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ROSIGNANO. Rispetto, educazione, sportività. Giulia Quintavalle, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino 2008 nel judo e dallo scorso anno anche assessora alle politiche sportive del Comune di Rosignano Marittimo, queste tre parole le ha sempre ripetute come un dolce mantra ai suoi ragazzi: in primis a Zoe e Leonardo, i due figli di 8 e 11 anni, ma anche ai tanti giovani atleti che allena sul tatami dal 2017. Ora che questi princìpi sono anche alla base de “La partita applaudita”, il progetto a livello regionale promosso per valorizzare il fair play nello sport, la campionessa olimpionica ha deciso di prendere carta e penna e scrivere una lettera aperta alle società della zona per promuovere una riflessione ancora più ampia su questo tema.
Lei arriva da una disciplina come il judo che fa del rispetto e della sportività due capisaldi che vanno oltre lo sport.
«Sì, il judo è innanzitutto una filosofia di vita. E io sono cresciuta con valori come l’umiltà, il rispetto, la sportività. Non a caso ogni combattimento si apre e si chiude con un inchino reciproco. Un gesto che non è solo forma, ma anche sostanza. Non a caso il judo è nato in Giappone, dove l’educazione è un caposaldo della cultura».
In Italia, invece, come siamo messi?
«Purtroppo da questo punto di vista nel nostro paese siamo indietro. E dobbiamo recuperare molto terreno, anche nei confronti degli altri stati europei. Da noi facciamo il tifo soltanto per l’Italia o gli atleti italiani. È raro assistere a spettatori che applaudono un gesto atletico di un campione straniero. Ma, soprattutto, tifiamo contro. Io ho gareggiato in tantissimi paesi stranieri e devo dire che il clima che si respira nei palasport è molto diverso. Ricordo ad esempio dei combattimenti fatti a Parigi dove in tribuna c’erano tantissimi ragazzi che applaudivano anche gli atleti degli altri paesi. Poi è chiaro e giusto che il tifo più caldo fosse per i loro atleti. Ma non c’era mai un tifo contro».
Da dove bisogna partire per recuperare terreno?
«Non ho dubbi. Bisogna partire dai ragazzi. E dai loro genitori. Sono una componente del Coni e proprio con il Comitato olimpico stiamo portando avanti un progetto indirizzato alle famiglie. Intanto occorre che vi sia un rispetto dei ruoli senza intromissioni, ad esempio, fra genitori e allenatori. Inoltre bisogna capire che si fa sport per crescere e formarsi e che l’obiettivo non è emergere a tutti i costi. Specie in tenera età, ad esempio, bisogna dare delle basi ai nostri ragazzi. Poi, se si dimostra di aver talento, si lavorerà sulla specializzazione».
Lei parlava dei genitori: spesso, soprattutto nel calcio, gli episodi di intolleranza e aggressività partono proprio da loro.
«Anche nel judo, dove i toni sono comunque molto meno caldi, accade che ci siano genitori troppo focosi. E io cerco sempre di far rientrare certi episodi che, per fortuna raramente, si verificano anche da noi. In altri sport, a partire proprio dal calcio, queste brutte scene si ripetono con maggior frequenza. È un effetto del tifo in negativo di cui parlavo, che se esasperato porta ad eccessi. Al contrario, invece, i genitori dovrebbero essere un modello per i propri figli. Per questo dico che per fare un passo avanti occorre sensibilizzare ed educare dapprima i ragazzi e poi, più in generale, le famiglie».
Non sempre è così, per fortuna. E vi sono esempi virtuosi anche in Italia…
«Credo che il lavoro più meritorio, da questo punto di vista, lo stia facendo il rugby. Da anni, ormai, porta avanti una politica che punta sulla cultura sportiva. Dal terzo tempo al tifo sugli spalti, si cercano di educare sia gli atleti che il pubblico. Credo che questo sia un esempio virtuoso da seguire».
Altro punto debole quando si parla di far play è il comportamento di certi atleti. E anche in questo caso è il calcio a dare il cattivo esempio. Basta vedere le simulazioni in campo, le proteste plateali, gli screzi fra giocatori…
«È vero. Purtroppo certe sceneggiate a cui assistiamo soprattutto nel calcio sono l’esatto contrario dei concetti di rispetto e lealtà sportiva. Anche perché certi campioni sono degli idoli e quindi dei modelli e dunque hanno una grande responsabilità per i loro comportamenti. Devo dire però che in tante altri sport non è così. Grazie al mio passato nel judo ho avuto modo di conoscere tanti campioni italiani e stranieri di molte discipline. E devo dire che la maggior parte di loro ha ben chiaro il ruolo che riveste anche agli occhi dei giovani che intraprendono uno sport. Per quello che riguarda la mia esperienza di allenatrice di judo, devo dire che nella società di cui faccio parte cerchiamo di responsabilizzare gli atleti più esperti – le cinture marroni e blu, per esempio».
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