Verona: Damiano e i giovani volontari

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Foto: un gruppo di volontari. A sinistra, Damiano Conati

Le parole raccontano, ma a volte sono in grado di determinare, respingendo o avvicinando. E allora capita che ci si giochi l’accesso a un mondo proprio attraverso una parola, un titolo. Come con “La fragilità che salva”, l’incontro che la Caritas diocesana di Verona ha promosso qualche giorno fa invitando ragazze e ragazzi a conoscere le attività della Caritas e magari iniziare a fare volontariato. L’altro che incontro e accompagno può aiutarmi a trovare un senso, mi può salvare. Con la sua fragilità. Ma c’è anche la mia di fragilità, che se riconosco mi fa partire dallo stesso livello rispetto alla persona che decido di aiutare. Se non fosse così, non sarebbe servizio. Le parole non le ha scelte a caso Damiano Conati, di Caritas Verona, insieme al gruppo di operatori e volontari con i quali ha organizzato l’incontro di cui sopra. 42 anni, tre figli, non per niente si occupa di comunicazione ed è responsabile dell’Area Accoglienza di neomaggiorenni. Fragili.

La fragilità patrimonio comune, suggerita sin dal titolo della serata con i giovani, quanto ha sorpreso chi il vostro invito lo ha accettato?
«Ha sorpreso ma non così tanto, perché fa parte di un percorso che abbiamo iniziato un anno fa con i giovani in collaborazione con il Centro missionario e la pastorale giovanile della Diocesi di Verona – tra l’altro il direttore della pastorale giovanile, don Matteo Malosto, dirige anche la Caritas diocesana – proprio con quel paradigma: tutti abbiamo le nostre fragilità e proprio per questo dobbiamo andare incontro all’altro senza pregiudizi. Ognuno ha le sue povertà, ma nessuno è così povero da non aver nulla da dare a qualcun altro. La scorsa estate abbiamo fatto la proposta di volontariato all’estero. Al ritorno i ragazzi che erano con noi hanno iniziato a mettersi a servizio sul territorio e hanno anche avviato un bel passaparola. Un anno fa di questi tempi avevamo quasi tutti volontari over – che sono fondamentali, sia chiaro –, ma oggi godiamo della ricchezza che ci arriva dalla presenza di tanti giovani. E la prossima estate bissiamo: proponiamo esperienze di tre settimane ciascuna in Guinea Bissau, Mozambico, Sri Lanka, Bosnia e Palermo-Lampedusa».

Damiano, come si racconta la Caritas ai giovani?
«Mettendo subito le carte in tavola. Abbiamo detto ai ragazzi che se si decide di fare servizio di volontariato bisogna, certo, assecondare i propri tempi, le proprie disponibilità, però per noi è fondamentale che oltre al servizio partecipino a un incontro al mese di risonanza, confronto e preghiera. Ci si ritrova e ci si ferma a raccontarsi e a pregare. Noi abbiamo voluto dare questo taglio all’esperienza: siamo la Caritas, la Chiesa. Non possiamo certo prescinderne. Non ci basta il servizio concreto. Alziamo l’asticella. E i giovani rispondono».

Non capita che qualcuno si allontani perché poco interessato a questo aspetto?
«Hanno sete di Dio. Gli incontri di preghiera mensili sono strapieni di persone, vengono in centinaia. Numeri importanti per la nostra Chiesa viste anche le dimensioni contenute di Verona. Le persone più anziane sono linfa vitale, ripeto, ma da un anno a questa parte abbiamo la sensazione di essere… ripartiti alla grande, proprio grazie ai giovani».

Dietro a questa adesione da parte dei giovani che richiesta c’è?
«Desiderio di scoperta, di conoscenza. Ci chiedono di poter stare accanto alle persone, di camminare con i più fragili. Pensavo che uno dei loro primi obiettivi fosse “fare”, costruire, invece il giovane chiede la dimensione dello “stare”. Il nostro vescovo lo aveva previsto: ha spinto tantissimo in questa direzione e ha trovato i collaboratori giusti che hanno fatto partire tutto».

Che tipo di domande vi rivolgono più spesso durante gli incontri di conoscenza?
«Ci chiedono chi sono le persone che bussano alla Caritas, le persone che loro andranno a incontrare. Un ragazzo di 17 anni ci ha chiesto se gli ospiti hanno i capelli lunghi o corti. Può sembrare banale ma non lo è: spesso ci facciamo degli altri un’immagine che poi non corrisponde».

C’è una domanda che vi ha colto impreparati?
«Finora no, ma ogni volta i ragazzi ci sorprendono e ci ricordano quanto tutto questo sia bello. Quando ad esempio ci chiedono la differenza tra lo svolgere un servizio volontario con Caritas o con una Ong. O ancora quando ci fanno la domanda: “Chi te lo fa fare?”. E allora noi pensiamo: meno male che questo ragazzo è venuto stasera!».

Sono dunque tanti i giovani che a vario titolo si impegnano nelle varie opere segno della Caritas di Verona. Dove e con quale continuità?
«Noi chiediamo almeno la presenza di una volta al mese per il servizio, oltre al già citato incontro mensile. Poi se danno di più è meglio. Sono impegnati nella casa di accoglienza per i senza dimora e per i richiedenti asilo, nella mensa dei poveri o in questura. O, più precisamente, davanti alla questura, per un servizio originale: mentre le persone sono in fila, loro stanno lì, fanno compagnia, conversano, offrono un tè caldo. Poi ci sono anche quelle forme di volontariato di durata limitata. Un esempio: il vescovo ha accolto otto persone senza dimora in curia per il periodo invernale e quindi un gruppo di volontari assicura la propria presenza per questi mesi la sera, insieme a un operatore guardiano».

C’è anche un volontariato spot, occasionale? Giovani che danno la loro disponibilità magari per una sola giornata…
«Sì, penso all’omicidio di un richiedente asilo davanti alla stazione. Abbiamo chiesto ai giovani di organizzare una veglia di preghiera nella chiesa della zona. Loro lo hanno fatto. Insieme ai loro amici che non frequentano le opere segno della Caritas. La chiesa era strapiena. Una veglia bellissima. O ancora: dovevamo sgomberare una casa per fare posto a un gruppo di persone che avevano vissuto fino ad allora in una casa abbandonata, nel degrado. Sono venuti in venti ad aiutarci. Amici degli amici. Un tam-tam continuo».

Vi augurate che i volontari in questa esperienza maturino un certo stile, un certo modo di essere che segni un po’ il loro futuro. Gli incontri che queste ragazze e ragazzi fanno, comunque, non li dimenticheranno. Gli incontri con le persone in difficoltà, soprattutto.
«È vero. L’incontro con il povero è ciò che li spinge a restare e che resta in loro. E in coloro che in modi diversi entrano in contatto con noi. Quando ad esempio pubblichiamo una storia nei social, abbiamo numeri di visualizzazioni per noi importanti. Le persone vogliono cose concrete, verità, anche in rete. Io spesso come Caritas Verona organizzo dei laboratori nelle scuole. Be’, non vado più da solo come i primi tempi, ma con gli ospiti delle nostre opere segno che vivono in prima persona certe situazioni nel quotidiano. Proprio questa mattina ero a scuola con un ragazzo di 22 anni che viveva in strada e che ora è accolto in uno dei nostri Centri di Accoglienza. Ha accettato il mio invito di venire perché non vuole che i ragazzi facciano i suoi stessi errori. Come lui, tanti altri vogliono raccontarsi. Da chi ha compiuto un viaggio terribile nel Mediterraneo alla persona senza dimora che parla della sua vita su una panchina. E i ragazzi sono spiazzati perché la credono una cosa lontana da loro e perfino dalla persona che hanno davanti».

Torna la fragilità che salva di cui parlavamo all’inizio?
«Sì, la fragilità salva le nostre vite, ci permette di vedere con uno sguardo diverso le altre persone. Se imparo ad avere una relazione alla pari con la persona povera, mi viene naturale averla con il vicino di casa, con l’amico, la moglie. La mia fragilità e quella dell’altro mi salvano. Così come mi salva scorgere lo stupore negli occhi di questi giovani. Sono occhi che luccicano, che mi emozionano e mi danno energia. Vederli entusiasti anche solo per aver tagliato le unghie a un ospite non ha prezzo. La povertà fa schifo – non il povero, ovvio – e se ti entusiasmi davanti a queste cose vuol dire che c’è speranza. Io e i miei colleghi vogliamo essere totalmente a servizio di questi giovani che scelgono di stare con noi in Caritas».



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