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Nel dibattito sul piano di riarmo ReArm Europe annunciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen la scorsa settimana, si parla molto della dimensione finanziaria del piano, che sarebbe di 800 miliardi di euro. È un numero che viene evidenziato con enfasi sia da chi apprezza il piano, per suggerirne la portata storica o epocale, sia da chi lo contesta dicendo che una somma così ingente andrebbe destinata ad altro. Da un lato e dall’altro, però, si fa riferimento a una cifra che al momento è in massima parte ipotetica: frutto, cioè, di una simulazione fatta dai funzionari della Commissione per stimare il possibile impatto di ReArm Europe nei prossimi quattro anni.
E questo non è neanche l’unico fraintendimento emerso dal dibattito, ce ne sono altri sempre legati al fatto che ReArm Europe non è del tutto definito: la Commissione deve ancora chiarire alcuni aspetti più o meno centrali rispetto al funzionamento concreto del piano, e per conoscerli bisognerà attendere almeno un paio di settimane. Von der Leyen lo ha presentato in maniera sbrigativa durante una conferenza stampa di appena 6 minuti, nella quale ha prudentemente detto che il piano «potrebbe mobilitare fino a circa 800 miliardi». Solo in vista del prossimo Consiglio Europeo i vari capi di Stato e di governo avranno aggiornamenti più puntuali sul progetto di legge che sostanzierà il piano.
Al momento l’unico aspetto finanziario più o meno certo del piano sono i 150 miliardi di euro del programma SAFE (Security action for Europe): si tratta in sostanza di nuovo debito comune che la Commissione emetterà per finanziare eventuali prestiti a lungo termine, a cui gli Stati membri potranno ricorrere per aumentare i loro investimenti nel settore della difesa. Dovranno farlo, però, coordinandosi tra loro, con commesse e progetti che dovranno essere condivisi da almeno due governi. Questo per evitare che le risorse vengano utilizzate per finanziare programmi concorrenti tra loro, o per acquistare dispositivi non compatibili gli uni con gli altri e dunque non utili alla creazione di una vera difesa comune. Anche per questa ragione, la Commissione incoraggerà investimenti nell’ambito del programma di sicurezza militare condiviso che si chiama PESCO, e che però finora è stato utilizzato molto meno del previsto.
Mancano tuttavia, anche in questo senso, i dettagli sull’attuazione di ReArm Europe, così come non è ancora stato definito un altro aspetto fondamentale: e cioè in che misura i nuovi investimenti verranno vincolati al principio del “Buy European”, che prevede di privilegiare acquisti da aziende europee. In questo modo l’Europa vorrebbe interrompere la dipendenza dagli Stati Uniti, che restano di gran lunga il principale fornitore di dispositivi e tecnologia in ambito militare per i paesi dell’Unione. La Francia insiste affinché questo vincolo europeo sia molto stretto; la Germania, e in parte l’Italia, ritengono invece che questo principio rallenterebbe ulteriormente i nuovi investimenti. Spetterà alla Commissione trovare un compromesso da sottoporre ai leader dei 27 Stati.
Anche questa dei 150 miliardi è una cifra non così definitiva, a ben vedere: non è infatti detto che tutti questi fondi verranno utilizzati, per due ragioni tra loro complementari. Sette dei ventisette Stati membri – e tra questi la Germania – si finanziano a un tasso di interesse migliore di quello a cui attualmente la Commissione emette debito: significa, detta in maniera un po’ semplificata, che quegli Stati danno ai mercati finanziari maggiori garanzie di solidità di bilancio di quanti non ne dia l’Unione Europea nel suo complesso, e dunque non è detto che decidano di ricorrere a questo strumento. D’altro canto, tra i paesi finanziariamente meno solidi, che dunque avrebbero senz’altro interesse a farsi prestare risorse dalla Commissione anziché andare a cercarle sul mercato attraverso titoli di Stato, ce ne sono alcuni, come per esempio l’Italia, che sono già fortemente indebitati, e accedendo a quei prestiti, cioè ricevendo soldi che poi dovrebbe restituire pagandoci anche gli interessi, accumulerebbero altri debiti.
È già successo per il Next Generation EU, il grande piano di investimenti finanziato con fondi della Commissione Europea che ha consentito ai vari paesi di fare i loro piani come il PNRR italiano: dei circa 800 miliardi di fondi (in quel caso un mix di sovvenzioni dirette cosiddette “a fondo perduto” e prestiti che invece andranno ripagati) messi a disposizione degli Stati membri per fare fronte alla pandemia, ne restano tuttora circa 93 non spesi proprio per le due ragioni appena spiegate, che potrebbero applicarsi anche al ReArm Europe.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, a sinistra, col presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa a Bruxelles, il 6 marzo 2025 (Virginia Mayo/LaPresse)
Pur ammettendo che tutti i 150 miliardi di prestiti finanziati da nuovo debito verranno utilizzati, è difficile che si arrivi poi a mobilitare gli 800 miliardi di euro di cui si parla. I 650 miliardi restanti, infatti, dovrebbero essere spesi direttamente dai singoli stati che potrebbero ricorrere alla cosiddetta escape clause, cioè a una clausola che consente di derogare ai margini di spesa previsti nel Patto di stabilità, e dunque di indebitarsi superando i limiti delle regole fiscali europee. La Commissione consentirà ai paesi che lo richiederanno di aumentare la propria spesa in difesa fino all’1,5 per cento del loro prodotto interno lordo nei prossimi quattro anni. Basandosi sui livelli attuali di spesa in difesa – in media, i paesi dell’Unione ci investono l’1,9 per cento del loro PIL – la Commissione ha stimato che nel complesso potranno essere fatte maggiori spese per circa 250 miliardi all’anno, ma ci vorrà tempo prima che i governi possano definire un piano di investimenti, che la Commissione dovrà poi autorizzare. E tenendo in considerazione le difficoltà iniziali per avviare tutte le procedure, una proiezione verosimile porta a prevedere che la spesa in difesa fino al 2028 da parte dei 27 Stati membri aumenterà di circa 650 miliardi.
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Anche questa previsione, che i funzionari della Commissione invitano a prendere con cautela, potrebbe essere ridimensionata da alcune incognite. La più grossa ha di nuovo a che vedere con le remore dei paesi molto indebitati a spendere di più, nonostante l’allentamento dei vincoli del Patto di stabilità. La Commissione ha deciso di adottare la escape clause solo a livello nazionale: cioè, ogni paese dovrà fare una specifica domanda per poter spendere più del previsto, e la Commissione dovrà autorizzare questo scostamento dai parametri del Patto di stabilità. Questo fa sì che lo strumento risulti meno attrattivo, perché rischia di aumentare la differenza tra i propri livelli di debito e quelli dei paesi finanziariamente più solidi (per esempio Italia e Spagna rispetto a Germania e Paesi Bassi).
Le perplessità del governo italiano aiutano a spiegare qual è il problema in questo caso.
Per quasi due anni Giorgia Meloni e il suo ministro della Difesa Guido Crosetto hanno a lungo invocato lo scorporo delle spese per la difesa dal Patto di stabilità. Ora che però di fatto lo ha ottenuto, il governo è piuttosto riluttante a spendere quanto gli sarebbe consentito: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha ribadito ai suoi colleghi che, se anche le regole europee ora consentono di fare maggiore debito senza incorrere nelle sanzioni normalmente previste per chi non rispetta i margini, c’è comunque da tenere in considerazione il giudizio dei mercati finanziari.
Gli investitori internazionali valuterebbero infatti negativamente un aumento del debito pubblico italiano, che è già enorme, e sarebbero meno incoraggiati a puntare sull’Italia per le loro attività commerciali o imprenditoriali e a comprare titoli di Stato alle condizioni attuali.
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Tutto ciò riguarda le risorse nuove. ReArm Europe si alimenta però anche di fondi già stanziati, che la Commissione consente agli Stati membri che lo desiderano di riorientare alla spesa militare. È il caso, per esempio, dei Fondi di coesione, quelli destinati principalmente alle aree più arretrate del continente per ridurre le disuguaglianze territoriali, e che vengono ricreati ogni sette anni. Molti paesi, e soprattutto i maggiori beneficiari di questi fondi (come l’Italia), faticano sempre moltissimo a spendere interamente e nei tempi stabiliti queste risorse, che spesso vengono utilizzate molto oltre le scadenze previste e destinate in fretta a progetti diversi, e meno virtuosi, di quelli inizialmente stabiliti, proprio per evitare che vadano perse. E in ogni caso, una certa quantità di questi fondi resta di fatto inutilizzata. Il nuovo ciclo dei Fondi di coesione, quello per il settennato 2021-2027, vale nel complesso 526 miliardi di euro, di cui è stato speso finora appena il 5 per cento in media.
Attivisti srotolano un grande striscione a sostegno dell’Ucraina fuori dall’edificio del Consiglio Europeo a Bruxelles, il 5 marzo 2025 (Omar Havana/LaPresse)
Ma per i governi è complicato sottrarre risorse già stanziate per alcuni territori e destinarli alla difesa, per motivi di consenso. Nel maggio del 2023 la Commissione approvò una misura analoga: consentiva agli Stati membri di dirottare una parte dei fondi di coesione e del Next Generation EU per finanziare l’acquisto di munizioni e altri dispositivi militari, attraverso lo strumento chiamato ASAP. Ne scaturirono grosse polemiche, anche in Italia, sia a destra sia a sinistra: il Partito Democratico, che al Parlamento Europeo si divise sul voto per ASAP, a Roma se la prese col governo e lo accusò di voler snaturare il PNRR per finalità militari, e l’allora ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto assicurò che l’Italia non era intenzionata a far ricorso a questo strumento. Dopo quasi due anni, nessun paese lo ha ancora utilizzato.
Altre risorse, nell’ambito di ReArm Europe, potranno poi essere mobilitate dalla Banca Europea per gli Investimenti (BEI), che entro certi limiti dovrà favorire e sostenere investimenti privati nel settore della difesa, su programmi condivisi dalla Commissione.
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