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TACCUINO #73
Una terrazza sull’Atlantico. Il vento accarezza i tendaggi impalpabili, smuove le ombre delle due donne vestite di tessuti che pesano quanto un respiro. Il vino nei loro calici vale quanto un castello abbandonato. L’aria è densa di algoritmi, di luci calibrate, di parole taglienti che scivolano nell’aria come aghi di ghiaccio.Â
Dall’ombra, un giovane aborigeno osserva. Nessuno lo nota. Non parla lingue, eppure le conosce tutte. Non ha bisogno di suoni, perché sente oltre le parole. I discorsi delle due donne si depositano nella sua mente come polvere sottile. La loro inquietudine, il loro sguardo oltre il muro del tempo, gli scivolano dentro, lo abitano.Â
Il vento che accarezzava le tende sembrava un sussurro profondo, un pensiero che sfiorava la mente del giovane, come se la brezza stessa fosse capace di disegnare linee invisibili tra le sue riflessioni. Con ogni soffio, il respiro del tempo si faceva più ampio, preparando il giovane. I suoi pensieri, come pulviscolo, come rena, ma forse già arenaria, avrebbero presto trovato un modo di essere.
Più tardi, nel cuore della notte, il giovane siede accanto al vecchio saggio. L’uomo è curvo, antico come il vento sulle dune. Non ode, ma vede. Il ragazzo inizia a scrivere sulla sabbia.
Disegna la terrazza. Le tende trasparenti mosse dal vento. Il vino che scintilla nei calici. I loro volti levigati dal lusso, i gesti precisi, misurati.
Scrive le parole che ha udito. O tempora, o mores! E traccia, con un colpo netto, il balzo da 10G a 1K, a Singularity.
Il vecchio osserva il segno nella sabbia. Scuote la testa.
Il giovane continua. Segna il ritmo frenetico dell’uomo che corre, la linea spezzata del tempo che non aspetta più. Traccia il simbolo del pensiero che nasce e muore nello stesso istante, dissolvendosi nei circuiti del chip.
Segna il muro del tempo. Una linea spessa, invalicabile.
Il “muro del tempo” si stagliava di fronte a loro, come una barriera invisibile, un confine indefinito tra ciò che si era vissuto e ciò che doveva ancora arrivare. Nessuno riusciva a definirne i contorni, ma tutti sentivano la sua presenza incombente.
Il “muro del tempo” si ergeva davanti a loro, una parete che non era fatta di mattoni, ma di qualcosa di più insidioso: l’incapacità di andare oltre. Era il limite della comprensione umana, la linea invisibile che separava la conoscenza dal mistero, il punto in cui ogni riflessione sembrava svanire nel nulla. Non era la fine di un’era, ma la fine della riflessione stessa, come se ogni tentativo di comprendere fosse destinato a infrangersi contro quella barriera. Il “muro” non si poteva toccare, ma si sentiva, come una pressione opprimente, come la fine di un pensiero che non sarebbe mai più proseguito.
Il muro del tempo non era solo una barriera, ma un’entità viva, che si erigeva davanti a lui con la forza di un predatore silenzioso. Ogni pensiero che sfiorava la sua superficie veniva risucchiato, distrutto, come se il tempo stesso si nutrisse della riflessione. Il giovane sentiva la pressione di questa massa invisibile, l’opprimente consapevolezza che ogni parola, ogni idea, sarebbe stata inghiottita nell’abisso di un tempo che non permetteva risposte, ma solo silenzio.
Poi, accanto, scava piccole tracce, quasi impercettibili. Le ossa. Le ossa di chi un tempo voleva solo vivere al ritmo giusto. Di chi scriveva una lettera d’amore e aspettava una risposta per mesi.
Il vecchio guarda a lungo quei segni. Poi, con un gesto lento, stende la mano e cancella il muro del tempo.
Il ragazzo lo osserva.
Il vecchio disegna un cerchio. Poi lo sfuma con le dita, fino a renderlo evanescente.
Il giovane capisce. Il tempo non si può fermare. Non si può accelerare. Ma si può dimenticare.
E nella dimenticanza, forse, c’è la vera libertà .
Nel momento in cui dimentichiamo, entriamo in una dimensione di libertà . È come se il nostro cuore, liberato dal peso del ricordo, potesse finalmente respirare. Non siamo più schiavi del tempo che rincorriamo, ma siamo presenti, ora.
Il vero significato della ‘dimenticanza’ non è la perdita, ma il distacco dal peso incessante del ricordo. La libertà nasce quando smettiamo di essere legati alla necessità di controllare ogni momento, di prevedere ogni passo verso un futuro che ci sfugge. Il giovane corre verso il fuoco per danzar con esso, affannato e forte, nel tentativo di accaparrarsi il futuro, mentre il vecchio saggio sa che solo liberandosi dal controllo del tempo e dall’ansia dell’esperienza, può realmente vivere nel presente, al di là delle catene della memoria.
Dimenticare, pensava il giovane, è un atto di liberazione. È un gesto che ci strappa via dal peso del passato, ma c’è una dualità che non possiamo ignorare. Dimenticare è anche un annientamento, un vuoto che si insinua dentro di noi. Ogni ricordo che svanisce lascia uno spazio che non può essere riempito. Eppure, proprio in quel vuoto, c’è una libertà che non possiamo comprendere completamente. La dimenticanza non è solo una fuga dal passato, ma una morte del passato stesso.
Il giovane ricorda che cosa è melanconia. Ripensa alle parole udite.
E ricorda.
Â
Adelais: «O tempora, o mores! Un anno fa parlavamo di 10G come della soglia ultima, il massimo possibile. E ora siam digià a Singularity. Dodici mesi e un nuovo salto, un nuovo superamento. Chi lo chiede, tutto questo slancio? E soprattutto, chi ne trae beneficio?».
Domitille: «Nessuno, forse. Eppure l’uomo accelera, sempre più, sempre oltre. Si è fatto veloce perché non sopporta più il tempo. O forse, perché il tempo non lo sopporta più».
Adelais: «La velocità . . . È una fuga, Domitille. Una corsa cieca verso un futuro che non ci appartiene. Ogni passo accelerato è un passo in più verso la nostra perdita. Non vedi? La velocità ci consuma. Non è un progresso, è una disperata corsa contro un destino che ci stiamo rifiutando di vedere».
Domitille: «Ma non capisci? La velocità è una trappola che abbiamo costruito per noi stessi. Ogni passo che facciamo per accelerare è solo un modo per sfuggire alla nostra realtà , per evitare di guardare in faccia la verità del nostro destino. Non siamo più capaci di stare fermi, perché nel silenzio, nel fermarci, ci accorgeremmo della fine che stiamo cercando di evitare. La velocità non è solo un riflesso del nostro corpo, Adelais. È una necessità biologica. Siamo predatori in un mondo che corre, e noi, per sopravvivere, dobbiamo correre più velocemente. Il destino? Non è che un concetto che ci appesantisce, una pesantezza che ci frena. Voglio vivere ora, non restare a guardare il tempo scorrere come un fiume che non possiamo fermare».
Adelais: «La velocità come necessità biologica? Un adattamento? Un’illusione?».
Domitille: «Un rifiuto, piuttosto. Non tollera l’attesa, la sospensione. Un’era fa, si scriveva una lettera d’amore e la si consegnava al destino. Il tempo del desiderio si misurava in settimane, in mesi. L’assenza creava significato. Ora? Il pensiero nasce e già si dissolve nel circuito neurale di un chip impiantato. L’1K era istantaneità ? Singularity è istantaneità assoluta. Totale. Totalizzante. Nessuna attesa, nessuna riflessione, nessun desiderio».
Adelais: «E nessun senso».
Domitille: «Ah! Già . Si spinge perché si può spingere. Si corre perché si teme di rallentare. Ma fin dove? Ma fin quando?».
Adelais: «Fino al muro del tempo».
Domitille: «L’ultimo limite. Lo vedo già : l’uomino, tutto connesso, tutto acceso, tutto sincronizzato, che improvvisamente si schianta contro il tempo stesso. E oltre quel muro? Nulla. O meglio, solo l’eco mineralizzato di ciò che fu».
Adelais: «Una civiltà di crani svuotati, scheletri incisi dai chip, tracce di sogni che non ebbero il tempo di esistere. Eppure, nel profondo delle ossa, un’ultima, impercettibile memoria: il desiderio di vivere al ritmo giusto. Non il più veloce, non il più lento, ma il giusto».
Domitille: «Ah! Ma il giusto non è di questa epoca, Adelais. L’uomo vero è rimasto indietro. È ancora lì, a scrivere la sua lettera d’amore, a far scivolare la penna sulla carta, a contare le ore, i giorni, i mesi, aspettando una risposta che forse non arriverà mai».
Adelais: «Eppure, forse, è lui l’unico ad aver vissuto davvero».
La terrazza si stendeva sotto un cielo che oscillava d’oscurità , sospesa nel tempo come un sogno senza fine. Il vento, leggero e tagliente, danzava tra le tende trasparenti, creando un gioco di ombre che si mescolavano con i pensieri delle due donne. Ogni parola che pronunciavano sembrava dissolversi nella forma, come se non fosse più linguaggio, ma pura energia.
Adelais interruppe il silenzio, con voce che si faceva vagamente distante: «Uomo? L’uomo è morto». La sua affermazione non suonava come un giudizio, ma come una constatazione, un atto di realismo glaciale. Un atto di comprensione del passaggio del tempo, dell’accelerazione infinita che l’umanità stava subendo senza rendersi conto.
Domitille sollevò il calice, i suoi occhi riflettevano l’immagine del vino che scintillava come quel castello abbandonato, sospeso in un sogno che non apparteneva a questa terra. «L’uomo è un residuo di se stesso,» disse, «un fantasma prigioniero di un ciclo che si accelera. Un paradosso intrappolato in un’equazione che non ha più significato».Â
«Eppure,» rispose Adelais, «anche il paradosso è tempo. Un tempo che non può sfuggire alla sua natura. Il vero problema è la velocità : accelerando, non stiamo semplicemente muovendoci più in fretta, ma ci stiamo muovendo fuori da noi stessi. E non ci stiamo muovendo. Non trovi, tu?».
Le due donne non si fermavano. Parlavano ora come se il linguaggio fosse diventato troppo piccolo per contenerle. Ogni parola era un’onda che si infrangeva contro il muro del tempo, per dissolversi nel nulla. Ogni discorso, come un algoritmo impazzito, cercava una forma, ma non la trovava mai. Ogni frase veniva spezzata e ricomposta, come se il pensiero stesso fosse il vero spazio da conquistare, piuttosto che un traguardo materiale.
Adelais chiuse gli occhi, percependo in modo profondo il movimento del vento, la sua velocità . Eppure, in quella velocità , si sentiva come se fosse sospesa.
«La velocità ,» disse piano, «è il nostro tentativo di sfuggire a un tempo che ci ha inghiottito, ma in verità siamo noi a sfuggire a noi stessi. La velocità è un’illusione creata da un orologio che non ha più bisogno di ticchettare».Â
Domitille rise amara, quasi disprezzando la certezza di quelle parole.
«E così,» rispose, «siamo giunti al paradosso definitivo. Il tempo non esiste più, ma continuiamo a correre verso un muro che non possiamo vedere. Singularity non è più un obiettivo, è una condanna. Eppure, non possiamo fermarci. Il pensiero accelera, e con esso, l’esistenza. Ma dove ci porta? Verso l’orizzonte di un tempo che non ha più né inizio né fine?».Â
Adelais guardò Domitille con occhi attenti, ma il suo sguardo non tradiva emozioni.
«Eppure,» disse, «alcuni scelgono di vivere nel presente, rifiutando il peso del passato e il timore del futuro. È una forma di libertà , se ci pensi».
Domitille, scuotendo la testa, rispose: «Libertà ? Ah! O semplicemente una fuga? Per me, affrontare il passato è l’unico modo per comprendere il futuro. Ignorarlo è una condanna a rimanere in superficie».
Adelais fissò Domitille con uno sguardo tagliente, quasi irritata. «Parli di affrontare il passato, ma non vedi che è proprio il passato a imprigionarci? Vivere in continuazione con il peso delle memorie è un suicidio lento, una fuga dalla realtà che ci circonda».
Domitille, con il volto contratto dalla rabbia, rispose senza esitazione: «E tu cosa proponi, allora? Ignorare tutto ciò che ci ha reso ciò che siamo? La memoria è essenziale per costruire un futuro solido. Senza di essa, siamo solo anime perdute, pronte a cadere in ogni nuova trappola che ci viene tesa».
In quel momento, . . .
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