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«Lavorare con i computer si è dimostrata una grande opportunità per divertirsi parecchio, guadagnare qualcosa e imparare moltissimo. Io, comunque, non penso di continuare a dedicarmi a questo campo. Al momento ciò che mi interessa di più è l’economia oppure la giurisprudenza». Era l’autunno del 1972, e questo è ciò che il poco più che sedicenne Bill Gates, futuro eresiarca del software, scriveva nella domanda di ammissione all’Università di Harvard. Certo, avrebbe preferito lavorare nel mondo nascente dei computer e, nello specifico, nello sviluppo del software, ma la prospettiva era abbastanza improbabile visto che ancora i microprocessori non erano sufficientemente potenti per favorire la nascita di computer economici e multiuso (per questo Gates aveva scartato l’idea di andare al mit di Boston: troppi nerd e ancora poca sostanza, scrive in Source Code, Mondadori, 2025, primo volume di una corposa, circostanziata e decisamente meticolosa trilogia autobiografica).
Comunque, per non lasciare niente di intentato, il giovane Bill aveva inviato domanda di ammissione anche a Princeton per il corso di ingegneria, e a Yale a cui aveva scritto di essere interessato a lavorare per il governo, possibilmente in ambito legale. Questo mentre, per proprio conto, continuava a coltivare quella che i genitori (ai quali è dedicata una larga e minuziosa parte dell’autobiografia) consideravano un’insana passione: programmare software per quei primi ingombranti e costosi “cervelli elettronici”, metafora con cui, all’epoca, si indicavano gli antenati degli attuali computer che, in quel 1972, erano principalmente mainframe (ingombranti armadi di metallo con valvole, relè o transistor che riempivano intere stanze, dal costo di milioni di dollari), minicomputer (macchine delle dimensioni di un frigorifero, dal costo oscillante tra i diecimila e i centomila dollari) e, in alcuni casi, supercomputer (simili ai mainframe, ma con un’architettura più avanzata, usati principalmente per progetti militari e crittografia). Il primo piccolo passo verso i personal computer arriverà solo a metà anni Settanta con macchine come l’Altair 8800 (1975) e poi con l’Apple I (1976).
L’Altair 8800 è, infatti, la macchina seme della rivoluzione digitale e della fortuna miliardaria di William Henry Gates III, detto Bill, segno zodiacale Scorpione (è nato il 28 ottobre 1955) di cui, sin da ragazzo, palesa tutte le caratteristiche: istintività, tenacia, passione, ribellione, aggressività, permalosità e una competitività da togliere il fiato.
Quando la Silicon Valley era solo una Valley
Narra la leggenda, ormai raccontata in tutte le salse giornalistiche, che Paul Allen, amico d’infanzia di Gates e futuro socio fondatore della Micro-Soft (sì, con la lineetta), passando davanti a Out of Town News, il chiosco di giornali più frequentato di Harvard Square a Cambridge, Massachusetts, vede pubblicizzato, sulla copertina della sua rivista preferita, Popular Electronics di Gennaio 1975, la foto del «Primo kit di minicomputer al mondo in grado di competere con i modelli commerciali: l’Altair 8800», prodotto dalla Micro Instrumentation and Telemetry Systems (mits), un’azienda di aeromodellismo e calcolatrici elettroniche con base a Albuquerque, Nuovo Messico, con sede in un ex negozio di sandwich, fondata da tale Ed Roberts, ingegnere e soprattutto imprenditore visionario. Si trattava praticamente della prima macchina “personale” che gli hobbisti dell’elettronica potevano permettersi di acquistare a un prezzo accessibile: 397 dollari per il kit di montaggio formato da centinaia di pezzi che chiunque, con conoscenze tecniche ragionevoli, poteva assemblare in casa. Dopo aver finito di saldare e avvitare il tutto, doveva solo sperare che funzionasse. La rivista faceva osservare che il prezzo inferiore ai 400 dollari equivaleva, più o meno, al costo di un televisore a colori.
L’Altair (così battezzato dal nome del pianeta visitato dall’astronave USS Enterprise in una puntata della serie televisiva Star Trek) era poco più grande di una macchina per scrivere, una sorta di ricevitore stereo con interruttori a levetta e luci, senza tastiera né schermo: i comandi venivano inseriti tramite interruttori sul pannello frontale, e i risultati visualizzati da luci led. Per caricare un singolo byte nell’Altair bisognava azionare almeno nove interruttori. L’inserimento anche del più semplice dei programmi, per esempio quello per sommare 2 + 2, richiedeva decine di azioni.
Per l’appassionata comunità degli hobbisti informatici la macchina era, comunque, il Santo Graal pur avendo a disposizione solo 256 byte di memoria (appena sufficienti per scrivere meno di un paragrafo di testo in Word, o come guidare un’auto con un serbatoio delle dimensioni di una lattina di soda). Era alimentata da un processore Intel 8080 a 8 bit, evoluzione del “mitico” Intel 4004, il primo processore programmabile della storia (concentrava tutte le funzioni principali di un computer su un unico pezzo di silicio) progettato dal fisico, inventore e imprenditore italiano Federico Faggin, al quale Gates renderà gli onori ricordando che «prima di lui, la Silicon Valley era solo una Valley».
Oggi, a compiere il secondo passo per lo sviluppo tecnologico – ma un grande balzo per l’umanità – è proprio la Microsoft di Bill Gates che ha appena presentato il primo chip quantistico al mondo chiamato Majorana 1 (il nome è ovviamente un omaggio al grande fisico italiano Ettore Majorana) basato su una architettura (Topological Core), che apparentemente permetterà di realizzare computer quantistici in grado di «risolvere problemi significativi su scala industriale nel giro di anni e non decenni».
Oh Dio mio: due più due fa quattro
A Harvard, nonostante se la cavasse piuttosto bene, Bill Gates resisterà solo due anni. Le sirene della computer science avranno la meglio su una eventuale futura fama accademica. Le fibrillazioni della società americana – era il tempo della sentenza Roe v. Wade che avrebbe garantito il diritto all’aborto; della dichiarazione con cui Nixon affermò «I’m not a crook», non sono un imbroglione; del lento disimpegno dell’America dal Vietnam – finivano per rispecchiarsi nella società, nei giovani, e nello stesso Bill Gates anche se, al momento, lui era concentrato in problemi più contingenti, di meno ampio respiro sociale: riuscire a eccellere in materie complementari come matematica e fisica e, saltuariamente, imbroccare con le ragazze.
Un B+ preso in matematica nel primo semestre lo costrinse a rivedere l’idea che aveva di se stesso: «Mi ero tanto identificato con il più intelligente, il migliore. Era stato come uno scudo dietro al quale avevo nascosto le mie insicurezze. Fino ad allora c’erano state poche situazioni in cui avevo pensato che qualcuno fosse migliore di me. Stavolta era diverso. Riconoscevo che se pure avevo un’ottima testa per la matematica, non avevo il dono dell’intuizione che contraddistingue i matematici eccellenti. Avevo del talento, ma non le capacità per arrivare a scoperte importanti. Mi vedevo, di lì a dieci anni, a insegnare all’università. Senza contare le aspettative implicite dei miei genitori».
Poi c’era l’amico Paul Allen con il quale discutere di cosa fare da grandi. Ma mentre Paul era un partigiano dell’hardware, a Bill il business di costruire computer sembrava troppo rischioso. «Avremmo dovuto comprare le parti, assumere persone per assemblare le macchine e trovare un sacco di spazio per farlo. E poi come potevamo realisticamente competere con grosse aziende come l’ibm o con i produttori giapponesi di elettronica in rapida ascesa?». Visione che sarebbe stata “teorizzata” da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: «La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima, con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate di acciaio, ma come i bit d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bit senza peso».
Niente fili, niente fabbriche
Il software era, infatti, diverso. Niente fili, niente fabbriche. Scrivere software era solo capacità mentale e tempo. «Ed era quello che sapevamo fare, quello che ci rendeva unici. Era dove avevamo un vantaggio. Potevamo fare addirittura da apripista». Ma innanzitutto serviva un computer per testare tutte quelle belle idee.
Ed ecco, dunque, spuntare l’Altair. Bill e Paul non ebbero dubbi, non c’era tempo da perdere. La rivoluzione era dietro l’angolo. Dovevano prendere l’occasione al volo. Telefonarono a Ed Roberts, l’uomo che aveva creato l’Altair. Gli dissero che avevano scritto per il suo computer una versione di un linguaggio di programmazione chiamato basic. Non era vero, ma lo sarebbe stato dopo otto settimane che i due amici si lanciarono in un’abbuffata di scrittura di codice addormentandosi alla tastiera, sognando in codice, svegliandosi e ricominciando tutto daccapo, senza soluzione di continuità. Quando si presentarono per il test, caricarono il software nell’Altair e digitarono “print 2 + 2”. L’Altair rispose “4 ok”. Roberts, un omone alto e corpulento, dalla voce tonante che rimbombava per tutto l’ufficio, era allibito: «Oh mio Dio, ha stampato quattro». Il programma funzionava.
Ma ora arrivava il difficile. I due amici dovevano trasformarsi in una società vera e propria. Una delle cose che servivano era un nome. Il primo che venne in mente fu “Allen & Gates Consulting”. No, non andava bene, la gente li avrebbe scambiati per uno studio di avvocati. Era necessario un nome di peso. «Fu Paul ad avere l’idea: dato che scrivevamo software per microcomputer, perché non unire quelle due parole? Io fui d’accordo. Avevamo finalmente il nostro nome: Micro-Soft».
Basic su misura
Arrivano i primi contratti, le prime scaramucce legali, i primi impiegati, la prima sede. «Ripensandoci adesso, sapendo come si sarebbe sviluppata la storia della Micro-Soft, sembra ovvio che a quel punto avrei semplicemente dovuto abbandonare gli studi». Cosa che avverrà di lì a poco, costretto da una inarrestabile spirale di tecnologia degli esordi che avrebbe cambiato non solo la sua vita, ma il mondo stesso. In questa autobiografia gli appassionati di proto-tecnologia avranno di che saziarsi dei vari dettagli tecnici della scalata al successo di Bill Gates: dalla descrizione delle varie macchine, ai processori, ai software di programmazione, ai dettagli in stile nerd.
È alla fine del 1977 che tre macchine – il Commodore, l’Apple II e il trs-80 di RadioShack – fanno la loro apparizione in scuole, uffici e case portando i primi semi della rivoluzione del personal computer al pubblico generalista. «Su ogni apparecchio della “trinità del 1977”, come erano note le tre macchine, era installata una versione del nostro basic, confezionato su misura sui requisiti dei loro produttori».
Il dicembre dell’anno successivo è il Natale della svolta. La Microsoft (che nel frattempo aveva perso la lineetta) lascia i provvisori uffici di Albuquerque, e il caldo del Nuovo Messico, per traslocare nella piovosa Seattle, la città dell’infanzia di Gates. Per Bill era un ritorno a casa, un riavvicinarsi ai genitori, ma non solo: la prossimità con l’Università dello Stato di Washington era una grande fonte di programmatori e la lontananza dalla Silicon Valley permetteva all’azienda un grado di segretezza più elevato, e un minor rischio di perdere impiegati a favore della concorrenza.
«Chiusa bottega», racconta Gates «infilai il poco che possedevo nella mia Porsche 911 usata e mi diressi a nord. Ricordo il viaggio per le tre multe per eccesso di velocità che presi. La mia strada era decisa. Mentre correvo lungo l’Interstatale 5 a 160 chilometri all’ora, riuscivo a stento a immaginare quanto lontano sarei arrivato».
Triade oscura della personalità
Questo primo volume della trilogia autobiografica di Bill Gates, in lavorazione da almeno un decennio, arriva in un momento particolarmente insolito di epidemia da “Triade Oscura della personalità” (insieme di tre tratti comportamentali, quali: narcisismo, machiavellismo, e psicopatia) che si è insinuata nella società. Si tratta di un aspetto patologico studiato da Sigmund Freud che nei soggetti a rischio, a fronte di minacce percepite, scatena rabbia inconsulta, mentre i successi alimentano sentimenti di grandezza, una particolare forma di pandemia che ha colpito soprattutto l’ego dei tecno-oligarchi della Silicon Valley, con in testa Elon Musk e il suo datore di lavoro, quello che si è recentemente autoincoronato “re”.
«I narcisisti che soddisfano i criteri della Triade Oscura», spiega Massimo Barrale, psicologo e psicoterapeuta «si percepiscono come speciali, persone importanti per la storia dell’umanità, si sentono superiori. Rappresentano la migliore categoria di essere umano possibile e il loro comportamento riflette il loro senso di superiorità. Alcune delle manifestazioni esteriori comuni di un narcisista sono l’incapacità di accettare le critiche o il dissenso in alcun modo e nel contempo la necessità di essere lusingati. I narcisisti hanno un bisogno costante di lodi, approvazione e “riconoscimento” e tendono ad organizzare la propria vita in un modo che un gruppetto di amici “privilegiati” possa soddisfare questo bisogno». Amici come i confratelli tecnocrati della Silicon Valley, da Jeff Bezos (Amazon), a Mark Zuckerberg (Meta), a Peter Thiel (PayPal), «campioni di una nietzschiana trasmutazione generazionale di tutti i valori morali», giudizio anticipato da Riccardo Notte in La razza stellare (Edizioni Seam, 1999).
E dire che negli anni Ottanta e Novanta erano Bill Gates e la sua azienda ad essere percepiti come potenti, spietati e onnipresenti tecnocrati solo perché Microsoft forniva il sistema operativo e alcuni software (essenzialmente di scrittura) per i personal computer che sempre più andavano diffondendosi nelle case e negli uffici, tanto da impensierire le autorità di regolamentazione, e raggiungere l’apice della paranoia con la pellicola techno-thriller Antitrust (2001), storia di un malvagio amministratore delegato di un’azienda tecnologica (leggi Bill Gates) che cercava di controllare il mondo. Oggi dove sono i Grandi Accusatori del ben più pericoloso vampirismo informatico?
Vite (per niente) parallele
Se negli anni Ottanta e Novanta Bill Gates e Steve Jobs, rivale e compagno di strada nel creare aziende leader nei rispettivi settori, si facevano concorrenza e non si risparmiavano frecciate – seppure sempre nell’ambito di un fair play che di questi tempi ci sembra tanto lontano quanto quello dei Cavalieri della Tavola Rotonda – oggi i due fanno la figura di boy-scout rispetto al modus operandi di Elon Musk, gran patron di Tesla, Space X e dell’inquietante rete sociale “X” (ex Twiter) che sarebbe stata acquistata – secondo la rivista economica Fortune, la rete televisiva cnbc e altre fonti – con iniezioni di liquidità provenienti da neanche tanto oscuri oligarchi vicini al Cremlino.
Quest’ultima acquisizione si sta infatti rivelando politicamente importante per gli irrefrenabili piani trumpiani di disgregazione della società, grazie alla possibilità di diffondere notizie farlocche (l’ultima: “la Russia non ha invaso l’Ucraina”) che puntano «a dare diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività, mentre oggi hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel»: Umberto Eco dixit.
E se, dunque, Bill detesta Elon e lo dice pubblicamente (in un’intervista rilasciata al Sunday Times, il fondatore di Microsoft ha definito il comportamento del tycoon “folle”, suggerendo ai governi europei di adottare misure per evitare che gente come Musk possa influenzare le elezioni nei loro Paesi), l’unica altra voce alzatasi contro il First Buddy è quella di Steve Bannon – l’ideologo della rivoluzione nazionalista e populista, ex stratega di Trump (che definisce: «strumento della provvidenza divina”) – che da mesi attacca Musk e il suo strapotere, chiamandolo una «persona malvagia». Certo, visti i personaggi e la loro tendenza ad alzare troppo il gomito nel saluto nazista, sembra piuttosto una gara a misurare chi ce l’ha più lungo. Il braccio, naturalmente.
Comunque, per la cronaca, l’ultimo “sgarbo” nella saga tra Bill e Elon riguarda l’acquisto di un’auto elettrica da parte di Gates che ha snobbato la Tesla per una ben più iconica e performante Porsche Taycan. Apriti cielo.
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