La Serbia in rivolta. Tra gli studenti che lottano contro un sistema basato sul malaffare

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Seduta in un bar tra i palazzi post-sovietici di Novi Beograd, M. sorseggia una limunada e va dritta al punto: “Vogliamo che il sistema che ha retto questo Paese per anni cambi”.

Studentessa della facoltà di Arti drammatiche, la sua università è stata la prima a sospendere le lezioni dopo il crollo della pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, avvenuta il primo novembre scorso, causando15 morti. Le notizie sulle irregolarità dei lavori di restauro -affidati dal governo senza appalto a una ditta cinese- sono emerse subito dopo la tragedia e hanno dato avvio alla più grande mobilitazione dai tempi della caduta di Slobodan Milošević, già costata le dimissioni del primo ministro, Miloš Vučević, e del sindaco di Novi Sad.

Oggi in Serbia circa 60 università sono occupate. Da oltre tre mesi, gli studenti vivono barricati, discutono nei plenum -assemblee collettive a cui agli adulti è vietato l’ingresso e dove ogni decisione è votata a maggioranza- e si organizzano in gruppi di lavoro. “Nelle università ci comportiamo come se fossimo già lo Stato che vorremmo”, dice P., 22 anni, studentessa di un’università privata a Belgrado.

Il loro movimento non ha nome né leader, solo un simbolo: una mano rossa come il sangue. A rafforzare la mobilitazione sono stati una comunicazione efficace -con pagine social da oltre 200.000 follower- e lunghe marce con cui gli studenti hanno attraversato il Paese, villaggio dopo villaggio, coinvolgendo agricoltori, avvocati, tassisti, lavoratori dello spettacolo, giornalisti e migliaia di cittadini comuni. “Questa non è solo una protesta della classe media -spiega Adriana Zaharijević filosofa dell’Istituto di Filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado- è molto di più”.

Alcuni parlano di un nuovo ’68, certo è che gli studenti sembrano aver spezzato la paura che per dodici anni ha tenuto in piedi il regime di Aleksandar Vučić. E quando la paura cade, il sistema trema.

La crisi scatenata dalla tragedia di Novi Sad ha infatti radici profonde, che vanno fino alle acque della Sava e spiegano perché, oggi, il crollo di una tettoia stia portando un intero Paese nelle piazze.

Il 10 febbraio, sul ponte Gazele occupato dai manifestanti in una delle molteplici blokade di questi quattro mesi, gli studenti avanzano srotolando uno striscione: “Da questa parte del fiume, la città è nostra”. Dall’altra sorge Belgrado sull’acqua, il progetto faraonico del governo serbo, finanziato dalla Eagle Hills, azienda costruttrice degli Emirati Arabi Uniti, e realizzato senza gara d’appalto. Un complesso di lusso che prevede la costruzione di 10.000 appartamenti, più di 300 negozi e decine di caffè e ristoranti, in un Paese dove il salario minimo netto è di 350 euro e quello medio di 600.

Per costruirlo, nel 2016, parte del quartiere storico di Savamala, elogiato anche dal Guardian per la sua vita culturale alternativa, è stato demolito in una sola notte dai bulldozer di uomini incappucciati. “Nada, hanno demolito tutto”, si è sentita dire al telefono alle quattro di notte la proprietaria di Savski Ekspres, una storica kafana serba del quartiere. Come lei, molti altri. Indagini superficiali, nessun colpevole. Oggi tra i grattacieli in stile Dubai restano ancora gli enormi cumuli di macerie di un pezzo di città cancellato per far posto agli interessi privati.

Una vista dell’impatto del “Waterfront” di Belgrado © Elettra Pierantoni

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Una vista dell’impatto del “Waterfront” di Belgrado © Elettra Pierantoni

Insieme alla pensilina di Novi Sad, Belgrado sull’acqua è oggi l’immagine simbolo della “cattura” dello Stato da parte di Aleksandar Vučić: violenza, clientelismo e grandi opere pubbliche, assegnate a compagnie straniere senza concorso, disprezzando ogni vincolo ambientale e i cittadini che, come dimostra Novi Sad, per questa corruzione ora muoiono. 

A differenza di tutte le altre proteste che hanno caratterizzato la storia della Serbia, quella di questi mesi colpisce, oltre che per il metodo, per l’assenza di riferimenti politici. Nelle piazze degli studenti non compaiono simboli di partiti, né riferimenti a temi nazionali divisivi come il Kosovo. A differenza di quanto accaduto in Georgia, in Serbia sventola solo una bandiera, quella serba, insieme alle mani “sporche di sangue” dei suoi leader attuali.

Le richieste degli studenti sembrano minime -la più importante, pubblicare la documentazione sul restauro della stazione di Novi Sad e arrestare i responsabili- ma il loro impatto sarebbe rivoluzionario: se il governo cedesse, l’intero sistema crollerebbe, svelando la piramide di malaffare che regge l’amministrazione e sovvertendo l’approccio che il governo ha operato per anni.

“Per 30 anni in Serbia le proteste sono state ‘politicheʼ, ma oggi non si tratta di essere pro o contro l’Unione europea, Mosca o l’indipendenza del Kosovo – spiega Adriana Zaharijević-. Oggi la questione è un’altra: riguarda un principio di giustizia e di responsabilità individuale.”

Se chiedi agli studenti se vogliono le dimissioni di Vučić, la risposta è chiara: “Non pensiamo che la soluzione siano le elezioni o l’arrivo di un altro partito”, dice M. “La corruzione è un problema che riguarda tutto il sistema e per superarlo ognuno deve fare la sua parte”.

Se alla base del rifiuto di dare una direzione politica alla protesta c’è una frattura storica tra politica e cittadinanza, emerge anche una strategia chiara. Gli studenti evitano divisioni nella piazza, mantenendo il focus sulle richieste e sulla costruzione di nuovi valori, in contrasto con quelli su cui il sistema si è retto per anni. Allo stesso tempo, depotenziano Vučić, impedendo che la protesta venga ridotta a una battaglia ideologica o cooptata dal governo o dall’opposizione, prima che tutte le loro richieste vengano soddisfatte. Tuttavia, l’incognita del dopo resta.

Nel suo libro “Blueprint for revolution”, Srđa Popovic, uno dei leader del movimento Otpor (Resistenza) che contribuì alla caduta del regime di Milošević, descriveva quell’esperienza come una rivoluzione nonviolenta portata avanti da cittadini “normali”. Le piazze di oggi evocano molto quel periodo, anche se, come scrive Ivo Kara-Pešić su Peščanik, quella generazione commise l’errore di pensare che fosse l’opposizione a risolvere la crisi delle istituzioni.

Il problema che molti si pongono ora è come trasformare allora le attuali proteste in un’opportunità politica. Gli studenti stanno “liberando” la società dalla cattura ma la domanda è: come e quando si potrà tradurre questa rivoluzione civile in un’effettiva “liberazione” dello Stato?

Secondo l’agenzia Crta, oggi l’80% dei cittadini serbi sostiene le richieste degli studenti e un terzo del Paese ha preso parte attivamente alle mobilitazioni. Eppure, secondo Faktor Plus, se domani si andasse alle elezioni, poco sarebbe ancora cambiato nell’equilibrio di potere tra i partiti al governo e all’opposizione da quando sono iniziate le proteste.

“Il mito del Presidente rischia di essere sostituito da quello degli studenti, come se fossero la soluzione magica ai problemi della Serbia”, dice il regista serbo, Stevan Filipović, che, nel suo ultimo film, “Pored nas”, ha fatto esplodere il grattacielo simbolo di Belgrado sull’acqua, attirandosi la macchina del fango governativa e gli applausi scroscianti delle università. “È invece compito di tutti noi cambiare questo Paese, gli adulti sono rimasti in silenzio per troppo tempo, ora devono avere il coraggio di far parte di questo processo.”

Il 4 marzo di quest’anno esponenti dell’opposizione hanno lanciato fumogeni in Parlamento per impedire l’approvazione di alcune leggi presentate all’ultimo minuto dal governo ormai dimissionario. Intanto, nell’élite intellettuale del Paese c’è chi propone un governo tecnico di transizione che, solo dopo aver ristabilito la legalità nelle istituzioni, possa gestire il passaggio alle elezioni. Probabilmente la risposta a questa crisi dovrà essere più creativa ma è chiaro che il futuro aperto dagli studenti non può più essere solo una loro responsabilità.

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