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Il testo dell’audizione del prof. Azzariti alla I Commissione – Affari Costituzionali del Senato della Repubblica tenuta il 27 febbraio 2025 sui disegni di legge costituzionale nn. 1353 e 504 (Ordinamento giurisdizionale e Corte disciplinare).
1. Vorrei soffermarmi rapidamente su quattro punti che caratterizzano i disegni di legge costituzionali in esame. La questione della separazione delle carriere, quella dell’estrazione a sorte dei membri dei due Csm, le conseguenze dello sdoppiamento dei due organi di garanzia della magistratura e, infine, l’istituzione di un’Alta corte di giustizia.
2. Per quanto riguarda la separazione delle carriere, essa è certamente la questione più discussa e politicamente controversa, ma permettetemi di dire che, dal punto di vista costituzionale, appare la meno fondata.
Questo mio giudizio per quanto possa apparire eccentrico in riferimento al dibattito in corso, si fonda però su argomenti piuttosto evidenti se solo si presta attenzione e si prendono sul serio quanto è stato detto dalla Consulta e quanto è già stato scritto dal legislatore ordinario.
Da tempo è stato chiarito infatti che non c’è bisogno di cambiare la Costituzione per separare le carriere dei magistrati.
Ricordo le esplicite parole della sentenza n. 37 del 2000 della Corte costituzionale. La Costituzione «pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni».
D’altronde, la separazione è già nei fatti. Com’è noto, dopo una serie di riforme in tal senso, con la legge n. 71 del 2022, si è sancito per via di fatto, con legge ordinaria, il sostanziale divieto di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, permesso una sola volta nel corso della carriera, a condizioni stringenti e con l’obbligo di un cambiamento di sede. Attualmente – negli ultimi cinque anni, per la precisione – i passaggi da una funzione all’altra, secondo quanto ha indicato la prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, sono pari a 0,83 tra requirente e giudicante e 0,21 tra giudicante e requirente. Il fine della separazione delle carriere è già stato raggiunto in via di fatto.
Dunque, tanto rumore per nulla? Evidentemente no, evidentemente c’è dell’altro ma che non viene chiaramente espresso.
Secondo l’Associazione Nazionale Magistrati e molti altri commentatori, dietro questa formula – separazione delle carriere – si cela l’intento di porre la magistratura requirente alle dipendenze dell’esecutivo.
Alcuni fatti possono indurre a credere che questo sia l’obiettivo nascosto: a) da un lato la comparazione, che vede – fatto salvo il Portogallo – tutti Paesi europei che hanno scelto di separare le carriere dei magistrati anche l’assoggettamento dell’azione dei pubblici ministeri alle direttive dei governi; b) dall’altro le crescenti tensioni tra magistratura e politica che in Italia rendono molta parte della classe politica insofferente rispetto all’autonomia ed indipendenza dell’azione giurisdizionale.
C’è però un punto che per il diritto costituzionale rimane insormontabile: se non si modifica il secondo comma dell’articolo 101 e la prima parte del primo comma dell’articolo 104 l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine della magistratura sia requirente sia giudicante trova una sua copertura costituzionale certa.
Dunque, se si volesse ottenere il risultato indicato non mi sembra proprio sia il caso di proseguire sulla via intrapresa, che porterebbe, nel migliore dei casi, semplicemente ad accentuare lo scontro tra politica e costituzione, innescando un’infinita serie di conflitti tra i poteri e finendo per far distogliere lo sguardo dai reali problemi della giustizia, che questa stessa riforma costituzionale solleva.
3. Allo stato, infatti, le maggiori perplessità del testo governativo in esame (disegno di legge costituzionale n. 1353) più che inerenti alla finta separazione delle carriere riguardano altro.
A mio parere il punto più discutibile è quello legato alla previsione di una composizione casuale dei due Csm, sancita dalla tecnica del sorteggio. Senza filtri per quanto riguarda la componente togata, filtrata (ovvero preceduta dalla scelta parlamentare di candidature qualificate) per la componente laica.
La ragione di questa che a me pare la misura più radicale e controversa dell’intero progetto governativo è del tutto esplicita. È la volontà di contrastare il c.d. “correntismo”, ovvero l’associazionismo della magistratura nei suoi aspetti ritenuti più degenerati.
Non mi posso occupare in questa sede della questione in sé – l’associazionismo e le sue degenerazioni – mi devo limitare a valutare gli effetti di sistema.
Temo infatti che, assieme alle correnti, finiranno per essere travolti anche la natura rappresentativa dell’organo e la sua capacità funzionale.
3.1. Per quanto riguarda la natura rappresentativa non può negarsi infatti che l’estrazione a sorte sia incompatibile con il riconoscimento di diversità tra culture, sensibilità, orientamenti giurisdizionali. Un atteggiamento che contrasta con la realtà di fatto.
Non si può infatti negare che l’interpretazione della legge sia l’effetto di un – auspicabilmente rigoroso – processo ermeneutico rimesso al giudice. Da questo necessariamente ne consegue che all’interno della magistratura esiste un pluralismo nelle interpretazioni. In fondo lo dimostra l’attribuzione dalla funzione di nomofilachia alla Cassazione che serve proprio ad evitare che il “pluralismo” diventi “eclettismo” interpretativo.
Peraltro, non si può negare che vi sono giudici più attenti ad interpretazioni evolutive, magari costituzionalmente orientate, altri più attenti alle forme, magari maggiormente legati ai precedenti. Una diversità di approcci personali e culturali prima ancora che di politica del diritto. Tutto ciò non vale a smentire l’unitarietà della funzione, semmai dimostra la necessità di legittimare l’esistenza di tali diverse sensibilità all’interno della magistratura.
La domanda da porsi di fronte a questa realtà è allora la seguente: può lasciarsi al caso il pluralismo della magistratura o è necessario regolarlo? E se poi il caso volesse premiare le culture più eccentriche, se non quelle eretiche?
Meglio riconoscere e regolare, anziché negare e confidare sulla fortuna del caso.
Tutto ciò, sommato al secondo profilo che volevo richiamare, rischia di produrre un corto circuito.
3.2. Assieme alla rappresentatività, infatti, è anche la capacità funzionale dell’organo che verrebbe compromessa dal metodo del sorteggio.
Anche in questo caso partirei da una considerazione di fatto. Dal punto di vista delle funzioni è abbastanza evidente che non tutti i magistrati hanno le stesse competenze, ed alcuni – come in tutti gli ambiti e professioni – non sono – non saranno – in grado di assolvere adeguatamente i delicati compiti affidati al CSM dalla Costituzione (dall’art. 105). Inoltre, non credo possa neppure negarsi che una composizione casuale dell’organo, non può che tradursi in una riduzione dell’autorevolezza del/dei CSM.
Sorge spontanea allora la domanda: è possibile che si debba lasciare alla sorte la selezione per funzioni tanto delicate? Francamente stupisce che l’attuale maggioranza sia approdata alla filosofia dell’uno vale uno, anzi dell’uno vale l’altro. Perdonatemi la battuta.
Più seriamente e in ultima analisi, io credo ci sia effettivamente da chiedersi se la lotta al correntismo debba veramente utilizzare quest’arma distruttiva del merito e delle competenze?
Almeno nel caso che assiste la scelta dei membri laici, la predisposizione di un elenco di figure qualificate e preselezionate dovrebbe servire ad evitare la presenza di membri inadeguati al ruolo. Certo, con un po’ di malizia, potrebbe anche osservarsi che in tal modo avremmo laici qualificati e togati inadeguati. È questo forse l’obiettivo perseguito? Togati “agnelli” in bocca ai “lupi” laici?
3.3. Un ultimo aspetto credo meriti di essere valutato, perché foriero della classica eterogenesi dei fini. Si vogliono combattere le correnti, ma si presta poca attenzione al fatto che i magistrati estratti a sorte non si sentiranno – non saranno in via di fatto – rappresentativi dell’intero ordine della magistratura, giudicante o requirente che sia.
Si sarà pure così ottenuto il risultato di spezzare il collegamento con l’associazionismo e gli equilibri che reggono attualmente i rapporti tra magistrati, ma non per questo si potrà confidare nel venir meno degli interessi personali – anche i meno commendevoli – che però saranno definiti in modo del tutto personale, meglio dire del tutto “casuale”. Dal correntismo all’amichettismo, si potrebbe icasticamente commentare. Cadendo così dalla padella nella brace.
4. Poche parole sull’enorme problema dei due distinti organi di autogoverno. La questione più dibattuta è quella della compatibilità di questo sdoppiamento con l’esigenza di conservare una cultura comune della giurisdizione. Spesso è questa una questione trattata sulla base di pregiudizi che dovrebbero venir meno.
Non penso infatti che coloro che si propongono di separare le carriere, tramite una distinzione degli organi c.d. di “autogoverno”, aspirino anche a dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo, avvocati compresi.
Penso proprio che nessuno punti ad avere pubblici ministeri posti al di sopra della legge, poco rispettosi dei limiti del loro potere.
Non potendo approfondire la questione che è assai delicata, mi limito allora qui a segnalare un pericolo che potrebbe essere la conseguenza non ricercata della separazione dei due consigli. Siamo sicuri che in tal modo non stiamo favorendo la corporativizzazione dei diversi tipi di magistrati? Ciascuno con il proprio consiglio che assicura autonomia e indipendenza, non più all’ordine, bensì alla funzione esercitata.
Se volessimo conservare un luogo che (auto)governi le diverse giurisdizioni, preservando la cultura della giurisdizione, dovremmo forse procedere in direzione opposta: riunificando i tanti “Consigli” e fornendo una copertura costituzionale anche a quelli che sino ad ora non l’hanno.
Mi riferisco ai vari organi di autogoverno delle magistrature contabile, amministrativa, tributaria, militare. Un unico organo, diviso in sezioni, presieduto dal Capo dello Stato, per garantire l’autonomia e l’indipendenza di tutti gli ordini della magistratura – anche quelle speciali – rappresenterebbe una vera novità e permetterebbe un confronto delle varie culture, tra le diverse carriere, delle nostre magistrature in nome della giustizia. Una divisione funzionale e organizzativa nel rispetto della più generale garanzia di autonomia ed indipendenza di tutte le magistrature.
In ogni caso, quel che mi sento di dire, abbandonando queste suggestioni futuriste, è che se si dovesse scegliere la via della separazione degli organi di autogoverno, si dovrebbe contestualmente pensare almeno a rivitalizzare i luoghi di incontro e formazione comuni dei magistrati, ma anche – perché no – dell’avvocatura e dell’università. Sarebbe da prendere in seria considerazione, ad esempio, una riforma per assegnare una nuova centralità alla Scuola Superiore della Magistratura.
5. Un’ultima battuta in riferimento all’istituzione dell’Alta corte di giustizia.
Oltre alle considerazioni relative all’estrazione a sorte dei suoi componenti, che in parte ho già svolto, sebbene in questo caso l’estrazione è temperata e non viene generalizzata, la mia riflessione finale riguarda un aspetto specifico.
Perché adottare un meccanismo anomalo come “l’appello a sé stesso” (alla stessa Alta corte in diversa composizione)? Introducendo così un grado di autoreferenzialità che tende a favorire la corporativizzazione dell’ordine.
Perché non stabilire invece la più lineare possibilità che l’appello debba rientrare tra le competenze assegnate alla Cassazione.
Sarebbe questo, peraltro, un sistema che permetterebbe di assicurare una maggiore coerenza e uniformità nei criteri della giurisprudenza disciplinare dei magistrati e dei dipendenti pubblici più in generale.
Magari si potrebbe anche estendere la possibilità di ricorso in Cassazione per tutti i provvedimenti disciplinari di tutte le giurisdizioni, comprese quelle contabile, amministrativa, tributaria e militare. Garantendo una uniformità di valutazioni che attualmente non c’è.
* Professore ordinario di diritto costituzionale, Università La Sapienza di Roma
Fonte: Questione Giustizia
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