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Le minoranze hanno un uso strumentale nei conflitti: fin quando serviranno i cristiani ad Al-Jolani?
Con l’espressione “cristianesimo siriaco” viene indicato l’insieme delle Chiese cristiane della Siria e della Mesopotamia, chiese attraverso le quali la religione del Vangelo ha trovato una sua diffusione anche in Oriente e Subcontinente Indiano. Il Cristianesimo si è diffuso in Siria molto presto, già a partire dal I secolo d.C. (la Siria fu, dopo la Giudea, una delle prime regioni al mondo ad ospitare comunità cristiane) e, nel corso dei secoli, si è articolato in diverse Chiese: cattolica-romana, armena, maronita, caldea, greco-melchita, siriaco-ortodossa. La Chiesa siriaco-ortodossa ha molti fedeli sparsi nel mondo e trova la sua principale guida nel patriarca di Damasco, dal 2014 tale carica è ricoperta da Ignazio Efrem II.
Quattordici anni di guerra hanno messo a dura prova tutta la popolazione siriana, ma, come spesso accade, le minoranze pagano spesso un prezzo più alto degli altri. Prima del conflitto, scoppiato nel 2011, i cristiani siriani erano circa due milioni contro il mezzo milione post-conflitto. Le comunità cristiane hanno subito atti persecutori durante la guerra civile messi in atto soprattutto da mujahiddin provenienti dall’Arabia Saudita, Cecenia, Mongolia e Paesi del Nord Africa, i quali hanno molto spesso vandalizzato o messo a ferro e fuoco dei luoghi di culto, per non parlare delle persecuzioni religiose messe in atto dallo Stato Islamico, il quale però non ha costituito una minaccia solamente per le comunità cristiane, ma, cercando di imporre la propria versione di Islam, ha attivamente perseguitato (e ucciso) molti musulmani considerati poco ortodossi.
Molti siriani hanno lasciato il proprio Paese per emigrare verso le nazioni occidentali e, a differenza di altre componenti della popolazione, faranno più difficilmente ritorno a Damasco dopo la fine del conflitto. Nonostante le dichiarazioni di Al-Jolani, secondo le quali i cristiani non devono essere semplicemente tollerati, ma devono diventare parte integrante della costruzione della Siria post-assad, la natura islamista del regime fa propendere molti, specie coloro che hanno in questi anni faticosamente ricostruito la propria vita altrove, verso la prudenza.
L’emigrazione dei cristiani dalla Siria rischia di cambiare radicalmente il tessuto sociale di questo Paese. In Siria la convivenza pacifica tra diverse religioni è, per ragioni storiche, un elemento intrinseco della cultura del Paese. I cristiani sono parte del tessuto sociale e storico. Il rischio è quello, dunque, di porre le basi di una società molto meno plurale. I cristiani hanno, inoltre, storicamente rappresentato un gruppo molto attivo nel campo della politica, della cultura, dell’economia e anche della medicina, motivo per il quale il regime di Assad, in primis per assicurarsene il sostegno, ha garantito a questo gruppo dei privilegi, quali una certa autonomia nella gestione che riguardava la costruzione delle Chiese e delle proprie istituzioni religiose. Durante il regime assadista, molti cristiani hanno assunto ruoli di rilievo nell’amministrazione pubblica e nel governo (ad esempio Joseph Suweid, ministro dal 2011 al 2014). Proprio il generale buon rapporto tra comunità cristiane e regime, li ha resi ancora più vulnerabili durante la guerra civile.
Solo il tempo potrà rivelarci il reale volto del nuovo regime nei confronti delle comunità cristiane. Per il momento la priorità di Al-Jolani è costruirsi una credibilità sulla scena internazionale, utile per attirare finanziamenti volti a ricostruire il Paese e, in ultima istanza, rafforzare il regime, garantendosi il più ampio sostegno possibile anche sul fronte interno.
Cosa accadrà quando questa esigenza di rafforzamento interno ed esterno scemerà? Quando, insomma, il regime avrà stabilito una serie di legami di potere dentro la Siria e forti alleanze esterne?
Il sostegno turco, così come quello delle monarchie arabe del Golfo non verrebbe di certo meno anche in caso di persecuzioni anticristiane. Il punto che resta da chiarire è, dunque, quanto il sostegno occidentale sia fondamentale per Al-Jolani nel lungo periodo.
Se la Turchia dovesse ulteriormente rafforzarsi nell’area, a discapito dell’Iran (se, ad esempio Ankara dovesse rafforzare il proprio posizionamento anche in Iraq), Al-Jolani avrebbe meno bisogno dell’Occidente e l’Occidente meno bisogno della Siria.
In questo caso, non mancherebbero di certo numerosi appelli occidentali che denuncerebbero le persecuzioni contro le minoranze, ma a tali appelli non seguirebbero azioni concrete.
Se l’Iran, invece, dovesse rafforzarsi in Iraq, gli Stati Uniti avrebbero bisogno un ulteriore avamposto occidentale in Medio Oriente (oltre a Israele) per evitare che Teheran ripristini il suo arco di collegamento tra la Repubblica Islamica e il Mediterraneo e a quel punto, anche la Turchia e il regime siriano avrebbero interesse in un maggior attivismo occidentale nell’area in funzione anti-iraniana.
Ciò che è certo è che la Siria risulta impoverita a livello sociale e culturale dalla partenza di numerosi cristiani, non solo per il contributo culturale che essi hanno tradizionalmente dato al Paese, ma per il rischio di disgregazione di una cultura di convivenza multireligiosa di rara forza a livello mondiale e che contraddistingue molti Paesi arabi del Vicino Oriente.
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