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Per curarla si lascia spazio ai privati, molto meno al diritto alla salute.
«La sanità pubblica morirà, la stanno uccidendo». È questo uno degli slogan che i lavoratori e le lavoratrici della sanità hanno scandito negli scioperi di inizio 2024: nel mirino, i tagli alla sanità pubblica previsti dall’ultima legge di bilancio. Sono 3 i miliardi stanziati dal Governo per il Fabbisogno sanitario nazionale (FSN). Fabbisogno sanitario nazionale, non spesa sanitaria. Cosa significa? Significa che rappresentano solo indicazioni di spesa per le Regioni nell’ambito del finanziamento assegnato, ma non costituiscono risorse aggiuntive. Non solo: 2,4 miliardi (l’80% del totale) dovrebbero essere destinati ai rinnovi contrattuali 2022-2024 del personale dipendente e convenzionato, lasciando ben poche risorse per le altre priorità. Priorità che vanno dall’abbattimento delle liste d’attesa al rinnovo dei Livelli essenziali d’assistenza; dal potenziamento dell’assistenza territoriale per nuove assunzioni di personale sanitario alla rideterminazione dei tetti della spesa farmaceutica.
È questo il contesto che ha caratterizzato il 45esimo compleanno del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nato il 23 dicembre 1978. Era la legge 833 e il SSN veniva istituito in attuazione dell’art. 32 della Costituzione, che recita così: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. «Il nostro – ha spiegato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE – era un modello di sanità pubblica ispirato da principi di equità e universalismo. Principi ampiamente traditi. Perché la vita quotidiana delle persone, in particolare quelle meno abbienti, è sempre più condizionata dalla mancata esigibilità di un diritto fondamentale, quello alla salute».
Zona retrocessione
I numeri, come si suol dire, parlano chiaro: secondo “Health at a Glance”, la pubblicazione di Ocse che ogni anno raccoglie statistiche economiche e medico sanitarie dei Paesi aderenti, tra 2022 e 2023 la riduzione dell’aspettativa di vita, in Italia (oggi è di 82,7 anni), ci ha fatto scivolare dal terzo al nono posto. Sono sempre di più i decessi causati dall’inquinamento e, quanto a spesa sanitaria, siamo in piena ‘zona retrocessione’, con una spesa pro capite a parità di potere d’acquisto di 4.291 dollari, un po’ meno dei 4.986 della media di tutti i Paesi occidentali, ma anche la metà degli 8 mila dei tedeschi e un terzo in meno dei francesi.
Mentre affonda il SSN, c’è chi invece naviga a gonfie vele. Sono i Fondi sanitari integrativi che, da definizione, a fronte di una quota d’iscrizione e di un versamento fisso, dovrebbero erogare prestazioni non coperte dal SSN. L’odontoiatria, per esempio, o le protesi acustiche. Oggi in Italia ce ne sono oltre 300, per un totale di 15 milioni di iscritti. Ma qual è la genesi di questi fondi? Di fatto, la legge 833 faceva riferimento alla possibilità, per il cittadino, di integrare le prestazioni pubbliche non solo attraverso il ricorso al mercato sanitario, ma anche mediante la partecipazione alla mutualità volontaria. Nel 1992 venne aumentato il loro raggio d’azione e da un’assistenza integrativa si passò a un’assistenza sostitutiva: oggi per il 20% devono coprire prestazioni integrative, per il restante 80%possono fare ciò che vogliono.
I fondi integrativi
Buona parte dei 15 milioni di cittadini che hanno sotto scritto un Fondo sanitario integrativo appartengono a grandi categorie di lavoratori: metalmeccanici, giornalisti, alcune categorie di commercianti, solo per fare qualche esempio. Sempre più spesso, poi, sono le aziende che includono nel contratto nazionale l’iscrizione a un particolare fondo: l’adesione, a quel punto, da volontaria diventa obbligatoria. Cosa significa questo? Che i cittadini pagano due volte: per il SSN e per il Fondo. A questo quadro desolante si aggiunge un ulteriore tassello, ben approfondito da una recente puntata della trasmissione Report: se i piani integrativi sanitari, sempre più diffusi, dipendono dal contratto di lavoro, significa anche che più i contratti sono forti e gli stipendi alti, più è ricco l’elenco delle prestazioni erogabili. Insomma, un dirigente potrà curarsi meglio di un operaio. Ma non è tutto: sempre più spesso i fondi sono gestiti da realtà assicurative, tendenzialmente per una questione di coperture finanziarie. Come ha ben sintetizzato Rosy Bindi nel servizio di Report che, ai tempi del suo mandato come ministra della Salute dal 1996 al 2000 (governo Prodi), provò a mettere un freno a questa deriva privatistica, il gap è tutto qui: «Il SSN ha tutto l’interesse che i cittadini stiano bene; le assicurazioni che i cittadini siano malati. È un sistema che può reggere?». La risposta è tanto ovvia quanto angosciante: ogni anno nel nostro Paese spendiamo 164 miliardi per curarci, di cui 40 nella sanità privata e 4,5 nei Fondi sanitari integrativi. Ecco quanto è ampio il loro – preoccupante– margine di crescita.
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