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Il liceo Classico «non ti spiega come funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti il perché, ad addestrare i sensi e la mente per riuscire a cogliere la bellezza di un tramonto o anche solo in una vetrina» scrive Massimo Gramellini nella sua rubrica Il Caffè. E aggiunge: «Il liceo Classico è come la ciclette: mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte; ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto». Un bel modo per raccontare il valore del classico, proprio nell’anno in cui il Manin celebra i suoi 160 anni di storia, ma non solo.
Ciò che scrive Gramellini è un ottimo biglietto da visita, da usare con intelligente avvedutezza nelle giornate del marketing o, meglio, dell’orientamento scolastico. Non dispiaccia la metafora inconsueta, da palestra, della ciclette. Perché la scuola è anche fatica, lo studio è fatica; ma quando ti sei irrobustito, hai saputo dare un senso e una speranza alla fatica, puoi andare ovunque e nessun traguardo ti è precluso. Il liceo Classico non nasce, come comunemente si pensa, dalla Riforma Gentile, «la più fascista delle riforme», ma attraverso la legislazione sabauda dal Lycée di Napoleone, che voleva un’aristocrazia obbediente e colta, lasciando ai Comuni, ai livelli bassi, di occuparsi del popolo, se e quando necessario; liceo a sua volta derivato dalla ‘Ratio Studiorum’ dei Gesuiti, che aggiornò le Arti del Trivio – dialettica (filosofia, il pensiero), grammatica (autori e lingue classiche), retorica, l’ars dicendi – con matematica e astronomia, in un contesto didattico motivatamente severo e non vessatorio.
I Gesuiti, le truppe scelte del Papa, si erano posti il problema di come cristianizzare la società dopo la fine dell’unità della Chiesa, conseguenza della Riforma. Il principio del ‘cuius regio eius religio’ che pose fine alle guerre di religione imponeva di cominciare dall’alto, dalla Corte, dalla classe dirigente. E inventarono il Collegio, figura del liceo anche dal punto di vista dell’organizzazione degli spazi. Il modello vincente prevede, quindi, poche materie, ma centrate sull’unico asse storico critico: non quella pletora sommatoria di discipline dal contenuto epistemologico spesso vago che ha caratterizzato l’organizzazione del curricolo dell’ordinamento tecnico e professionale, per esempio, nelle politiche di riforma dei tempi recenti.
Su questa questione – cosa, come e perché si studia – la posta in gioco è decisiva per il futuro della scuola e, per essa, del nostro Paese. Si tratta di ragionare politicamente sulla centralità della cultura: cultura per pochi o bene comune per tutti? La finalità della scuola è lo sviluppo integrale umano della persona o lo sviluppo di competenze prestazionali finalizzate all’esercizio lavorativo? La tradizione è custodia gelosa di un sapere statico e immodificabile o fattore dinamico, consegna e traffico dei talenti? Che valore hanno le nuove parole d’ordine calate dall’alto come ‘autorità’? È l’autorità di chi la esercita con autorevolezza per promuovere e far crescere? O è lo scudo per mero esercizio di ordine, disciplina, gerarchia e obbedienza? Merito, diritto alla ricompensa in relazione al bene compiuto o premio selettivo alla competizione individuale? E la formazione della classe dirigente è un processo democratico inclusivo, autenticamente meritocratico? O escludente e selettivo per retaggio famigliare, censo, fama, notorietà, potere, ricchezza comunque acquisiti?
Sono queste le grandi domande che investono la responsabilità politica, di alta politica, per cercare le risposte più efficaci per il futuro del Paese: in buona misura sono mancate o non sono state sufficientemente tematizzate negli ultimi 50 anni e traducono — o non traducono — quale sia il grado di interesse e di cura che un Paese ha per la propria scuola e per le generazioni che verranno. E a proposito della centralità del liceo classico, e del liceo Manin in particolare, mi sovviene un ricordo personale che mi riporta al 1985, all’inizio della mia presidenza all’Einaudi, allora Istituto Professionale per il Commercio, nell’immaginario collettivo la scuola per dattilografe e segretarie d’azienda.
Negli anni 60-70 lo sviluppo esponenziale della scuola di massa, effetto del boom economico e demografico, aveva reso insufficiente il patrimonio edilizio scolastico esistente. Vennero allora costruite nuove sedi, per provvidenza dell’ente Provincia, per l’Istituto Tecnico Industriale, per il Tecnico Commerciale e per Geometri e il Liceo Scientifico. Il Comune di Cremona aprì il cantiere di un nuovo edificio scolastico in zona Castello, sul terreno delle vecchie serre comunali, di fronte al Provveditorato agli Studi, destinandolo al liceo Classico. Senonché il collegio docenti rifiutò la proposta perché il liceo Classico era e doveva rimanere in centro. Subentrò allora l’Einaudi, che fin dalle origini aveva convissuto con il Manin nell’edificio storico di via Cavallotti, retrostante la chiesa di San Marcellino, la chiesa dei Gesuiti. Il trasferimento avvenne per blocchi e, definitivamente, dal 1982.
Il liceo Classico rimase nell’edificio storico dov’è tuttora, forte di una soluzione abitativa vetusta e gloriosa, solenne e austera, ma capace di incarnare e rappresentare al meglio il fondamento, anche stilistico, della tradizione culturale di antica tradizione gesuitica. Come ha vissuto il Manin la centralità così ostinatamente perseguita e tenacemente difesa? Non certo con il solo presidio abitativo! Come ho avuto modo di constatare e osservare, in questo mezzo secolo e oltre di vita scolastica militante e partecipe, lo ha fatto affrontando e non subendo le sfide del cambiamento, potendo contare su un corpo docente e dirigente solido, stabile e ben preparato, culturalmente e didatticamente. Scelte strategiche, sicuramente non conservative, sono state l’arricchimento dell’offerta formativa, ad esempio con l’adozione di un nuovo indirizzo liceale. Penso all’indirizzo linguistico, nato agli anni Ottanta.
Non una scelta stravagante, ma la conferma di una centratura formativa plurilinguistica in ambito liceale. C’è la sfida della globalizzazione ma anche l’insuperata lezione di don Milani, un ex alunno di liceo classico: «È la lingua che fa eguali». Il crescente apprezzamento dell’utenza ha confermato la correttezza di quella scelta. Una seconda scelta strategica, coraggiosa e innovativa, ha sostenuto il curricolo allargato, che altri definiscono la ‘scuola dei progetti’ o la ‘scuola delle educazioni’. Si tratta di iniziative formative collaterali e integrate come, per esempio, educazione alla legalità, alla cittadinanza attiva, alla cittadinanza europea, educazione teatrale, scuola di giornalismo, fatte appunto per integrare il curricolo dei saperi disciplinari. Non è la scuola del pomeriggio, diversa e contraria alla scuola del mattino ‘dove si fa sul serio’, bensì la risposta più efficace ai detrattori, severi custodi del fissismo disciplinare, laddove i progetti animano uno spazio laboratoriale dove i saperi interagiscono e dialogano con la realtà. Terza scelta strategica posta in essere in questi anni è l’apertura alla città nelle forme dell’educazione permanente: per adulti, ex allievi, associazionismo culturale, pubblicistica finalizzata. È una forma benemerita di servizio alla città e di promozione culturale.
Il riconoscimento di benemerenza civica, conferito nei giorni scorsi alla professoressa Renata Patria, rappresenta il coronamento e il compimento del valore di questa linea strategica. La storia recente del liceo Daniele Manin ha dimostrato che tradizione e innovazione non solo possono coesistere, ma rappresentano la condizione migliore per vivere le sfide del futuro e costruire, attraverso la formazione dei giovani, la società che sarà. Fattori generativi, quindi. E garanzie di speranza.
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