Stati Uniti, i veri obiettivi dei dazi di Donald Trump

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Il primo traguardo delle misure commerciali del presidente Usa non è né di tipo economico né commerciale, piuttosto riguarda una proiezione di potenza. Il professor Sapelli: Trump interpreta “la rivolta del popolo comune”, tradizionalista, conservatore e che vuole tornare “a incarnare il sogno americano”. I timori di Confindustria, Alessandro Fontana: “Le vendite di beni italiani negli Usa sono state pari a circa 65 miliardi di euro nel 2024, oltre un decimo del totale dell’export”

Guglielmo Gallone – Città del Vaticano

Il primo obiettivo dei dazi di Donald Trump non è l’economia e neanche il commercio, bensì la proiezione di potenza. Cioè, la possibilità di promettere una forte reindustrializzazione sul fronte interno e di ottenere vantaggi negoziali sul fronte estero. È questa la teoria esposta da Giulio Sapelli, professore di Storia economica ed Economia politica nelle università europee e delle due Americhe, parlando ai media vaticani.

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Ascolta l’intervista con Giulio Sapelli

Un problema antico

Di certo, sebbene i dazi vengano applicati per favorire la nascita di un’industria già presente all’estero, per difendere la produzione nazionale dalla concorrenza sleale oppure per stimolare la reindustrializzazione di determinati settori, nella loro ricorrente presenza nel corso della storia raramente i dazi si sono limitati ad essere meri strumenti economici o commerciali. Si pensi allo Zollverein, l’unione doganale tedesca elaborata da Friedrich List e attuata nel 1834 per migliorare il flusso commerciale tra i 39 Stati della Confederazione e indebolire l’Impero austriaco: alcuni storici la pongono alla base, insieme agli sforzi compiuti da Otto von Bismarck, dell’unificazione tedesca datata 1871. Allo stesso modo, furono i dazi, imposti dalla Gran Bretagna sugli articoli stampati e sul té nelle colonie americane, ad alimentare la necessità di indipendenza nel Nord del continente.

Alle radici della globalizzazione

Anche oggi i dazi promossi dal presidente Usa raccontano molto del “cambiamento d’epoca” — usando una definizione cara a Papa Francesco — di fronte al quale ci troviamo. E, prosegue il professor Sapelli, sono «legati all’avvento di quella che comunemente è chiamata globalizzazione. Questo enorme processo di centralizzazione capitalistica e finanziaria, sancito nel Salone dei Cinquecento a Firenze nel 1999 —dove si riunirono i presidenti degli Usa Bill Clinton, del Brasile Enrique Cardoso e i quattro capi di governo europei Lionel Jospin, Tony Blair, Gerard Schroeder e Massimo D’Alema — ebbe come effetto principale quello di incentivare una deindustrializzazione che, nel caso degli Usa, già esisteva. Pensate al film “Il cacciatore” del 1978 in cui si racconta la vita nella rust belt, la cintura della ruggine che attraversa Pennsylvania, Virginia, Ohio e Illinois alle prese con un forte declino industriale».

Il malumore americano

Con la delocalizzazione nei Paesi più poveri e con la crescente centralità dei servizi, la globalizzazione ha solo accelerato questi processi, creando però non pochi malumori sul fronte interno. Il presidente Usa, prosegue il professor Sapelli, «sta interpretando la rivolta del popolo comune, le esigenze di imbianchini, operai o saldatori che lavorano, sono tradizionalisti, conservatori e vogliono tornare a incarnare il sogno americano. Certe ambizioni sono ancor più forti oggi, di fronte all’era di contrasti imperialistici in cui persino la conquista territoriale è tornata ad essere centrale. Entro questa logica di potere tra Stati vanno letti i dazi di Trump. Economicamente non servono a niente e rischiano di alimentare inflazione. Basterebbe leggere Paul Krugman per sapere che il commercio si fa con le filiere, col tessuto industriale, non coi dazi».

I timori delle imprese secondo Confindustria

Se l’obiettivo è imperialista e non economicista, il solo annuncio di certe misure preoccupa però gli imprenditori. Su tutti quelli italiani, come sottolinea ai media vaticani Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi di Confindustria, perché «gli Usa sono la prima destinazione extra-europea di prodotti italiani, la seconda in assoluto dietro la Germania e la prima destinazione degli investimenti italiani diretti all’estero. Le vendite di beni italiani negli Usa sono state pari a circa 65 miliardi di euro nel 2024, oltre un decimo del totale dell’export. Questa preoccupazione è poi legata a una certa confusione, che è il peggior nemico delle imprese. E oggi di confusione ce ne è tanta. Se pensiamo al caso di Canada e Messico, non si capisce quando e se i dazi partiranno né cosa riguarderanno». A questo si aggiunge un problema tutto europeo: se a gennaio il valore del cambio euro-dollaro sfiorava la parità, ora è 1.09. Questo significa che per gli americani le merci europee stanno già costando di più. E la necessità di aumentare la produzione interna per evitare costi più alti potrebbe emergere ancora più forte. «Ma questo avveniva già con i sussidi e gli aiuti di Stato varati da Biden — riprende Fontana —, ora l’utilizzo dei dazi da parte di Trump ci fa capire che la sua seconda amministrazione sarà più aggressiva e imprevedibile. Da anni gli obiettivi di simili misure travalicano l’ambito commerciale: gli Usa vogliono ridurre le dipendenze dall’estero, difendere l’industria e rafforzare la leadership tecnologica».

Ascolta l’intervista con Alessandro Fontana

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Conseguenze per l’Europa

Una sfida che, di riflesso, suona l’allarme nel Vecchio Continente dove, riprendendo il professor Sapelli, «s’aggira uno spettro: quello dell’Unione europea. Che, terrorizzata, sta correndo ai ripari su tutto e lo sta facendo in modo molto confusionario. Discute di contromisure ai dazi americani non sapendo che i dazi servono a pochissimo. Anziché sforzarsi di entrare nei negoziati per la pace in Ucraina, si sta riarmando senza seguire alcun criterio comunitario perché, per farlo, dovrebbe riscrivere il trattato di Maastricht. Il rischio è di rimanere ancor più isolata e schiacciata di quanto già non lo sia. Non solo sul piano politico — cosa che avviene da anni — ma pure su quello economico».



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