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A trent’anni dalla tragica morte di Manuela Murgia, la Procura di Cagliari ha riaperto le indagini sul caso che ha scosso la comunità sarda nel 1995. La sedicenne, trovata senza vita nel canyon di Tuvixeddu il 5 febbraio di quell’anno, potrebbe non essersi suicidata come inizialmente ipotizzato, ma essere stata investita intenzionalmente da un’automobile e successivamente gettata nel dirupo. Una consulenza medico-legale ha evidenziato ferite incompatibili con la caduta, aprendo nuovi scenari investigativi che potrebbero finalmente portare giustizia alla famiglia Murgia, che per tre decenni ha rifiutato la tesi del suicidio e lottato per far emergere la verità sulla morte della giovane.
La storia di Manuela Murgia inizia con la sua scomparsa il 4 febbraio 1995, quando la giovane sedicenne uscì dalla sua abitazione nel quartiere Is Mirrionis di Cagliari, dove viveva con i genitori e tre fratelli, per non fare più ritorno3. Le ricerche si conclusero tragicamente il giorno successivo quando, in seguito a una telefonata anonima alla Polizia, il corpo della ragazza venne rinvenuto in fondo al dirupo nel canyon di Tuvixeddu, una delle zone più impervie della città. L’indagine, sin dalle prime battute, si orientò verso l’ipotesi del suicidio, una conclusione che le autorità ritennero plausibile considerando principalmente la dinamica della caduta2. La morte di Manuela venne catalogata ufficialmente come suicidio e il caso fu chiuso, nonostante le indagini non avessero potuto “accertare le circostanze e le cause della morte della Murgia”, come si leggeva nel fascicolo dell’epoca, dove gli investigatori lasciavano aperte diverse ipotesi, tra cui “evento accidentale, dolo di terzi o addirittura investimento stradale colposo con successivo occultamento del cadavere”.
Lo scenario del suicidio, però, non ha mai convinto i familiari della giovane, che sin dal primo momento hanno sollevato dubbi sulla ricostruzione ufficiale e hanno continuato a cercare risposte per trent’anni. La determinazione della famiglia Murgia non si è mai affievolita, e questo persistente impegno ha portato, finalmente, a una svolta significativa nel caso.
I familiari di Manuela Murgia hanno sempre respinto con forza l’ipotesi del suicidio, evidenziando numerosi elementi che, a loro avviso, rendevano questa conclusione poco credibile2. In primo luogo, Manuela non aveva mai manifestato segnali di disagio tali da far pensare a un gesto estremo, né aveva mostrato comportamenti che potessero suggerire intenzioni suicide. L’assenza di un movente chiaro o di indizi che potessero spiegare una tale decisione ha rappresentato uno degli aspetti più controversi della versione ufficiale.
A rafforzare i dubbi della famiglia, una serie di evidenze fisiche sembravano contraddire la teoria della caduta volontaria. Le ferite sul corpo di Manuela, secondo quanto sostenuto dai familiari, non apparivano compatibili con una caduta accidentale o volontaria da quell’altezza. Ancora più singolare era il fatto che le scarpe della giovane fossero pulite, nonostante fosse precipitata in un dirupo caratterizzato da terreno fangoso, un dettaglio che suggeriva che la ragazza potesse essere stata portata e abbandonata in quel luogo quando era già priva di vita.
Un altro elemento che ha sempre alimentato i sospetti riguardava la telefonata anonima che aveva permesso di localizzare il corpo: chi aveva effettuato quella chiamata? Come faceva questa persona a conoscere l’esatta ubicazione del corpo? Perché nessuno aveva indagato approfonditamente su questo aspetto cruciale della vicenda? Questi interrogativi sono rimasti senza risposta per trenta lunghi anni, contribuendo a mantenere viva nei familiari la convinzione che dietro la morte di Manuela si celasse una verità ben diversa dal suicidio.
La tenacia dei familiari di Manuela Murgia ha finalmente portato a una svolta decisiva nel marzo 2025. Dopo aver respinto una precedente richiesta di riapertura del caso nell’agosto 2024, la Procura di Cagliari ha deciso di avviare nuove indagini sulla base di una consulenza medico-legale depositata dal dottor Roberto Demontis, nominato dai parenti della vittima. Questo documento ha fornito elementi tali da convincere gli inquirenti a riconsiderare completamente la vicenda, abbandonando l’ipotesi del suicidio a favore di uno scenario molto più inquietante.
Secondo la consulenza del dottor Demontis, il corpo della sedicenne presenterebbe ferite e lesioni incompatibili con una caduta da diverse decine di metri. L’analisi approfondita dei traumi riportati dalla giovane ha portato il medico legale a formulare un’ipotesi radicalmente diversa: Manuela sarebbe stata investita da un’automobile e successivamente gettata nel canyon per simulare un suicidio o una caduta accidentale. Questa ricostruzione spiegherebbe anche la contraddizione delle scarpe pulite in un ambiente fangoso, elemento che aveva sempre alimentato i dubbi dei familiari.
La nuova ipotesi investigativa sostiene che l’investimento non sarebbe stato accidentale ma volontario, configurando quindi un caso di omicidio premeditato seguito da occultamento delle prove4. Gli inquirenti stanno ora valutando la possibilità di effettuare un sopralluogo nella zona di Tuvixeddu con il supporto degli esperti della Polizia Scientifica, per raccogliere eventuali elementi ancora presenti sulla scena del crimine nonostante il lungo tempo trascorso.
Nel corso dei tre decenni seguiti alla morte di Manuela, i suoi familiari non hanno mai cessato di lottare per ottenere verità e giustizia2. Elisabetta, Anna e Gioele Murgia, sorelle e fratello della vittima, hanno continuamente sollecitato le autorità affinché riesaminassero il caso, convinti che la loro congiunta non si fosse tolta la vita3. L’appello lanciato dai familiari è sempre stato chiaro: “Vogliamo giustizia per nostra sorella, non si è suicidata. Il caso deve essere riaperto: vogliamo la verità”.
Per sostenere la loro battaglia, i Murgia hanno creato anche pagine sui social media dedicate al caso, dove hanno costantemente aggiornato il pubblico sugli sviluppi e mantenuto viva l’attenzione sulla vicenda4. Questo impegno costante ha contribuito a evitare che la storia di Manuela cadesse nell’oblio, sensibilizzando l’opinione pubblica e mantenendo una pressione costante sulle istituzioni.
Per rafforzare la loro posizione, i familiari si sono rivolti a un pool di esperti composto da professionisti di diverse discipline: la criminologa Maria Marras, gli avvocati dello studio legale Bachisio Mele e l’avvocata Giulia Lai, oltre a medici, anatomopatologi, periti tecnici e ingegneri forensi3. Questo approccio multidisciplinare ha permesso di esaminare il caso da diverse prospettive, individuando incongruenze e raccogliendo nuovi elementi che hanno infine portato alla riapertura delle indagini.
Con la riapertura ufficiale del caso, si aprono ora nuove prospettive per determinare cosa accadde realmente a Manuela Murgia il 4 febbraio 1995.
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