Stati Uniti: le guerre commerciali sono guerre di classe e colpiscono, in primo luogo, chi lavora, chi deve vestirsi e bere ma non può spendere migliaia di euro. Pagare una bottiglia con un prezzo da supermercato, in linea teorica, il 200% in più è poco probabile. Lo stesso vale per tutte le altre merci che saranno colpite, da un lato e dall’altro lato dell’Atlantico, nella seconda stagione della guerra commerciale trumpiana. Tra l’altro ciò rischia di aumentare l’inflazione, e fermare lo stentato aumento dei salari, che si è registrato nell’ultimo biennio che ha ingrossato i profitti dall’energia alla farmaceutica fino alle banche.

L’Europa è già presa dal panico, al punto da avere avviato una trasformazione militarista delle proprie società con il piano «ReArm». Ieri è stato il presidente della Bundesbank Joachim Nagel a incupirsi quando ha detto che la Germania, il perno della svolta verso il Warfare, rischia di tornare in recessione anche quest’anno. Nagel ha affermato che «Ci sono solo dei perdenti» nelle guerre commerciali, ma l’Europa deve reagire «perché non puoi accettare che qualcosa ti remi contro». E il prezzo da pagare sarà «più alto per gli americani». Non tutti, gli americani. Solo quelli che già oggi sono in crisi. Domani lo saranno di più. E lo stesso vale per gli europei.

La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen che ha mantenuto il punto e ha detto che il commissario al Commercio (Maros Sefcovic) è in contatto con il suo omologo negli Stati Uniti (Howard Lutnik) per «negoziare». In ballo ci sono i dazi europei da 26 miliardi di euro tra i quali ci sono quelli che colpiranno il whisky dei clientes trumpiani negli stati «repubblicani». Una decisione che ha fatto infuriare il boss di Washington. Di questo passo se ne aggiungeranno altri. Sul vino gli europei possono perdere fino a 4,9 miliardi di euro complessivi.

«Non cederemo alle minacce» ha detto il ministro del commercio francese Laurent Saint-Martin. Quest’ultimo è stato contestato dai produttori di vino del suo paese che hanno mostrato insofferenza anche rispetto a Bruxelles: «Ne abbiamo abbastanza di venire sistematicamente sacrificati per temi senza rapporto con i nostri» ha detto Nicolas Ozanam di Fevs. «Nessuno vince con le guerre commerciali, a rimetterci sono le imprese e i cittadini» ha osservato il ministro spagnolo dell’agricoltura Luis Planas.

Il suo omologo italiano Francesco Lollobrigida, deputato a proteggere la «sovranità alimentare», al momento in cui scriviamo, è rimasto ammutolito dall’«amico americano». Solo due giorni fa auspicava che i dazi non fossero «così stringenti come vengono annunciati». In effetti, fino al prossimo 2 aprile quando scatteranno i dazi Usa, sarà così. Un ricatto del 200% dovrebbe preoccupare chi fa il sovranista e inneggia alle virtù del «made in Italy». Non basta più il nome per fare inginocchiare l’Al Capone amico-della-premier.

Le associazioni di categoria sono turbate. Per Cristiano Fini della Cia «gli Usa sono il nostro primo mercato per il vino, con quasi 1,9 miliardi euro». Per Christian Marchesini di Confagricoltura Veneto le ritorsioni colpiranno 600 milioni di euro. Gli americani pagheranno di più il prosecco, il Valpolicella e l’Amarone. L’intero settore vitivinicolo occupa 57 mila persone.

Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha evidenziato i retropensieri dei meloniani (e non solo): «Se i dazi sono articolati per paese e poi ognuno pensa di arrivare a una sua trattativa particolare – ha detto – il ruolo dell’Europa sarà messo in discussione». La guerra commerciale potrebbe selezionare gli amici come Meloni & co. dagli altri. E permettergli di salvare i vini del Veneto o del Friuli leghista. E quelli della Toscana amministrata dal Pd? Scenari da guerra commerciale intestina non da escludere nel trumpismo.



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