Sentenza Tar Toscana su concessioni balneari ante 2009, facciamo chiarezza

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In questi giorni ha fatto clamore, nella discussione sul tema delle concessioni balneari, la sentenza pubblicata il 10 marzo dal Tar Toscana. La pronuncia, che ha indotto euforia a taluni e perplessità ad altri, è stata rivendicata come una sentenza che riconosce le cosiddette “concessioni paradiso” o, dall’altro lato, la non applicazione della direttiva Bolkestein a tutte le concessioni demaniali. Pare opportuno, allora, fare un po’ di chiarezza – nei limiti possibili in ragione della sentenza stessa – con una premessa metodologica fondamentale: la tendenza ad astrarre affermazioni di principio dalle pronunce giurisdizionali (cioè a ricavarne massime di ordine generale) è una pratica abbastanza pericolosa, poiché da un lato, ogni sentenza è pronuncia di giudici che si esprimono su una controversia singola e, dall’altro lato, ogni decisione è figlia anche di un contesto concreto (ossia la fattispecie di fatto) sottoposta al giudice. Si tratta di una premessa cruciale, associata al fatto che non siamo in un ordinamento di Common Law – dove la statuizione giurisdizionale detta un precedente vincolante. Pertanto, per usare una metafora, “una rondine” potrebbe fare primavera oppure fuorviare lo spettatore che non ha tenuto conto del cambio climatico in corso. Fatta questa premessa, passiamo alla lettura.

La vicenda concreta

La fattispecie giunta all’esame del Tar è quella di un ricorso, notificato prima dell’entrata in vigore della legge n. 118/2022 (la “legge concorrenza” del governo Draghi che ha imposto la scadenza delle concessioni balneari entro il 2023, NdR), per chiedere l’annullamento di un provvedimento nella parte in cui, accorpando una serie di concessioni in un’unica concessione demaniale, aveva dato a quest’ultima la scadenza più breve fra quelle presenti nei titoli accorpati. In particolare, il provvedimento più lungo (a scadenza 2037) era un cosiddetto “atto formale” rilasciato in base al decreto legge n. 400/1993 e alla legge regionale toscana n. 31/2016 con una procedura di pubblicità ed evidenza pubblica. La ricorrente, dunque, aveva opposto fondamentalmente tre motivi di ricorso, così riassumibili:

  • l’inapplicabilità dei principi statuiti nelle pronunce n. 17 e 18 del 2021 emesse dal Consiglio di Stato in adunanza plenaria (in quanto oggetto di ricorsi);
  • la violazione degli articoli 36 e 37 del Codice della navigazione, perché la pubblica amministrazione ha ridotto la durata di una delle concessioni accorpate, originariamente avente scadenza al 2037 in ragione di una procedura di evidenza pubblica e – notare bene – perché ha applicato la riduzione temporale al 2023 anche alle concessioni più brevi, alle quali avrebbe dovuto applicarsi la scadenza al 2033;
  • infine, la violazione dei medesimi principi dell’adunanza plenaria e del principio dell’affidamento.

Il Tar Toscana ha accolto i due ultimi motivi di ricorso e, nel fare ciò, ha dato alcune indicazioni, pur non sempre logiche e chiarissime.

I punti fermi della pronuncia

Leggendo la sentenza, ci sono almeno tre punti fermi che si possono individuare. Il primo sta nel punto 1 della motivazione, nella misura in cui il Tar riconosce che il rilascio di concessione demaniale applicando il decreto n. 400/1993 e la legge regionale toscana n. 31/2016 è legittimo e produce un titolo valido ed efficace, «senza ricorso ad alcuna proroga automatica di legge». Il secondo (sempre nel punto 1 della sentenza) sta nel fatto che la licenza suppletiva è diversa dalla concessione e ha un carattere derogatorio (determinato da una funzione accessoria) per cui può essere rilasciata direttamente al richiedente senza pubblica evidenza, purché riguardi un bene che è collegato a un altro già in disponibilità del richiedente e che non è obiettivamente passibile di autonoma utilizzazione (riferibile da dati istruttori, frutto di accertamenti e istruttoria amministrativa, in cui sia dato conto della condizione di oggettiva non fruibilità né assegnabilità con titolo autonomo e scollegato da altre: sono i casi di interclusione, passaggi e servitù, asservimenti, eccetera). Dunque, la licenza suppletiva è accessoria e accede, appunto, a quella principale, che nel caso di specie è una concessione nuova rilasciata nel 2017 e con durata sino al 2037, a seguito di procedura con “adeguata pubblicità”.

Il terzo punto – quello meno chiaro – è il suggerimento del giudice laddove rappresenta che il Comune, in alternativa all’accorpamento in unica concessione con scadenza al 2037, avrebbe potuto procedere ad accorpamento con scadenza al 2033: l’applicabilità di tale scadenza discinderebbe, a detta del Tar, dal fatto che le concessioni con durata diversa da quella dell’atto formale (al 2037) sarebbero state rilasciate anteriormente al 28 dicembre 2009 (data della trasposizione della direttiva), per cui si doveva applicare la scadenza al 2033, che era l’unica sanzionata in una legge al tempo in cui il Comune ha emesso il provvedimento impugnato. La vera novità, qui, è il non riconoscimento del Tar della scadenza al 2023 che era stata fissata nelle pronunce del Consiglio di Stato del 2021. Sul resto, invece, serve cautela.

Il tema del 2033

La pronuncia è stata da taluni alzata come bandiera del riconoscimento generalizzato del 2033 come scadenza possibile delle concessioni demaniali, tuttavia non è così. Intanto, il tema del 2033 viene trattato dal giudice amministrativo in alternativa alla scadenza naturale della concessione che durava fino al 2037 – quella sì, ritenuta valida – con un iter argomentativo poco esplicito e dunque equivoco, ma basato sul presupposto logico giuridico fondamentale del processo amministrativo: l’atto della pubblica amministrazione deve essere scrutinato dal giudice guardando alle regole vigenti al tempo dell’emissione del provvedimento impugnato (tempus regit actum). In questo senso, al tempo del provvedimento oggetto di ricorso la legge 118/2022 (che era l’unica a sancire la scadenza al 2023) non era ancora stata approvata e l’unica norma in vigore – ancorché puntualmente disapplicata – era l’articolo 1, commi 682 e 683 della legge n. 145/2018. Dunque, l’esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione non poteva che conformarsi formalmente alle previsioni della legge n. 145/2018; così come, oggi, l’esercizio di qualsiasi potere amministrativo dovrebbe conformarsi alla legge 118/2022, nella sua formulazione vigente.

C’è tuttavia un richiamo nella sentenza a elementi quali il “legittimo affidamento” e al fatto che, almeno fino al 27 agosto 2022 (data di entrata in vigore della legge 118/2022), non v’era nel nostro ordinamento altro riferimento per scadenze di legge se non quello, citato, della legge 145/2018: elementi di confusione e apparentemente “ultronei” in un corpo motivazionale già abbastanza peculiare. Quel che sappiamo di certo è che, oggi, utilizzare un simile impianto logico è impossibile, perché le pubbliche amministrazioni producono provvedimenti che, dopo il 27 agosto 2022 (oggi, dopo il 16 settembre 2024) non possono che tenere fermo il quadro normativo vigente. Semmai, la sentenza testimonia una strategia processuale e una tesi giuridica ben più solide: i giudici possono “salvare” le posizioni dei singoli concessionari laddove le fattispecie concrete abbiano contorni di minima legittimità e includano valutazioni aventi a oggetto i titoli rilasciati “con adeguata pubblicità”. Ma trattasi pur sempre di soluzioni soggettive, particolari di ogni concessionario e non passibili di estensione generalizzata, tantomeno di essere usate a supporto di presunte (e non meglio precisate) letture rivoluzionarie del corso giurisprudenziale al quale assistiamo, ormai, da cinque anni a questa parte.

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