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Gli hub citati nel regolamento presentato a Strasburgo «sono completamente diversi da quelli voluti dal governo Meloni in Albania», ci tiene più volte a precisare il commissario per gli affari interni e la migrazione Brunner
Un unico regolamento europeo sui rimpatri per dare ordine alla gestione dei flussi migratori nell’Unione europea. Una visione comunitaria, che metta fine alla frammentazione. È quanto promettono le nuove regole della Commissione di Ursula von der Leyen, presentate oggi, 11 marzo, a Strasburgo. Il messaggio che arriva è chiaro: chi non ha i requisiti per rimanere nel territorio dell’Unione verrà rimpatriato, pure in maniera forzata. Come? Accelerando le espulsioni e introducendo regole più severe per chi non ha diritto alla protezione internazionale all’interno dell’Ue, con anche la creazione di hub nei Paesi terzi. «Che sono completamente diversi da quelli voluti dal governo Meloni in Albania», tiene più volte a precisare Magnus Brunner, commissario europeo per gli affari interni e la migrazione. «La nostra è una proposta ambiziosa per rafforzare e snellire il sistema», spiega la vicepresidente della Commissione Europea Henna Virkkunen. «Perché rimpatrio oggi nell’Unione Europea non funziona e lo status quo attuale non è un’opzione», dato che permette «ai populisti di sfruttare il tema dell’immigrazione e la credibilità del sistema europeo, con i suoi alti standard, viene minata», conclude. Prima dell’entrata in vigore, prevista per luglio 2027, un anno dopo l’entrata in vigore del Patto sulla migrazione, il regolamento dovrà ottenere il via libera dal Parlamento e dal Consiglio europeo. Ma cosa prevede?
Ordine di rimpatrio unico
Tra le novità si conta un ordine di rimpatri unico valido in tutti i Paesi dell’Unione, che accompagnerà i provvedimenti nazionali, per evitare gli spostamenti da uno Stato all’altro. «Deve essere chiaro – sottolinea ancora il commissario – che chi ha ricevuto un ordine di espulsione deve lasciare non solo il Paese che l’ha emesso ma tutto il territorio dell’Ue», spiega ancora Brunner. Ciò significa che tutti i 27 devono riconoscere l’ordine di espulsione emesso da un singolo Stato membro, senza dover avviare una nuova procedura burocratica per il rimpatrio a livello interno. Per ora è volontario, ma entro il 2027 – spiegano da Strasburgo – la Commissione valuterà se tutti i Paesi dell’Ue sono pronti a riconoscere automaticamente i provvedimenti di rimpatrio emessi dagli altri Stati. Il quel caso, il riconoscimento reciproco diventerà obbligatorio.
Verranno, inoltre, incentivati i rimpatri volontari, ma quelli coatti saranno obbligatori per chi «non collabora con il processo volontario», che scatta per tutti coloro i quali non hanno diritto all’asilo, non rispetta un ordine di espulsione «entro la data indicata», oppure si sposta in un altro Stato membro «senza autorizzazione». Tale divieto si applica anche «a chi pone un rischio per la sicurezza» dei Paesi Ue. Un giro di vite contro chi commette dei reati prevedendo anche la detenzione, che passa da 18 a 24 mesi, o il sequestro dei documenti sino all’espulsione e che va letto in filigrana con l’articolo 29, quello che regola gli altri casi in cui le persone possono finire dietro le sbarre, compreso «il rischio di fuga». Ma «ogni decisione presa nel contesto di questo regolamento, della direttiva esistente e dell’asilo si basa su una valutazione individuale delle circostanze della persona interessata», precisano ancora da Strasburgo.
Il regolamento dà anche il via libera ai cosiddetti “hub di rimpatrio” nei Paesi extra-Ue dove trasferire i migranti che non hanno ottenuto il diritto d’asilo. Un modello «diverso rispetto al protocollo Italia-Albania o al modello Ruanda perché questi hub sono pensati per le persone che hanno già ottenuto un ordine di rimpatrio, non per i richiedenti asilo», come invece accade per i centri di Shengjin e Gjader. I migranti potranno essere mandati in questi “centri di raccolta” rispettando, però, alcuni principi. Gli accordi si possono siglare solo con gli Stati che «osservano gli standard internazionali sui diritti umani», compreso il principio di non-refoulement, ovvero qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non sicuro. «Oggi creiamo spazio perché i Paesi dell’Ue possano esplorare nuovi approcci ma non creiamo il contenuto in sé, semmai le condizioni minime perché gli hub di rimpatrio possano essere istituiti», commenta ancora Brunner nel corso della presentazione.
L’intesa con uno Stato fuori dall’Ue deve stabilire «le modalità di trasferimento, nonché il periodo durante il quale il cittadino di un Paese terzo rimarrà sul territorio, accompagnato da un meccanismo di monitoraggio per valutare l’attuazione e tenere conto di eventuali circostanze mutevoli». Il regolamento non stabilisce il tempo massimo di permanenza dei migranti all’interno dei centri, che dovrà essere negoziato con il Paese extra-Ue. Sono esclusi da questa procedura, i minori non accompagnati e le famiglie con minori. In sostanza, la possibilità di esternalizzare i confini non darà carta bianca ai governi; ma non è chiaro se i centri albanesi, voluti fortemente dal governo italiano, potranno essere riconvertiti nei “return hubs” pensati dalla Commissione Ue. Ipotesi già vagliata dalla premier Meloni dopo le mancate convalide dei trasferimenti da parte dei tribunali. Ma intanto il futuro dei Cpr battenti bandiera italiana è appeso alla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue, attesa in primavera.
A favore o contro
La proposta sui centri di rimpatrio fuori dai confini dell’Ue ha ricevuto le critiche del gruppo socialista, secondo gruppo della maggioranza Ursula, al cui interno il Pd è la delegazione più numerosa: per S&D i “return hubs” non possono far parte della visione europea. Ci sono alcune norme del regolamento che «violano i diritti fondamentali», come la possibilità di «dare agli Stati membri la libertà di scegliere con quali Paesi terzi fare accordi». Paesi, spiegano i socialisti, che molto spesso non «hanno ratificato alcun accordo internazionale». «Il regolamento non dà per niente ragione al modello Albania, come qualcuno da destra vorrebbe far credere, lo stesso Commissario ha sottolineato più volte che si tratta proprio di temi diversi – ha ribadito l’eurodeputata S&D Cecilia Strada -. Detto questo, comprendiamo la necessità di un sistema comune di gestione dei rimpatri, ma che sia nel rispetto dei diritti umani».
Dello stesso tono il commento dei Verdi in Europa: «Anziché lavorare a un sistema di rimpatrio sicuro, equo ed efficiente, la Commissione è disposta a rinunciare ai diritti umani e a una politica basata su dati concreti per assecondare i populisti», afferma Leoluca Orlando, membro della commissione europarlamentare Libertà civili, Giustizia e Affari interni. PIù positivo il bilancio del vicepresidente della Commissione Ue, Raffaele Fittto: «Con l’armonizzazione delle normative e dei processi, la creazione di centri di rimpatrio in Paesi terzi e l’introduzione di regole più severe per chi rappresenta una minaccia alla sicurezza o non collabora con le autorità, stiamo rispondendo alle aspettative dei cittadini, che chiedono alla Commissione di affrontare le problematiche legate alla migrazione con un approccio fermo e giusto», sottolinea Fitto. Plauso anche dal Partito Popolare Europeo (Ppe), che sul tema si trova molto allineato con le destre (Ecr e Patrioti). Il rischio, dunque, è che il regolamento passerà grazie all’asse tra Ppe e destre.
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