Effettua la tua ricerca
More results...
Il mondo ha fatto progressi significativi nella riduzione della povertà: negli ultimi trent’anni più di un miliardo di persone è uscito da una condizione di povertà estrema. Tuttavia, nello stesso periodo la percentuale di reddito della metà più povera dell’umanità è rimasta pressoché invariata, nonostante la produzione economica mondiale sia più che triplicata dal 1990. Le disuguaglianze compromettono il progresso economico che a sua volta acuisce le disparità sociali create dalle ineguaglianze. Le disparità economiche si analizzano in termini di reddito e ricchezza. Parlare di disuguaglianze significa considerare non soltanto le entrate ma anche ciò che un individuo possiede. Stando al World Inequality Report, le differenze tra i redditi sono piuttosto pronunciate: nel 2021, globalmente, il 10% dei più ricchi ha il 52% del reddito disponibile mentre la metà più povera si ferma all’8,5%. Se si va ad analizzare la ricchezza, questa divergenza si inasprisce ulteriormente (per “ricchezza” si intende ciò di cui una persona dispone, sia in termini finanziari che non finanziari). Gli effetti della disuguaglianza vanno ben oltre il potere d’acquisto. Le disuguaglianze influiscono sull’aspettativa di vita delle persone e sull’accesso ai servizi di base come assistenza sanitaria, istruzione, acqua e servizi igienico-sanitari. Possono limitare i diritti umani degli individui attraverso, per esempio, la discriminazione, l’abuso e la mancanza di accesso alla giustizia.
Se le disuguaglianze sociali aumentano in maniera considerevole, è lecito nonché ovvio domandarsi perché non ci sono rivolte diffuse nel pianeta. O meglio ci chiediamo se è possibile una rivoluzione. Byung-Chul Han, ascoltatissimo filosofo contemporaneo, risponde negativamente e argomenta le sue tesi nel volume Perché oggi non è possibile una rivoluzione. Il nuovo capitalismo non è repressivo, ma seduttivo. Il potere non è più visibile, non c’è più una controparte palesemente evidente così come l’abbiamo conosciuta nell’Ottocento e nel Novecento. Nel neoliberismo ciascuno è al contempo servo e padrone, imprenditore di sé stesso.
«La lotta di classe si è trasformata in una lotta interiore. Chi oggi fallisce si dà la colpa e si vergogna: individuiamo il problema in noi stessi, piuttosto che nella società».
Il potere non agisce più mediante divieti e restrizioni, ma fa leva sul piacere e sulla soddisfazione dei desideri ovvero sulla libertà e fa sì che le persone si sottomettano volontariamente. Il dominio si espleta attraverso l’ebbrezza della comunicazione. Smartphone, internet, Facebook sono i nuovi confessionali, dove ci denudiamo volontariamente.
«È questo senso di libertà a rendere impossibile la protesta. Questo denudamento, questo volontario passarsi ai raggi X, segue la medesima logica di efficacia dell’autosfruttamento. Protestare contro cosa? Contro sé stessi? L’artista concettuale americana Jenny Holzer ha messo in risalto questa situazione paradossale in uno dei suoi “truismi”: “Protect mefrom whatl want” (“Proteggimi da ciò che desidero”)».
Byung-Chul Han per esprimere il suo scetticismo circa la possibilità di realizzare la rivoluzione racconta di un dibattito che ebbe con Tony Negri presso la Berliner Schaubühne. Emersero due approcci critici al capitalismo. Negri espresse convintamente la fiducia nella possibilità di una resistenza globale contro l’“Impero” del sistema di dominio neoliberista, presentandosi come un comunista rivoluzionario e apostrofando Byung-Chul Han come un professore scettico. Negri ha evocò con enfasi la “moltitudine”, la massa interconnessa dedita alla protesta e alla rivoluzione, che secondo lui sarebbe capace di far crollare l’Impero. A Byung-Chul Han tale posizione parve invece troppo ingenua e, soprattutto, lontana dalla realtà. Scelse così di spiegare a Negri perché, oggi, una rivoluzione non è possibile.
Il neoliberismo ha dirottato le forze annientatrici e canalizzato la pulsione di morte verso la crescita, che è
«un proliferare canceroso e senza scopo. Producendo e crescendo, proviamo un’ebbrezza analoga a quella suscitata dalla morte: un’illusione di estrema vitalità che cela una catastrofe in rapido avvicinamento. La produzione è sempre più simile alla distruzione». Non c’è rinnovamento. L’obsolescenza programmata fa invecchiare le cose il più in fretta possibile. «Oggi le cose nascono morte».
L’umanità
«è mortalmente accecata: riesce solo a riconoscere l’ordine più basso, mentre dinanzi ai livelli più elevati è cieca come i bacilli».
La società della trasparenza è
«una società pornografica in quanto massimizza e assolutizza la visibilità, facendo scomparire il mistero».
L’eccessiva autoreferenzialità narcisistica crea un senso di vuoto e «l’Io affoga in sé stesso», perde il legame con la realtà e «l’Altro sparisce». Una società senza l’Altro è «una società senza eros».
Se si vuole instaurare un nuovo sistema di dominio bisogna sconfiggere ogni resistenza. Ciò vale anche per il sistema neoliberista. Per introdurre un nuovo sistema di dominio è indispensabile un potere capace di imporsi, spesso accompagnato dalla violenza. Il potere stabilizzante – ricorda Byung-Chul Han – della società disciplinare e di quella industriale era repressivo. Gli operai delle fabbriche venivano sfruttati senza pietà dai padroni e lo sfruttamento brutale condusse a proteste e resistenze. Questo rendeva possibile una rivoluzione capace di rovesciare i rapporti di produzione vigenti. In quel sistema repressivo erano visibili sia l’oppressione, sia gli oppressori. Esisteva – abbiamo detto una controparte concreta, un avversario visibile cui opporre resistenza. Il sistema di dominio neoliberista è strutturato in maniera profondamente diversa. Non solo non è più repressivo, bensì seduttivo, non è più così visibile o evidente che opprime la libertà e contro cui sarebbe possibile opporre resistenza. L’efficacia del potere si fonda sul fatto che non funziona più attraverso divieti e restrizioni, bensì facendo leva sul piacere e sulla soddisfazione dei desideri. Anziché renderle remissive, cerca di rendere le persone dipendenti. È importante – rileva Byung-Chul Han distinguere tra potere che s’impone e potere che preserva. Il potere che salvaguarda il sistema
«assume oggi una forma affabile, “smart”, rendendosi invisibile e inattaccabile. Il soggetto sottomesso non sa nemmeno di esserlo, e anzi crede di essere libero. Questa tecnica di dominio neutralizza la resistenza in maniera efficacissima. Le forme di dominio che sottomettono e attaccano la libertà, al contrario, non sono stabili. Il regime neoliberista è stabile proprio perché si immunizza contro qualsiasi resistenza e usa la libertà invece di opprimerla. L’oppressione della libertà suscita ben presto resistenza. Lo sfruttamento della libertà no».
Nell’epoca odierna non esiste una moltitudine collaborativa e interconnessa in grado di elevarsi a protesta globale, a massa dedita alla rivoluzione. È, piuttosto,
«la solitudine a caratterizzare l’attuale regime produttivo di isolati imprenditori di sé stessi».
A suo tempo, gli imprenditori erano in concorrenza gli uni con gli altri, mentre all’interno dell’azienda era possibile la solidarietà.
«Oggi la concorrenza è ovunque, anche all’interno della medesima ditta. La concorrenza universale aumenta senza dubbio la produttività a livelli spaventosi, ma distrugge la solidarietà e il senso di comunità, giacché non può nascere una massa dedita alla rivoluzione mettendo insieme individui esausti, depressi e isolati».
Non si può spiegare il neoliberismo in chiave marxista. Non è più utilizzabile nemmeno la celebre “alienazione” causata dal lavoro. In realtà, tanti oggigiorno si gettano con euforia nel lavoro, fino al burnout – «e infatti il primo stadio della sindrome da burnout è proprio l’euforia». Burnout e rivoluzione si escludono a vicenda, «quindi è erroneo credere che la moltitudine possa scalzare l’impero parassitario, instaurando al suo posto una società comunista». Amiamo evocare ovunque community e condivisione. La sharing economy dovrebbe sostituire l’economia della proprietà: “Sharing is caring”, recita la massima dei circlers ne Il Cerchio di Dave Eggers [1], e la pavimentazione che porta al quartier generale dell’azienda che dà il titolo al romanzo è costellata di slogan quali “Socializza” o “Partecipa”. In realtà il motto principe dovrebbe essere sharing is killing. È tuttavia fallace credere che la sharing economy, come sostiene Jeremy Rifkin nel saggio La società a costo marginale zero [2], segni la fine del capitalismo annunciando una società globale organizzata in modo comunitario nella quale la condivisione ha più peso del possesso. Al contrario: «la sharing economy conduce a una commercializzazione totale della vita. Il passaggio dal possesso all’“accesso”, tanto celebrato da Rifkin,
«non ci libera dal capitalismo. Chi non ha soldi, non ha nemmeno accesso allo sharing. Anche nell’era dell’accesso continuiamo a vivere in un panottico esclusivo, che taglia fuori chi è senza soldi».
Airbnb, il mercato immobiliare comunitario che trasforma qualsiasi abitazione in un hotel, arriva a sfruttare economicamente persino l’ospitalità.
«L’ideologia della community o del wiki collaborativo porta a una capitalizzazione totale della comunità. Non è più possibile un’affabilità senza secondi fini. In una società in cui ci si recensisce a vicenda, anche l’amicizia finisce commercializzata. Ci si comporta in maniera amichevole per ottenere recensioni migliori. Anche nel bel mezzo di un’economia collaborativa imperversa la logica severa del capitalismo: malgrado si “condivida” tutto, ecco che, paradossalmente, nessuno cede volontariamente qualcosa».
Il capitalismo raggiunge il suo culmine nel momento stesso in cui vende il comunismo come se fosse una merce. «Il comunismo come merce: questa sì che è la fine della rivoluzione».
Per contrastare questa “servitù volontaria”, per dirla con il filosofo Etienne De La Boétie, per Byung Chul Han – come ha dichiarato in una intervista rilasciata a Marco Filoni de La Repubblica il 4 novembre 2022 occorre appoggiarsi alla speranza.
«È la speranza a unirci, a far emergere comunità e solidarietà. È il nucleo primario della rivoluzione. È lo slancio, il balzo in avanti. Ci apre gli occhi dinanzi a una vita diversa e migliore. La speranza apre al futuro. Solo lo spirito della speranza può salvarci».
Il rabbino inglese Jonathan Sacks, recentemente scomparso, ha parlato di un cambiamento climatico-culturale, ovvero il passaggio dal “noi” all’”io”. A partire dalla fine del secolo scorso, abbiamo vissuto un esodo profondo, spesso impercettibile e comunque drammatico, verso il mondo dell’”io” che ha generato una nuova visione dell’uomo e della donna come individui isolati, immessi in un vuoto relazionale, quasi si trattasse di una condizione di normalità. In questo senso, Andrea Riccardi avverte che lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo è immerso in un’epidemia di solitudine. Fino a qualche decennio fa la nostra società era solidamente basata sulla famiglia e abitata da una vasta rete di relazioni prodotta dalla politica, dai sindacati e dai partiti, ma anche dalle associazioni o dalle comunità religiose. Le reti in un certo senso mappavano la nostra società. Era un mondo che produceva cultura, visione delle cose, interpretazioni, prospettive, miti. Potremmo dire che produceva “culture popolari”. Non che tutto andasse bene, intendiamoci. Ma eravamo abituati ad una “società densa”, direbbe Riccardi, percorsa da movimenti che in qualche modo offrivano spazi di solidarietà, rappresentavano un destino comune e proiettavano verso un futuro. Oggi tutto questo – avverte Riccardi – è molto infragilito. Lo psicanalista Luigi Zoja, diversi anni fa, ha sviluppato un’analisi ragguardevole su tali temi, quelli dei legami, in un piccolo libro, significativamente intitolato La morte del prossimo [3]. Il prossimo si è tremendamente allargato come numero per molti di noi con l’ampliamento degli orizzonti globali – egli dice ma allo stesso tempo si sono indebolite le relazioni stabili e le sue figure si sono sfumate. La morte del prossimo è anche la fine dei contorni comunitari, certo sempre cangianti, che hanno accompagnato l’esistenza, facendo da sfondo, costituendo sovente una rete. Ma oggi si sono dissolte le reti tradizionali e rurali con l’inurbamento, ma soprattutto quelle frutto del volontarismo politico, sociale e religioso si sono smorzate. Siamo di fronte – spiega Mattia Ferraresi, attento osservatore della società – a
«qualcosa di più complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo», aggiungendo che il nostro mondo è quello «delle pubblicità profilate, dei pasti monoporzione, del selfie, della condizione di single come stato sommamente desiderabile».
Un mondo, insomma, dove a regnare è la solitudine. Lo slittamento dal “noi” all’”io” ha portato a una desertificazione della vita che persiste persino nei momenti difficili dell’esistenza. La fragilità, la vecchiaia, l’impoverimento, sottolinea Riccardi, mettono in luce come in queste condizioni l’”io” non basta. Cosa significa – si chiede Riccardi per esempio essere bambini o adolescenti in un vuoto di relazioni? Nel linguaggio burocratico, il ragazzo emigrato senza la sua famiglia una realtà che sta diventando sempre più comune viene chiamato con una espressione che sembra quasi una metafora: “minore non accompagnato”. Anche se otto milioni e mezzo di italiani vivono soli e un terzo dei nuclei familiari è composto da una sola persona, la domanda di uscire da una condizione di solitudine che ormai viene avvertita come normale, non si è però spenta. Infatti, in questa condizione “normale”
«si sente un grido di dolore, forse più di uno. Innanzitutto, quello degli anziani, spesso provenienti da una storia di famiglie numerose, che non ce la fanno a vivere soli: si pensi all’emblematica vicenda delle Rsa, che durante la pandemia Covid ha messo in luce il dramma dell’abbandono con migliaia di anziani deceduti nella più totale solitudine».
Il crescente disagio dei più giovani, invece, difficilmente diventa grido,
«perché spesso le loro parole e i loro sentimenti vengono oscurati dal protagonismo di una generazione di adulti che non vuole invecchiare e lasciare spazio ad altri».
La nostra è una società che non solo non fa posto ai giovani ma neppure ha un futuro da proporre loro. Walter Brueggemann, teologo nordamericano, osserva invece che la realizzazione di un sogno non può essere mai unigenerazionale. Un sogno per essere tale deve appartenere a più generazioni. L’Italia della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, per esempio, era animata da un progetto che univa più generazioni in vista del futuro. Contestualmente Riccardi ribadisce la necessità della pace come mezzo risolutivo e necessario, come da sempre ha fatto insieme alla Comunità di Sant’Egidio, «poiché la guerra è il principale ostacolo alla fraternità». C’è fame di soluzioni globali sostiene Riccardi, ricordando le parole del cardinal Martini. È a partire dalla lettura dell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti che emerge l’esigenza di un sogno per il futuro, di un futuro di pace, di un processo di affratellamento, di amicizia sociale. L’enciclica Fratelli tutti, una proposta maturata nel tempo della pandemia, rappresenta anche un forte grido a favore della pace. Il rischio della stagione in cui ci stiamo inoltrando è – come aveva già sottolineato Riccardi nel volume Il grido della pace [4] – la riabilitazione dello strumento della guerra e l’acquiescenza della coscienza e della politica internazionale a questo fenomeno. La guerra a tanti preoccupa di meno. Fare la guerra non suona così scandaloso o innaturale, per buona parte dell’opinione pubblica, Si pensa che la guerra sia questione di altri, anche se poi gli altri non sono poi così lontani. Goffredo Bettini ha recentemente affermato che
«la guerra non è mai neutra. Anche chi la pratica con buone ragioni lascia materiali tossici, difficili poi da smaltire. La guerra impone che il tuo avversario sia descritto sempre come un pazzo, o un mostro, il peggio dell’umano».
Riccardi invita a raccogliere le tante richieste e grida di pace perché «c’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata». La storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. E la più grande sorpresa è la pace. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra. Servono nuovi compagni di strada. Ecco la rivoluzione possibile e praticabile, alla portata di ciascuno.
Antonio Salvati
Byung-Chul Han
Perché oggi non è possibile una rivoluzione Saggi brevi e interviste
Milano, Nottetempo, 2022
pp. 192, € 18,00
[1] David Eggers, The Circle, New York, Vintage Books, 2013; in italiano Il Cerchio, Milano, Mondadori, 2014, traduzione di Vincenzo Mantovani. Nuova ed. Milano, Feltrinelli, 2022.
[2] Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero, L’Internet delle cose, l’ascesa del commons collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Milano, Mondadori, 2014.
[3] Luigi Zoja, La morte del prossimo, Torino, Einaudi, 2009.
[4] Andrea Riccardi, Il grido della pace, Milano, San Paolo, 2023.
—————————–
—————————–
Se sei giunto fin qui vuol dire che l’articolo potrebbe esserti piaciuto.
Usiamo i social in maniera costruttiva.
Condividi l’articolo.
Condividi la cultura.
Grazie
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link