L’inflazione cura i debiti pubblici: il realismo invocato dal ministro Zangrillo è una bugia

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Questi ultimi tre anni sono stati abbastanza tribolati per le famiglie italiane, con un’inflazione a due cifre e redditi stagnanti. Ma c’è qualcuno, oltre ai soliti manager bancari e assicurativi, che invece può sorridere. È il ministro delle Finanze, il dott. Giorgetti. Questi ultimi anni sono stati tre annualità da incorniciare per le entrate tributarie. La ragione è ben nota: l’inflazione, mentre deprime i redditi reali, alza quelli nominali incrementando il gettito fiscale.

È un fenomeno ben noto e conosciuto come fiscal drag, il drenaggio fiscale a favore dello Stato. L’inflazione è sempre stata una grande cura per i debiti pubblici. Ad esempio, solo nel 2024 le entrate tributarie sono aumentate del 6,3% in termini relativi e di 40 miliardi in termini assoluti. Lo stesso è accaduto negli anni precedenti. Quindi i dati ci consegnano un extra gettito superiore ai 100 miliardi nel triennio 22-24.

Di fronte a questi numeri, uno potrebbe pensare che il governo dovrebbe essere molto generoso o almeno corretto con i dipendenti pubblici. Invece è accaduto il contrario. Il governo vuol riconoscere un aumento salariale di appena il 6% a fronte di un’inflazione del 16%. Il ministro Zangrillo, di fronte alle proteste della Cgil e della Uil, ha dichiarato che non ci sono i 32 miliardi per adeguare gli stipendi almeno all’inflazione e che i sindacati devono essere realisti, cioè accontentarsi di quello che passa il convento, in questo caso il governo. La Cisl, ormai del tutto filogovernativa, ha annuito e applaudito.

Ma sono i sindacati massimalisti in errore oppure è il ministro che racconta una storia falsa e tendenziosa? Diciamo che ci sono almeno quattro ragioni per contestare la richiesta di realismo del ministro, che risulta quindi una bufala al 400%.

La prima l’abbiamo già vista. Le entrate dello Stato sono aumentate in maniera considerevole e ben al di sopra del necessario per compensare i lavoratori della PA. Quindi i soldi ci sono e Zangrillo li può esigere, se ne è capace, dal suo collega al Mef.

La seconda è spesso dimenticata ma risulta essenziale. Ogni incremento stipendiale nel caso della PA è sempre un aumento lordo. Questo significa che poi il 50% delle somme riconosciute ritorna nelle casse dello Stato sotto forma di tasse e contributi. Quindi anche la quantificazione di Zangrillo è sbagliata, e anche malamente. La cifra reale va dimezzata e dunque l’esborso risulta molto minore.

La terza ragione, quella più politica, sta nel fatto che i soldi non ci sono perché già spesi altrove. Anche per il 2025 è prevista una riduzione dell’Irpef di circa 5 miliardi e fa l’ingresso trionfale anche il nuovo bonus Irpef di Meloni che ne vale più di dieci. Questi soldi sono stati in gran parte sottratti agli incrementi contrattuali di medici, insegnanti, poliziotti e coì via.

Rimane la quarta ragione più di carattere contabile. Al contrario di quanto afferma Zangrillo, che la cifra vale tutta la finanziaria, si poteva pensare a un percorso graduale di recupero del maltolto da qui a fine legislatura, e quindi più che sopportabile per le casse pubbliche. È quello che è successo nel decennio scorso. La grossa perdita salariale dovuta al blocco degli stipendi della PA decretato da Berlusconi nel 2011, poi dichiarato incostituzionale dalla Corte nel 2016, è stata recuperata dal governo Gentiloni. Il governo sovranista di Meloni non ha alcuna intenzione di fare altrettanto.

In definitiva, il realismo invocato dal ministro Zangrillo è solo una grande bugia politica, detta apertamente senza un minimo di vergogna. Menzogna ancor più grave perché il ministro non è un politico ma un manager industriale, quindi conosce bene le dinamiche contrattuali. Credo che non si sarebbe mai azzardato a fare una proposta del genere alle rappresentanze sindacali dell’Iveco o della Magneti Marelli, dove ha svolto parte della sua carriera.

Invece dietro lo scudo del potere politico, questo sì cinico realismo, tutto si può dire anche se risulta palesemente falso. Ma forse per fare il manager occorre proprio questa dote: eseguire passivamente, e a volte meschinamente, l’interesse datoriale, qualunque esso sia. Si sente la mancanza di autorevoli ministri della PA che non siano solo dei mediocri portaborse al servizio delle loro ambizioni personali e di quelle dei loro capi.

Quali lezioni politico-elettorali trarre da questo nuovo e indecente capitolo della Melonieconomics? Credo almeno due. La prima è che se un pubblico dipendente nelle prossime tornate elettorali pensa di votare a destra, questo significa che non è in grado di tutelare i suoi interessi economici. Non solo perde oggi 200 euro al mese, ma se calcoliamo le perdite future, compresa la quota pensione, il danno supera tranquillamente i 50.000 euro. Sarebbe quasi scandaloso regalare questi soldi al governo, a qualsiasi governo. Se poi il nostro pubblico dipendente non trova risposte alternative, la scelta migliore sarebbe disertare il voto rimanendo a casa.

La seconda è che il fronte progressista ha di fronte una nuova chance. Tra i punti principali del programma della competizione elettorale del 2027 ci dovrà essere il recupero del salario per i quasi 4 milioni di lavoratori pubblici, nonché elettori ed elettrici. Lo ha fatto a suo tempo Gentiloni, si può fare anche adesso. Anzi, ora è più urgente che mai.



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