Una terra popolata, testimonianze dai campi profughi palestinesi di Aida e Dheisheh

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Il 22 febbraio 2025 l’esercito di occupazione israeliano entra nel campo profughi di Aida, a Betlemme, nella Cisgiordania occupata, irrompendo nella casa di una famiglia che stava aspettando il rilascio del figlio, come previsto dalla prima fase degli accordi stretti tra Hamas e le forze di occupazione entrata in vigore lo scorso 19 gennaio; il 25 febbraio l’esercito fa irruzione nuovamente nel campo, distruggendo due case. Nelle stesse giornate, anche un altro dei campi profughi di Betlemme, Dheisheh, viene colpito da un raid delle forze sioniste, durante il quale viene ucciso un uomo e arrestato un altro della stessa famiglia, mentre quattro abitazioni vengono completamente distrutte. Episodi come questi non sono purtroppo eccezionali, soprattutto in queste ultime settimane: dallo scorso gennaio, appena qualche istante dopo la sigla dei negoziati per una tregua temporanea a Gaza, in Cisgiordania le aggressioni e gli attacchi dell’esercito israeliano e dei coloni sono aumentati ulteriormente e velocemente per numerosità ed intensità. I bersagli principali sono i campi profughi, oggi in particolare quelli del nord della Cisgiordania come Jenin, Tulkarem e Nur Shams: nel campo profughi di Jenin, qualche giorno fa, sono entrati carri armati e blindati israeliani per la prima volta in più di vent’anni; non accadeva dal 2002, durante la seconda Intifada.

Una delle entrate del campo profughi di Aida, con la chiave come simbolo del ritorno delle famiglie palestinesi nei propri villaggi di origine; si intravede un pezzo del muro di separazione, che definisce parte del perimetro del campo

I campi profughi palestinesi sono da sempre al centro delle attenzioni delle forze israliane di occupazione per il fermento politico e resistente che vive al loro interno: etichettati come incubatori di resistenza, sono quindi soggetti a maggiori misure repressive e violente, incursioni, arresti e uccisioni. Nel 1948, durante la Nakba ( النكبة‎, “la catastrofe” in arabo) la Palestina si trasforma in una nazione di rifugiatɜ; con la proclamazione dello stato di Israele si è messo di fatto in moto il progetto sionista di pulizia etnica e di apartheid del popolo palestinese, tuttora in atto ormai da 77 anni. Le persone rifugiate palestinesi costituiscono il più grande gruppo di rifugiatɜ al mondo (40%, ~ 8 milioni), e il 75% delle persone palestinesi sono rifugiate; attualmente esistono circa 60 campi profughi dentro (Gerusalemme Est, Cisgiordania, Gaza) e fuori (Libano, Siria, Giordania) la Palestina. Durante un’iniziativa organizzata dal gruppo BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni) di Genova lo scorso 14 febbraio, sono intervenuti due compagni dei campi profughi di Aida e di Dheisheh, restituendo la loro testimonianza sulla situazione attuale e in generale sulle condizioni di vita nei campi profughi palestinesi.

Aida e Dheisheh nascono durante la Nakba sotto forma di tendopoli, destinate a ospitare per un tempo limitato alcune delle famiglie palestinesi cacciate dalle proprie comunità – più di 500 villaggi sono stati svuotati in quegli anni, con circa 750.000 sfollatɜ. Come altri campi profughi palestinesi, sono rimasti per diversi anni in questa situazione precaria, organizzati in tende e senza accesso ad acqua ed elettricità, prima che ci si rendesse conto che la situazione non era destinata a cambiare nel breve periodo e si cominciassero a costruire case in muratura, portando di fatto alla formazione di piccole città all’interno delle città, come lo sono oggi Aida e Dheisheh a Betlemme. La superficie dei campi non è aumentata nonostante l’incremento della popolazione negli anni; ad Aida si è addirittura ridotta, quando nei primi anni 2000 sono cominciati i lavori per costruire il muro di separazione, adiacente al campo. Ad Aida inizialmente erano circa 1.000 persone, a Dheisheh 3.000, e adesso sono rispettivamente 7.000 e 19.000, in uno spazio così ridotto che la densità abitativa è almeno 25 volte maggiore della città più densamente popolata in Italia (Napoli, che conta circa 2.500 abitanti per kmq). «I campi crescono non in orizzontale ma in verticale. Le persone rifugiate palestinesi hanno sempre provato a sfruttare qualsiasi centimetro, per costruire nuovi spazi per le proprie famiglie, e questo ha portato ad avere dei piccoli vicoli all’interno del campo, non delle strade». La costruzione delle case deve far fronte alle frequenti demolizioni, sopra le quali, secondo la legge sionista, è vietato ricostruire se sono avvenute per motivi politici. Questo spesso non viene rispettato: alcune case vengono ricostruite e quindi demolite più volte.

La massiccia sovrappopolazione incide su tutti gli aspetti della vita delle persone che vivono nei campi, dalla questione della privacy all’accesso ai servizi essenziali e non; l’utilizzo dell’acqua, per esempio, è una delle problematiche più grandi, soprattutto in estate, considerando che il “rubinetto” viene aperto arbitrariamente da Israele ogni due settimane/ venti giorni solo per qualche ora. «Anche questa è una politica sionista: hanno messo e lasciato così tantɜ palestinesɜ, con background socioculturale diversi, in spazi così piccoli perché speravano che creasse tensioni e problematiche all’interno del tessuto sociale palestinese. Cosa che ovviamente non è successa. Alla filosofia coloniale sionista noi contrapponiamo quella della resistenza».

Quali cambiamenti ci sono stati dopo il 7 ottobre e più recentemente nelle ultime settimane?

Sottolineano, più volte, di come non sia mai stato semplice vivere all’interno dei campi profughi palestinesi. Indubbiamente la situazione si è aggravata ulteriormente nell’ultimo lungo e breve periodo, sotto vari aspetti, come ad esempio quello del lavoro: «ad Aida, per esempio, la disoccupazione nel campo rappresentava circa il 50%, dopo il 7 ottobre si parla del 90% di persone disoccupate e questo ha ovviamente un impatto su tutto, un impatto non solo pratico ma anche psicologico». Una delle cause maggiori dell’impennata del tasso di  disoccupazione è legata ai permessi per andare a lavorare nei territori in Israele, che da più di un anno mezzo vengono negati portando alla perdita dal lavoro di centinaia di migliaia di palestinesi.

Nelle ultime settimane, e ancor prima nell’ultimo anno e mezzo, le ondate di violenza e repressione hanno raggiunto livelli estremamente elevati: i raid all’interno dei campi da parte dell’esercito israeliano sono aumentati e continuano ad aumentare; a volte hanno obiettivi specifici come ad esempio case e famiglie di prigionierɜ che stanno per essere arrestatɜ o rilasciatɜ. Il tema degli arresti e della detenzione nelle carceri israeliane, all’interno delle quali detenutɜ palestinesi vengono sistematicamente aggreditɜ e torturatɜ, emerge con forza dalle loro testimonianze. A questo si aggiungono forme di reclusione e di sorveglianza non solo fisiche, ma anche burocratiche e digitali come strumenti di dominio e di oppressione, strutturali e sistematici all’interno dei campi profughi palestinesi. Si parla di un regime di carcerazione collettiva, di un’opera di confinamento messa in atto da Israele nel suo progetto di colonialismo di insediamento.

Talvolta le incursioni dell’esercito israeliano all’interno dei campi profughi palestinesi non hanno alcun fine specifico.«Negli anni, questo ha fatto capire che i campi vengono utilizzati come zona per allenarsi e per insegnare ai militari dell’esercito come eseguire operazioni militari nelle città e nelle comunità palestinesi, con l’obiettivo di spaventare e terrorizzare».

Nei campi profughi palestinesi un’alta percentuale di residenti sono bambinɜ, ad Aida e Dheisheh si contano tra il 30 e il 40% delle persone registrate nel campo. Le condizioni e la situazione all’interno dei campi, in una cornice complessiva di occupazione, hanno un impatto forte su come bambinɜ e ragazzɜ crescono: «vivono tutti i giorni repressione, violenza e terrorismo, non c’è bisogno di spiegare loro la situazione politica perché la vivono sulla loro pelle». Ci parlano dei centri e delle associazioni che nascono all’interno dei campi profughi palestinesi, «per aiutare soprattutto i più piccoli a sviluppare tensioni e passioni e per portare avanti modalità di sostegno reciproco che caratterizzano la Palestina e il suo popolo da ancor prima della Nakba: è importante infatti mantenere unito il tessuto sociale all’interno della comunità, a prescindere dalla forma di potere e di colonialismo presente».

Laylac nasce nel 2010 a Dheisheh e il centro Amal al Mustakbal ad Aida nel 2001; sono associazioni dal basso che si autofinanziano, coltivando relazioni con altre associazioni e collettivi della società civile palestinese e internazionale, anche italianɜ. Portano avanti diverse attività, soprattutto per lɜ più piccolɜ, dallo sport alla falegnameria, da programmi teatrali e musicali a doposcuola e campi estivi. In questo ultimo periodo si cerca il più possibile di mantenere i centri attivi, anche se la situazione ora è emergenziale e il focus è diventato il sostegno economico alle famiglie dei campi, sotto forma di cibo e medicinali.

Il 21 gennaio 2025, due giorni dopo la dichiarazione di una tregua temporanea a Gaza, le forze di occupazione sioniste cominciano l’operazione militare Iron Wall in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Il governo sionista di estrema destra nella figura del suo ministro della finanza Bazalel Smotrich ha dichiarato che questo sarà l’anno dell’annessione della Giudea e dalla Samaria, utilizzando i nomi biblici con cui Israele si riferisce alla Cisgiordania occupata. Sono state colpite molte città, tra cui Gerusalemme, Jericho, Hebron, Betlemme, Jenin, Ramallah, Salfit, Tubas, Tulkarem, Qalqilya e Nablus, e sono stati presi di mira in particolar modo i campi profughi del nord: finora si contano più di 40.000 persone sfollate, centinaia di arresti e detenzioni e più di 50 persone uccise, di cui sette bambinɜ.  Mentre l’amministrazione Trump si diverta a giocare con l’intelligenza artificiale, in Cisgiordania e in Palestina si vive una delle ondate di oppressione più violente degli ultimi anni, che non accenna a fermarsi, soprattutto mentre la tregua nella Striscia di Gaza rimane così instabile.

«Quello che vediamo oggi non è una cosa nuova, dicono i compagni da Aida e Dheisheh, ma è una continuazione di quello che il movimento sionista sta portando avanti dall’inizio, con l’obiettivo di sradicare la popolazione palestinese dalla propria terra e di ostacolare il diritto al ritorno. Ma il popolo palestinese non si sradica: le popolazioni libere del mondo hanno visto quello che è successo a Gaza e hanno constatato che, nonostante il genocidio e l’oppressione, il popolo palestinese continua a tenersi stretta la propria terra. Siamo in una lotta continua fino alla liberazione e al ritorno».

Le immagini sono dell’autrice Cristiana Fiscone

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