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Partire e non tornare mai più indietro.
Un pensiero del genere, almeno una volta nella vita, è probabilmente passato per la testa di tantissime persone. Mollare tutto, il lavoro, la propria esistenza borghese, gli obblighi, l’affitto, le spese. Chiudere con il quotidiano, salire sul primo treno o aereo e scappare via lontano, dall’altra parte del mondo, in cerca di fortuna o di un futuro finalmente radioso.
Se però questa frase finisce tra le righe che si possono leggere da queste parti o se la destinazione di un nostro fiabesco fuggiasco fosse Torino degli anni ’70, allora, le possibilità che questo immaginario film d’avventura si trasformi in un thriller sono abbastanza alte.
Frank ha 24 anni, fa l’insegnante alle scuole elementari ed è da poco sposato con una bellissima impiegata ventitreenne che si chiama Marie Rose. La coppia è originaria di Kortryk, in Belgio, nelle Fiandre, dove si parla il fiammingo e in cui conoscere il francese è ampiamente un optional.
Figuriamoci l’italiano.
I due si amano alla follia, si scambiano promesse probabilmente irrealizzabili come tutte quelle tra giovani amanti e hanno un sogno: mollare il nord, il freddo, la pioggia. Attraversare i confini, andare verso sud, verso il mare e luoghi e culture diversissime dalla loro.
Non vogliono scappare. È semplicemente l’estate del 1978 e, dopo qualche mese di duro lavoro totalmente fai da te, Frank è riuscito a trasformare un vecchio camioncino in un camper e ha proposto a Marie Rose di andare in vacanza attraverso l’Europa meridionale.
Partono il primo d’agosto.
Non conosciamo tutte le tappe del loro viaggio, non sappiamo se avrebbero voluto scendere in Sicilia e poi magari arrivare in Spagna o in Portogallo, ma di sicuro attraversano la Francia e, per qualche giorno, si fermano in Provenza. Il 16 dello stesso mese, nel pomeriggio, giungono in quella che La Stampa definisce “una tendopoli” alla periferia di Moncalieri, dove stabiliscono la loro base, e decidono di recarsi a Torino per fare il classico giro da turisti in cerca di qualche monumento da fotografare.
Frank parcheggia il camper in corso Re Umberto 17 ed è lì che gli innamorati, intorno alle 22,45, stanno lentamente tornando camminando su via Cernaia. All’improvviso, all’altezza di corso Vinzaglio, sbuca contromano un’Autobianchi A 112 Abarth con a bordo quattro giovani. L’auto si accosta ai belgi che stanno passeggiando e, da uno dei finestrini abbassati, uno dei suoi occupanti inizia a proferire una serie pesanti “complimenti” all’indirizzo di Marie Rose.
I coniugi non capiscono cosa gli stiano dicendo ma lo possono intuire. Parlano fiammingo, a malapena qualche parola di francese. Figuriamoci l’italiano. Non li considerano, tirano dritto e tentano di allontanarsi ma il giovane sulla macchina insiste ricevendo, in tutta risposta, un gesto di scherno da parte di Frank.
A questo punto, praticamente di fronte alla Caserma Cernaia (il comando della scuola allievi dei Carabinieri) il “corteggiatore” abbandona l’abitacolo e si para davanti agli sposini. Il ragazzo ha sottobraccio un borsello e da questo tira fuori un tesserino e una Beretta calibro 9. Frank non comprende immediatamente cosa stia accadendo ma, istintivamente, vedendo alcuni militi di guardia lì vicino, si mette a urlare “polizei, polizei!” tentando di attirare la loro attenzione. Si trova la pistola puntata e l’altro a pochi centimetri di distanza, gli da uno spintone e, nella colluttazione, parte un colpo. La pallottola lo colpisce dal basso verso l’alto, penetrando nella testa dalla mascella e trapassandogli il cervello. L’insegnante cade per terra senza un urlo, in un lago di sangue, ucciso sul colpo.
Muore così, ad appena 24 anni, Frank Calson, turista belga che evidentemente non sapeva quanto fosse pericolosa Torino alla fine degli anni ’70. Il suo assassino viene subito fermato, si consegna spontaneamente senza fare resistenza ed è in questo momento che la tragedia prende i contorni della farsa.
Il colpevole, 20 anni appena, si chiama Tommaso Colletti ed è un poliziotto. È da quelle parti perché è stato a cena in casa di uno dei tre amici che lo accompagnano e, dovendo entrare in servizio alla procura della Repubblica intorno a mezzanotte, decide insieme agli altri di farsi un giro in centro prima di recarsi a lavoro. La sua spiegazione dello svolgimento dei fatti fa da contraltare alla versione di Marie Rose la quale, per altro, come prima cosa ci tiene a sottolineare che in alcun modo pensò di trovarsi davanti a un servitore dello Stato e che, in ogni caso, si mostrò stupita, anche perché “in Belgio la polizia non ha armi”.
Colletti, pur fuori servizio, riferisce di aver notato la coppia camminare e l’uomo gesticolare in maniera sguaiata. È anche l’aspetto dei due a destare dei sospetti: “lui aveva quei capelli sul collo, lei quella gonna lunga, zingaresca, andavano identificati”. Il poliziotto nega di aver avuto atteggiamenti sconvenienti verso la ragazza, di essersi qualificato, di aver mostrato il proprio tesserino e di aver tirato fuori la pistola solo dopo che l’altro, rifiutandosi di mostrare i documenti, lo avrebbe colpito con uno spintone. Il belga gli avrebbe dato una botta sulla rivoltella e, per pura disgrazia, sarebbe partito lo sparo fatale.
Colletti si dimette dal suo incarico già il 21 agosto ma questo, ovviamente, non gli evita di finire in un’inchiesta dalle molteplici domande inquietanti. Perché la guardia ha estratto di tasca l’arma? Perché l’auto con i quattro ha svoltato in senso proibito? Perché, se davvero si era sentito in dovere di identificare lo sconosciuto, Colletti, che era in borghese, non ha chiesto la collaborazione dei carabinieri in divisa che rientravano in caserma a pochi passi? In aggiunta a questo, a metterlo nei guai è una perizia che il giudice istruttore Sandrelli affida agli esperti Nebba e Zafrognini. Da questa si viene a sapere che l’indagato è sceso dall’auto con la pistola col colpo in canna, il cane armato e la sicura disinserita, puntando il revolver al petto della vittima da una distanza di 25/30 cm al massimo.
Per questi motivi, nella sua requisitoria a processo, il sostituto procuratore Corsi richiede che Colletti venisse condannato a 17 anni per omicidio volontario. Secondo il magistrato l’agente “creò una situazione di pericolo e accettò come possibile il rischio della tragedia che poi si verificò”. Lo stesso definisce l’accaduto “un episodio assurdo, nato dal comportamento arrogante e provocatorio del Colletti” che avrebbe potuto “interrompere in qualsiasi momento il suo comportamento di deliberata provocazione, generato da arroganza, violenza e da un certo tipo di mentalità di sopraffazione che lo ha fatto agire da teppista”.
Nonostante questo, tuttavia “la vita difficile dell’imputato e la sua scarsa preparazione culturale giustificano la concessione delle attenuanti generiche” come si legge nelle conclusioni.
Di contro la difesa secondo la quale “Colletti ha preso la pistola, l’ha tenuta di piatto sul palmo della mano solo per fare capire all’altro che era un agente. Quell’arma non era un pericolo nelle mani del poliziotto”. Per gli avvocati Geo Dal Fiume e Gianclaudio Andreis si è trattato di una maledetta fatalità, senza nessuna intenzionalità. Omicidio colpo, dunque.
La sentenza definitiva arriva solo nel 1986 e Colletti viene condannato a 7 e anni e mezzo per omicidio colposo aggravato e abuso di potere.
Una disgrazia, una casualità, Che, siamo abbastanza certi, Frank e Marie Rose, fosse stato per loro, avrebbero certamente evitato volentieri.
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