così le parrocchie trovano soluzioni

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Nella casa Don Giuseppe Nozzi – un complesso agricolo con un grande terreno e cinque strutture rimesse a nuovo – una coppia, una consacrata, tre religiosi e alcuni laici si ritrovano a fine giornata mentre, poco lontano, otto detenuti scontano la pena. Siamo a Bologna, negli spazi della parrocchia Santi Savino e Silvestro che ha scelto prima di ospitare una fraternità tra religiosi e laici e poi di aprire le porte ai carcerati, mettendo a disposizione spazi e risorse a uomini in misura alternativa alla detenzione. L’opera di misericordia di “visitare i carcerati” qui ha fatto, se possibile, un passo ulteriore, grazie a una comunità che i ristretti se li è letteralmente portati in casa, destinandogli spazi e risorse. Del progetto è responsabile padre Marcello Matté, già religioso dehoniano e cappellano della casa circondariale Dozza di Bologna. Padre Marcello ha messo a frutto la sua esperienza accanto a chi vive dietro le sbarre e nel 2022 ha ideato una casa famiglia che è un unicum in Italia. «Tutto – precisa immediatamente il religioso – nasce da un gesto di generosità da parte della parrocchia Santi Savino e Silvestro del rione Corticella che, dopo aver pagato per intero le spese di abbattimento e ricostruzione di questa struttura ormai dismessa, ha deciso di destinarla in comodato d’uso gratuito al Centro italiano di solidarietà di Modena». Il risultato è casa Corticella, una struttura di accoglienza per condannati che, per l’ultimo scorcio dell’esecuzione della loro pena, vengono accolti in prova ai servizi sociali e a poco a poco, grazie all’aiuto di un operatore professionale, si reinseriscono nella società attraverso il lavoro. Alcuni lo trovano a pochi passi dalla casa di accoglienza dove è sorta una succursale della Frati&Livi, ditta che si occupa di restauro di volumi e fascicoli danneggiati dalle intemperie (e che, dopo le alluvioni in queste zone, non mancano). «La nostra, come altre attività simili, non sono finanziate dallo Stato – spiega padre Matté – e i territori si muovono in ordine sparso. Noi per i primi tre anni ci siamo sostenuti solo grazie all’aiuto del vescovo, da un anno a Bologna è partito il progetto Territorio per l’inserimento che sostiene queste forme alternative alla detenzione. Comunque, che questa casa sorga accanto a una fraternità ecclesiale è un messaggio dirompente perché mostra nei fatti l’inclusione». La sua affermazione è sostenuta anche dall’esperienza della parrocchia milanese Santi Quattro Evangelisti, dove una decina di donne con figli scontano la pena in misura alternativa alla detenzione. L’ideazione e la gestione dell’opera si deve all’associazione Ciao, nata nel 1995 da un’intuizione di due parrocchiane che avevano iniziato l’attività di volontariato nel carcere di Opera e che poi hanno pensato di coinvolgere il resto della comunità. «Solo nel 2000 – commenta la sua presidente, Elisabetta Fontana – il parroco dei Quattro Evangelisti ha chiesto alle associazioni attive di presentare un progetto per la Casa della gioventù, ormai disabitata: fu scelto il nostro. E così l’ultimo piano è stato ristrutturato e trasformato in tre appartamenti completi con cucina, stanza, soggiorno e bagno più alcuni spazi comuni». Inizialmente destinati ai detenuti in permesso che qui potevano passare qualche ora con i familiari, nel 2010 grazie a un dialogo con le istituzioni penitenziarie e una convenzione con il Comune, è iniziata l’accoglienza di sei mamme detenute con i bambini, che in questa «casa famiglia protetta» trovano un’alternativa agli Icam oppure alle sezioni nido dei penitenziari tradizionali da cui in larga parte provengono. Si tratta di una formula prevista dalla legge 62 del 2011 in assenza di case o altre strutture dove la donna con figli può andare in detenzione domiciliare e attualmente sostenuta con una linea di finanziamento approvata per tre anni con la legge di bilancio 2020, i cui fondi, però, si stanno esaurendo. Eppure, per portare avanti un’attività del genere servono volontari ma anche educatori professionali, che si occupano di accompagnamento psicologico e scolastico, e perciò la struttura si appoggia a progetti e bandi. «Senza la parrocchia – precisa il direttore Andrea Tollis – non sarebbe stato possibile nulla. La vicinanza con i detenuti permette una contaminazione che allarga la comunità e la sensibilizza: i bambini delle donne in esecuzione di pena frequentano il catechismo e l’associazione sportiva e alcune attività vengono condivise con il territorio».

La stessa cosa succede, in città, nella parrocchia San Vittore al Corpo che ha fatto della sua vicinanza – poche centinaia di metri – al più celebre penitenziario milanese una ragione di vita. Da quasi vent’anni ha sede l’associazione Il Girasole il cui focus sono i detenuti e le loro famiglie che, dal 2006, vengono supportate nella sala d’attesa del carcere e con un centro di ascolto. Dal 2012 con la collaborazione di Caritas ambrosiana e della Comunità di Sant’Egidio, l’ente ha ristrutturato un immobile liberatosi dalla parrocchia, che ha scelto di destinarlo all’opera, e ha permesso l’istituzione di una casa famiglia intorno alla quale ruotano 45 volontari e sette operatori professionisti. Alcuni detenuti arrivano in permesso premio da San Vittore, Opera e Bollate: per beneficiare di queste misure alternative serve anche un domicilio riconosciuto, che però non sempre le persone hanno perché magari la famiglia è fuori regione oppure perché si tratta di stranieri. «A queste persone – spiega la presidente e fondatrice Luisa Bove – destiniamo un primo piccolo appartamento che può accogliere fino a due ospiti. Mettiamo a disposizione viveri e diamo poche regole. In una palazzina vicina sorgono invece tre appartamenti destinati a detenuti alle misure alternative in affidamento a sevizi sociali, che possono essere ospitati anche per sei mesi. Vengono aiutati a trovare lavoro, supportati economicamente e aiutati nel reinserimento. La parrocchia è un bacino di raccolta di nuovi volontari e collaboriamo con il servizio guardaroba per persone indigenti attivo in parrocchia».

Di fronte ai 62mila detenuti ristretti nei penitenziari italiani, i pochi posti disponibili in queste strutture – nate dalla lungimiranza delle singole parrocchie e diocesi – sono numeri omeopatici ma molto simbolici della possibilità di investire in misure alternative al carcere, che non risponde alla funzione educativa che la Costituzione gli attribuisce. «A livello ecclesiale ed etico – sintetizza padre Matté – è un’operazione di valore ma lo è pure dal punto di vista civile, visto che per mantenere un detenuto in carcere si spendono 164 euro con la probabilità del 70% che torni a delinquere, mentre, con le misure alternative, questa percentuale scende sotto al 10 per cento».





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