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Nel 2024 la pressione fiscale è salita. Secondo il governo perché è aumentata l’occupazione. Vero. Ma accade perché i salari sono tassati molto di più degli altri redditi e sottoposti alla progressività. In più, entra in gioco il drenaggio fiscale.
I dati dell’Istat sull’economia
Secondo l’ultimo bollettino Istat, del 3 marzo 2025, i conti pubblici nel 2024 stanno meglio del previsto, benché l’economia non sia andata affatto bene. La crescita economica in termini reali è stata uguale a quella asfittica del 2023, un magro +0,7 per cento e solo perché nel 2024 si è lavorato due giorni in più dell’anno prima. Ciononostante, il deficit è migliorato nettamente, passando dal 7,2 al 3,4 per cento del Pil, molto vicino al fatidico 3 per cento delle regole europee. Il saldo primario (cioè, entrate meno spese al netto di quella per interessi) è diventato perfino positivo, allo 0,4 per cento del Pil.
Dietro al miglioramento, secondo l’Istat, ci sono sostanzialmente due ragioni. La prima è la riduzione delle spese della pubblica amministrazione per circa 41 miliardi, dovuta in particolare al crollo dei contributi agli investimenti, categoria in cui si collocavano le agevolazioni edilizie per il Superbonus, di fatto sospese da marzo. La seconda è il buon andamento delle entrate. Sono aumentate in termini nominali di ben il 5,7 per cento nel 2024 rispetto al 2023, mentre il Pil in termini nominali è cresciuto di solo il 2,9 per cento, cosicché la pressione fiscale, il rapporto tra i due, è salita di 1,2 punti, dal 41,4 al 42,6 per cento. Per capirsi, lo stato ha incassato 26 miliardi in più nel 2024 di quanto avrebbe raccolto se la pressione fiscale fosse rimasta costante al livello del 2023. Sette dei 26 miliardi sono facilmente spiegabili, è il rimbalzo delle accise dovuto all’eliminazione nel 2024 di tutti i bonus contro il caro energia introdotti a partire dal 2022. Ma il resto? Come mai c’è stato l’incremento della pressione fiscale, visto che le aliquote di imposta sono rimaste più o meno costanti?
Perché cresce la pressione fiscale
Molti commentatori, inclusa la nostra presidente del Consiglio, ne hanno indicato il motivo nel buon andamento della occupazione. In effetti, nonostante la scarsa vivacità del Pil, i lavoratori dipendenti (misurati in termini di unità di lavoro equivalenti) sono cresciuti del 2,3 per cento e i loro redditi del 5,2 per cento. Ma perché mai questo dovrebbe far aumentare la pressione fiscale? È un rapporto e se le maggiori imposte e contributi pagati dai nuovi e vecchi lavoratori ne fanno crescere il numeratore, i loro maggiori redditi entrano nel Pil e ne fanno dunque crescere il denominatore. Perché allora il rapporto sale? Ci sono in effetti un paio di ragioni, ahimè molto meno positive dell’incremento dell’occupazione.
La prima è che i redditi da lavoro dipendente sono tassati molto più degli altri redditi. Da Istat, fatto 100 il totale delle entrate fiscali, che includono sia le imposte che i contributi, 49 sono risorse che provengono dai salari, 17 dai profitti (in cui sono inclusi i redditi dei lavoratori autonomi e i loro contributi), 33 arrivano invece dalle imposte indirette. Questi numeri devono essere confrontati con la quota di ciascuna componente sul Pil. Benché contribuiscano quasi al 50 per cento delle entrate, i salari costituiscono solo il 38 per cento del Pil, contro il 50 per cento dei profitti e il 12 per cento delle imposte indirette. Meccanicamente, significa che, quando crescono i salari, cresce anche il Pil, ma le entrate crescono ancora di più, producendo un inasprimento della pressione fiscale. Accade invece l’opposto quando sono i profitti a crescere, che nel Pil contano di più, ma pagano percentualmente molto meno imposte e contributi. Questo in parte spiega quanto successo in Italia nel 2024. In quell’anno, i profitti hanno subito una battuta d’arresto (si sono in realtà lievemente ridotti, -0,013 per cento), dopo la forte crescita degli anni precedenti, mentre i salari sono cresciuti, sia perché sono aumentati gli occupati, sia perché è aumentato il loro salario medio.
La figura 1 illustra il fenomeno, mettendo a confronto la crescita della pressione fiscale negli ultimi dieci anni con la differenza tra la crescita dei salari e quella dei profitti. È evidente che, quanto maggiore è la distanza tra i due dati, tanto più cresce la pressione fiscale, mentre nel caso opposto, quando i profitti crescono più dei salari, la pressione fiscale si riduce. Anche la correlazione tra le due variabili nei dieci anni è molto alta, superiore a 0,8 (se l’indice di correlazione fosse pari a 1, le due variabili sarebbero perfettamente allineate).
Figura 1
Profitti e salari ai tempi dell’inflazione
C’è anche una seconda ragione, dietro la crescita della pressione fiscale nel 2024, ancora più deprimente della prima. I redditi da lavoro dipendente sono sottoposti a due forme di imposizione fiscale: i contributi, un’imposta proporzionale, e l’Irpef, un’imposta progressiva. La progressività dell’imposta implica che via via che crescono, i redditi debbano essere sottoposti a un’aliquota di imposta più elevata, o se si preferisce, che l’aliquota media dell’Irpef è crescente nel reddito. Si tratta di un principio di equità ben noto e generalmente accettato: contribuenti più ricchi devono trasferire una quota maggiore del proprio reddito allo stato. Peccato però che riguardi solo i redditi da lavoro dipendente (e assimilati), che infatti costituiscono l’85 per cento della base imponibile dell’Irpef. Gli altri redditi sono in larghissima misura sottratti alla base imponibile dell’Irpef e tassati a parte, con aliquote proporzionali, compresi i redditi degli autonomi che hanno optato per la flat tax. Significa che, almeno in qualche misura, i maggiori redditi ottenuti dai lavoratori dipendenti nel 2024 sono stati tassati ad aliquote medie più elevate che nel 2023. Non è però possibile stabilire quanto al fenomeno abbiano contribuito i nuovi occupati, visto che non è noto a che stipendio in media siano stati assunti. Sicuramente l’aumento dei redditi degli occupati già esistenti, dovuto ai rinnovi dei contratti, ha innalzato l’aliquota media rispetto al 2023, contribuendo quindi a un incremento della pressione fiscale media sul reddito da lavoro dipendente.
A questo fenomeno, per un certo senso ovvio, se ne aggiunge però un altro che ha un po’ il sapore della beffa. Negli anni dello shock inflazionistico, nel 2022 e nel 2023, a differenza che nel 2024, la quota dei profitti sul Pil è cresciuta, mentre si è ridotta quella dei salari. La ragione è che le imprese (e i lavoratori autonomi) sono riuscite a scaricare in avanti l’aumento dei costi, praticando prezzi più elevati e dunque difendendo i propri redditi reali. I dipendenti, vincolati a contratti firmati in passato, hanno invece visto una decurtazione del loro potere d’acquisto. Il fisco non se ne è accorto e ha continuato a tassare i redditi nominali alle usuali aliquote, senza tener conto del fatto che in termini reali contavano di meno. Questo ha generato il fenomeno del fiscal drag, di cui si è già discusso. In seguito, però, i contratti, e in misura diversa a seconda dei settori e della forza contrattuale dei sindacati, sono stati rivisti gradualmente al rialzo per compensare i lavoratori per la perdita di potere d’acquisto subita nel 2022-2023.
È dunque assai probabile che una parte dell’incremento salariale del 2024 sia dovuto al recupero di potere d’acquisto. Ma per il fisco questo non conta e gli incrementi salariali sono tutti conteggiati come incrementi di reddito effettivo e tassati ad aliquota superiore.
Spiegato l’arcano della crescita della pressione fiscale nel 2024, resta un po’ di amaro in bocca.
*L’articolo è stato pubblicato in contemporanea su Il Foglio.
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