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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 11.03.2025 – Vik van Brantegem] – Proseguiamo con il racconto del 65° viaggio di solidarietà e speranza in Kenya, che ha come motto una citazione di Papa San Giovanni XXIII: Non consultarti con le tue paure, ma con le tue speranze e i tuoi sogni, di Mons. Luigi (Don Gigi) Ginami, Presidente delle Onlus Associazione Amici di Santina Zucchinelli e Fondazione Santina. Nel suo terzo report Don Gigi racconta alcuni Dioincidenze non mancano sul cammino suo e della Fondazione, eventi in cui con immenso stupore avverta la presenza di Dio nella sua vita e nella vita dei poveri: una presenza imprevista, che stupisce e che lascia senza respiro, viene solo da arrossire e piangere.
Report 65/4. Giovanna
Si chiama Janet, ma la chiameremo Giovanna, per non confonderla con la nostra Janet morta a Garissa dieci anni fa, il 2 aprile 2015, e di cui abbiamo scritto il libro Janet #VoltiDiSperanza N. 6 [QUI]. Janet/Giovanna è il nostro nuovo #VoltoDiSperanza N. 51. È la mamma di Elisha, che incontriamo all’orfanotrofio. Il dolcissimo bimbo ha 8 anni, è nato il 1° luglio 2016, e viene da Gahaleni. È arrivato all’orfanotrofio nell’aprile 2021 con due fratellini, Ibrahim che ha 12 anni e Briton che ha 10 anni. I fratelli in tutto sono sette. Le due figlie più grandi di Janet si chiamano Zawadi, che ha 20 anni, e Saumu, che ha 19 anni. Le due ragazze sono sposate e non abitano con Giovanna. Dunque, facendo i conti: tre bambini sono in orfanotrofio, le due ragazze sposate sono fuori casa, rimangono due bambini: Dorkas che ha 6 anni ed Elia che ha 5 anni.
Chiedo a Joyce, la Direttrice dell’Orfanotrofio perché i tre bambini abitino lì e non con la madre. Mi risponde e mi sfida: “Gigi ti potrei raccontare delle loro misere condizioni di vita come faccio con tutti, ma tu sei una persona speciale, cosa ne pensi se ti invio con Ibrahim al luogo dove vivono in modo che ti rendi conto di persona?” La sfida mi piace: “Proposta più concreta e bella di questa non mi potevi fare! Andiamo pure”.
E così con Jimmy ed Ibrahim di dodici anni partiamo per Gahaleni. La strada non è bella e meno male che la cicatrice dell’ernia, che avevo a settembre scorso, si è ben asciugata. Balzi, polvere, sole, rami da evitare: una gimcana pazzesca per 40 minuti. Finalmente arriviamo dove Janet vive con Dorkas e Elia, e la nonna Jumagnule.
La nonna ci accoglie fuori da una miserissima capanna e dopo alcuni minuti arriva Janet. Sta tornando dalla chiesa evangelica perché è domenica. Tiene dolcemente per mano i suoi due piccoli. Veste un lungo abito azzurro proprio della celebrazione domenicale. Jimmy la saluta con amabilità e la giovane donna ci offre un bellissimo sorriso. Janet ha 34 anni, è nata il 1° luglio 1991.
Ci sediamo sotto un grande albero e dopo alcuni convenevoli dico: “Janet mi manda Joyce, ho chiesto a lei perché addirittura tre dei tuoi bambini sono in orfanotrofio”. “Don Gigi, io amo moltissimo i miei bambini e tutti allo stesso modo, sono sette ma per me i miei figli sono tutti uguali anche Zawadi e Saumu, che hanno lasciato la casa ed hanno fatto famiglia e non so più dove sono. Per me tutti sette sono uguali. Una volta al mese vado a trovare loro tre all’orfanotrofio e al posto di portare loro qualche cosa, talvolta l’orfanotrofio mi offre cibo per Dorkas e Elia. La mia storia è molto triste, ma è anche di riscatto. Te la posso raccontare, hai tempo?”
Rispondo: “Sono venuto proprio per questo, grazie. La tua storia farà molto bene in Italia”. La donna è tentata di cambiarsi l’abito, ma forse per rispetto alla nostra visita si siede con il vestito della festa ai piedi del grande albero. Lontano, Ibrahim, Dorkas ed Elia si mettono a giocare. Jimmy è pronto, perché come sempre il discorso è in swahili e quindi il duro percorso nella mia testa è: ascolto il swahili, poi Jimmy me la traduce in inglese e finalmente le parole atterrano sui miei fogli in un italiano incomprensibile, ma per me chiarissimo, quando sto rivedendo i fogli come faccio ora.
Janet mi guarda fissa negli occhi e mi dice: “Tutto ha inizio con la morte di mio marito Kahindi, nel 2020. Con la morte del mio sposo, la sua famiglia mi butta fuori dalla casa che mio marito mi aveva lasciato e se la riprendono loro. Kahindi era un povero pastore, che talvolta pascolava capre, altre volte mucche. Non sapevo dove andare ed allora sono ritornato da mia madre Jumagnule. E sai dove vivevamo io, lei e i miei bambini? Sotto l’albero che vedi là in fondo”.
Non posso credere, mi alzo in piedi ed andiamo a vedere. Mi vengono i brividi pur nel gran caldo, quando Janet mi indica gli esatti posti dove dormivano su di una stuoia. “Janet, ma come era possibile?” Continua la nonna con la perfetta traduzione di Jimmy: “Pensa padre, io lavoro in questo campo da tanti anni e prima dell’arrivo di Janet avevo costruito una casa sul terreno che accudisco, ma il padrone è venuto ed a bastonate ha distrutto la casa”. La donna anziana piange. Sembra tanto vecchia, ma poi mi rivela che ha solo 60 anni.
Torniamo a sederci sotto l’albero e qui la nostra chiacchierata si fa interessantissima e di grande valore spirituale, quasi quaresimale in logica con il tempo che stiamo vivendo proprio in questi giorni. “Padre, ti devo dire che questa vita dura, di dormire con i miei piccoli all’aperto, l’aver perso tutto, mi ha spinto a cercare Dio e nella mia profonda e lancinante miseria mi chiedevo, ma dove è Dio? Con questa domanda nel cuore mi ammalo di polmonite. Rischio la vita ed è a quel punto che accolgono i miei tre bambini in orfanotrofio. Avevo paura di morire e sotto quell’ albero mi chiedevo, ma dove è Dio? Ma perché tutto questo soffrire?”
Il discorso mi conquista profondamente. È la prima volta che vedo una persona in miseria nera gridare a Dio: dove sei? Che domanda forte! Una domanda che brucia e fa tanto male, come la domanda di Giobbe nel bellissimo libro Giobbe scritto da Joseph Roth [*].
Vengo in Africa, e una giovane donna, che vive sotto gli alberi, mi insegna a cercare Dio? Proprio quando non hai neppure da mangiare? La guardo con ammirazione e la donna continua il suo incredibile racconto: “Non so come Gigi, guarisco, inizio a stare meglio. Inizio un umilissimo lavoro: spacco le pietre”. Dicendo così prende un grosso martello e percuote una grossa pietra vicina e piano piano la riduce in frammenti che mette in un bidone giallo dell’acqua. “Per ogni bidone pieno mi danno 20 scellini (circa 14 centesimi di euro). Naturalmente non è un grande guadagno, immagini padre quanti bidoni io e mia madre dobbiamo riempire per sfamare i miei piccoli?”
“Cosa mi dici? 14 centesimi ogni bidone? Ma è davvero una miseria!” Jimmy triste in volto acconsente con un grande sospiro. “Ma, padre, in questo disperato cammino ho incontrato la Chiesa evangelica e mi sono avvicinata alla Sacra Scrittura”. Entra nella capanna e torna con un certificato plastificato ed orgogliosa me lo mostra: “Vedi padre, ho sostenuto il corso biblico per imparare a leggere il Vangelo [si tratta di un rudimentale certificato di partecipazione ad un corso di catechesi, redatto dalla Chiesa evangelica]. Ma al termine di quel corso ho cominciato a pregare ed a pregare per diverso tempo, anche alcune ore al giorno”. “Cosa dici? Preghi diverse ore al giorno?“ “Si Padre, ripeto le preghiere al Signore Gesù che ho imparato nella chiesa, vado alla celebrazione domenicale e rispetto il digiuno”.
Quando Janet mi dice la parola “digiuno” sorrido quasi divertito e dico: “Ma se non hai niente da mangiare che digiuno fai?” Si fa seria e usa un tono solenne, quasi dogmatico e mi risponde con una forza incredibile da un punto di vista teologico. “Vedi padre digiunare significa non mangiare quel poco o tanto che hai, per me quotidianamente può essere un piatto di ugali: invece di mangiarlo lo distribuisco ai bambini, ma alcune volte lo porto a chi magari come me non ha nulla da mangiare e così trascorro tre, quattro giorni oppure una settimana e questo digiuno mi toglie il cibo ma mi riempie di Dio”.
Chiedo a Jimmy di ripetere la traduzione e Jimmy mi dice lentamente: “Questo digiuno mi toglie il cibo ma mi riempie di Dio”. Sono sorpreso, ammirato ed umiliato da questa donna, che non ha nulla da mangiare, ma che si priva di quel “pane quotidiano” che chiediamo nel Padre nostro. Un sacro stupore mi riempie la mente di due parole: preghiera e digiuno, ma preghiera e digiuno di una miserabile, di una che non ha nulla da togliere. E quando le regalano un piatto necessario alla sopravvivenza, lo regala a chi è più povera di lei. Sono davanti ad un gigante della fede Cristiana e vi devo dire che sinceramente è la prima persona che mi confessa una roba del genere. Davvero, nostro Elisha ha una grande, disperata e santa mamma. Se non ci fosse stato lui non avrei incontrato lei.
Ma la donna continua e con semplicità mi racconta alcuni fatti, in verità addirittura otto casi, ma non vorrei troppo parlare di questi casi perché fanno parte di un’Africa legata al mondo della magia. Un giorno una donna della polizia chiede a Janet di pregare per la sua gamba ammalata: la donna sente molto dolore e non riesce a muoversi, Janet prega su di lei e digiuna e la donna guarisce. Forse è un caso, ma pregare nel nome di Gesù e digiunare in suo nome è qualcosa di buono. La donna della polizia per ringraziarla parla con il padrone del campo e paga per costruire la capanna dove la donna vive.
Rimango perplesso, perché poi la donna mi racconta altri casi. Ma l’importante è vedere come Dio ci raggiunge anche e forse soprattutto nella infinita miseria, quando ci chiediamo dove sia, quando ci muore una persona cara, oppure preghiamo e digiuniamo. Certo, è molto forte la storia di una miserabile donna che non ha da mangiare, quando riceve il necessario, lo regali a chi è più povero di lei. La guardo e dico: “Janet, te la senti di fare una preghiera di guarigione su di me? Se non ti dispiace, poi io ti darei la benedizione, la benedizione di un prete Cattolico.
La ragazza si riempie di luce e mi dice: “Pregare insieme e pregare uno per l’altra è la cosa più bella che mi potevi chiedere. Allora certo che ti dico di sì, ma tu sei disposto in questi giorni ad offrire un digiuno insieme a me?” La domanda è fortissima, mi spiazza ed è una salutare provocazione, anche se lei non sa che siamo in tempo di Quaresima. Rispondo con le lacrime agli occhi: “Non mi potevi fare tu, proprio tu una domanda così bella, così sublime, così autentica: ti prometto che venerdì prossimo 14 marzo digiunerò tutto il giorno e sono sicuro che tu starai digiunando con me. Mai in tanti viaggi avevo ricevuto da un povero una provocazione così forte nella fede. Tu non sei neppure Cattolica, ma la Chiesa evangelica ti ha fatto percorrere la strada della preghiera e del digiuno, che noi Cattolici purtroppo non percorriamo più”.
Abbraccio Janet forte forte. Si alza e inizia la preghiera di guarigione su di me nel nome di Gesù. Con gli occhi chiusi e concentrato seguo la preghiera. Poi mi alzo, a mia volta impongo le mani sul suo capo, recito il Padre nostro e con le lacrime agli occhi concludo la preghiera dicendo: “Dio ti benedica, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”.
Saltiamo in moto e partiamo per un altro villaggio, magari a digiuno, ma con il cuore colmo di Dio, come da queste parti spesso succede.
[*] Hiob. Roman eines einfachen Mannes (Giobbe. Romanzo di un uomo semplice) è un romanzo di Joseph Roth, scritto nel 1930 e ispirato al personaggio biblico di Giobbe. Si tratta di un romanzo semplice e delicato, pieno di spunti di riflessione riguardo alla fragilità dei beni terreni e dell’importanza che ricopre la famiglia nella vita dell’individuo. Il romanzo è stato tradotto in 27 lingue di tutto il mondo. In Italia è apparso nel 1932 nella traduzione di Giovanni Necco.
L’opera di Joseph Roth si dispone naturalmente su due versanti: da una parte l’epos del tramonto asburgico, dall’altra quello della dispersione dell’ebraismo orientale. Giobbe è il libro più celebre, più riccamente articolato e più potente che rappresenta questa ‘altra parte’ di Roth. Pubblicato nel 1930 e accolto subito da un successo internazionale, si può dire che questo romanzo equivalga, sul suo versante, alla Marcia di Radetzky, come felice tentativo di narrazione epica, dal respiro vasto e avvolgente, evocatrice dei più minuti particolari e insieme scandita sin dall’inizio come una favola.
Il Giobbe di Roth si chiama Mendel Singer, è un «uomo semplice» che fa il “maestro”, cioè insegna la Bibbia ai bambini di una cittadina della Volinia russa e ai propri figli: «Migliaia e migliaia di ebrei prima di lui avevano vissuto e insegnato nello stesso modo». La sua vita scorre quietamente, «fra magre sponde», ma chiusa in un ordine intatto, fino alla nascita del quarto figlio, Menuchim, che è minorato. Da allora in poi, se «tutto ciò che è improvviso è male», come dice Mendel Singer, molti mali cominciano a sfrecciare sulla sua vita. Dovrà abbandonare la sua terra per andare a New York, in un mondo che gli è totalmente estraneo, e la moglie – ancora una volta un memorabile personaggio femminile –, la figlia e i figli saranno uno dopo l’altro toccati dalla guerra, dalla morte, dalla pazzia.
Via via che sprofonda nella solitudine e nella disperazione, il Giobbe di Roth, quest’uomo comune che aveva seguìto nella sua vita l’ordine dei padri senza quasi riflettere, si staglia sempre più grandioso: dopo aver «visto andare in rovina un paio di mondi», si trova sul punto di bruciare i suoi libri sacri perché vuole «bruciare Dio» – e in quel momento raggiunge un’intensità e una essenzialità che sembrano negate per sempre ai consolatori che gli si affannano intorno. Ora soltanto, Mendel diventa veramente un «uomo semplice»: più la vita lo spoglia e lo sradica da tutto, più egli appare fermo, con lo sguardo lucido e una forza segreta di resistenza che gli impediscono di crollare. Una sotterranea corrente vitale lo lega al figlio che era stato dato per perduto: il loro insperato e miracoloso incontro, alla fine, è il ricongiungersi di queste due correnti che hanno continuato a scorrere fra le rovine della morte e dell’esilio, riapparendo sempre, testardamente, come unica risposta agli enigmatici colpi della sventura. Tutto il sapore, l’immenso «pathos», l’antica saggezza e l’indistruttibile forza vitale di una grande civiltà, sempre minacciata e condannata alla dispersione, sembrano concentrarsi nel profondo sonno finale di Mendel Singer, carico del «peso della felicità e della grandezza dei miracoli».
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