Villaggio Caterina. Il calcio degli esuli

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C’è una pagina social che si chiama “Gli Amici del Villaggio Caterina“, 1300 iscritti, un post ogni tanto, si alternano foto di classe con bimbi in grembiule e malinconiche comunicazioni di dipartite.

Corriamo all’indietro fino al 1952

Un programma nazionale assegna ai profughi di Istria, Fiume e Dalmazia il 15% delle abitazioni costruite dall’Istituto Autonomo per le Case Popolari. Due anni dopo inizio lavori, nel 1955 si inaugura il Villaggio, siamo a Torino, zona Lucento tra via Pirano e via Parenzo, nomi che sale il brivido ancora adesso.
Sono i profughi inizialmente accolti alle casermette di Borgo San Paolo, 253 nuclei familiari sistemati ai margini della città, territorio non solo urbanisticamente isolato, strade poche e mal ridotte, carenza di servizi, contesto ancora rurale e di cascine. 1956, altre 100 famiglie. 1959, ultimo ampliamento per arrivare agli attuali 11 fabbricati divisi in due lotti. Oggi il Villaggio Caterina è integrato nel tessuto sociale del capoluogo piemontese nel bene e nel male. 
Non è più ghetto, non ha più la forza della comunità che non conobbe resa e che oggi, tempo ed usura, vive solo di ricordi.

Il campetto del Villaggio

Molti racconti riportano a quei prati stropicciati dove i ragazzi inseguono una palla di stracci e poi di cuoio fino a quando papà non torna dalla fabbrica e la cena è a tavola. Il Villaggio Caterina è una scuola calcio con quattro pali di legno che non stanno su ed allora quattro maglioni vanno bene, i cappotti no che si rovinano e mamma mena. Su e giù i calzettoni e per il campo sognando i nomi del Grande Torino, uno era “fiumano come tanti di noi”. Ezio Loik vive qui nelle nostre corse, immortale non è una parola al vento. La squadretta più prestigiosa del Villaggio si chiama Fiumana proprio come la squadra dove “l’elefante” – rozzo, potente come pochi – ha iniziato a tirare calci alla palla nella città che solo una manciata di anni prima aveva vibrato di passione italica con i legionari del Vate

Giammarinaro

Infatti, il più iconico prodotto del Villaggio è Antonio Giammarinaro, classe 1931 lui originario di Tunisi, qualcuno lo ricorderà allenatore dell’Avellino anni settanta. È soprattutto il capitano, il 15 maggio 1949, della prima partita dopo Superga con il Torino primavera – la delibera federale ha già cucito lo scudetto sulla maglia granata – che gioca contro i pari categoria del Genoa in un Filadelfia gremito e surreale. Lui con la 10 di Valentino, suo il primo goal (4-0). 
Giammarinaro apre la via ad altri ragazzi provenienti dalla strada, il Villaggio è una sorprendente fucina di buoni giocatori, almeno tre generazioni prima che tutto cambi dentro e fuori quei campi sterrati calpestati senza pietà. 

(Antonio Giammarinaro)

La prima generazione

I pionieri della prima generazione hanno due stelle: Claudio Rimbaldo e Luigi Bodi, due polesani. Claudio colleziona 195 presenze in serie A con 5 reti, centrocampista di fatica con 12 stagioni divise tra Toro, Triestina e la maglia viola della Fiorentina 1960-’61, quella del “double”: Coppa Coppe contro i Glasgow Rangers e Coppa Italia con la Lazio. O del “triplete”, se vogliamo, perchè anche la Coppa delle Alpi arricchì la bacheca gigliata in un anno tutto d’oro. Luigi, caratteristiche e numeri simili, 122 presenze in A ed 8 reti, il Toro primo club importante, poi Alessandra, Bologna, Atalanta, Napoli. Tre reti alla Juventus nella parentesi felsinea il picco di una carriera sfortunatamente attraversata da continui problemi fisici. 

Claudio Rimbaldo
(Claudio Rimbaldo)

La seconda generazione

La seconda generazione è la più generosa di talento. Un nome su tutti, Sergio Vatta, maestro inarrivabile del vivaio granata. Sergio è di Zara, classe 1937, da calciatore si barcamena tra C e D, da tecnico si esprime ai massimi livelli. Il suo giovane Toro produce Bobo Vieri, Gigi Lentini, Cravero, Fuser, Mandorlini, Venturin: scudetti primavera e tentativi di imitazione a pioggia. Esaurito un ciclo lungo quasi 15 anni, porta le sue conoscenze alla nazionale, alla Lazio di Cragnotti, financo in Grecia.
Un anno più giovane di Vatta, il fiumano Franco Sattolo, leggendaria figurina dei tempi d’oro. La Samp lo sceglie per giocarsi la titolarità prima con Rosin e poi con Battara, sono cinque stagioni ed un centinaio di presenze complessive, poi arriva il solito Toro con cinque milioni e una sfida: cercare di farsi largo tra Lido Vieri ed il giaguaro Castellini, impresa improba. Sattolo fa bene quando chiamato in causa. Blinda la porta nel suo primo derby (il primo 0-0 del dopoguerra, febbraio ’67). Chiude con 44 presenze con i colori granata, chiuderà con il calcio da allenatore nella sua Fiume tra i dilettanti della Gloria Fiume, inarrestabile richiamo delle radici sottoterra ma per questo più forti. 
Altri nomi non arrivano ai grandi palcoscenici, ma chiedi agli anziani e ti diranno che il prodigio si chiamava Luciano Palin, un futuro rosa – o meglio anche per lui granata – spezzato da un infortunio. E che D’Alessandro meritava più della Reggina, Gucciano del Nardò e Bruno Luciano dell’Empoli, all’epoca club semi pro. 

Sergio Vatta
(Sergio Vatta)

La terza generazione

Ed infine, la terza nidiata, meno proficua ma con una gemma predestinata. La famiglia Mastropasqua non è vittima della tragedia del confine orientale, viene dalla Grecia e ricomincia dal Villaggio Caterina. Giorgio è il più bravo, il più elegante di tutti sul campetto della chiesa di Santa Caterina. Quando c’è lui, il passaparola raduna un centinaio di curiosi a godersi lo spettacolo del ragazzino che mette la palla dove vuole, e con la testa alta. La Juve stavolta arriva prima, Giorgio fa la trafila nel settore giovanile sotto la sapiente conduzione di Ercole Rabitti per arrivare con Bettega alla primavera ed a ridosso della prima squadra dove trovare spazio è durissima per un diciannovenne. Perugia e soprattutto Terni sono le piazze giuste per affermarsi. È la mitica Ternana del gioco corto di Corrado VicianiMastropasqua difensore ultimo e primo centrocampista ne è emblema e sintesi, la Juve lo reclama per affidargli il dopo Salvadore (1973-’74). Qualcosa va storto ed il ragazzo non riuscirà ad imporsi, Terni era la dimensione giusta con i tempi giusti che non sono quelli dei piemontesi condannati a vincere. Insieme a GP Marchetti finisce nell’operazione che porta un suo pari ruolo, altrettanto promettente, da Bergamo a Torino. Si chiama Gaetano Scirea. Sono gli anni di continui scambi tra le due società. Bergamo, Bologna, Roma sponda Lazio, Catania, Piacenza: circa 350 presenze tra A e B e la consapevolezza diffusa che poteva fare molto di più, troppo a testa alta viene da pensare.

Mastropasqua Villaggio Caterina
(Giorgio Mastropasqua)

a.D. 2025

Ora il Villaggio Caterina ha ancora tante famiglie di esuli ed eredi mescolate tra stranieri di lingue e tradizioni diverse. Delle targhe, dopo decenni di silenzio e oblio, ricordano la tragedia delle foibe e dell’esodo a chi sa, parole vuote per gli altri. I più idioti, vandalizzandole, non perdono occasione per dimostrarsi tali (ultimo atto proprio il 10 febbraio scorso). I vecchi scuotono la testa, farfugliano in dialetto e ricordano quelle prime, piccole case di 40mq così male assemblate che ne trovavi una senza cucina ed un’altra con due, ma era casa. Casa lontano da casa. 

 



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