Libro Verde: le scelte sbagliate della politica industriale del Governo

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Nell’ottobre scorso, presso la sede del Consiglio Nazionale dell’Economia e del (CNEL), il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha presentato il Libro Verde per una nuova strategia di politica industriale dell’Italia. Si tratta di un documento che, come ha spiegato il ministro «delinea la politica industriale che intendiamo sviluppare nei prossimi cinque anni, con uno sguardo esteso al 2050, tenendo conto di quello che sono le caratteristiche e le priorità del nostro Sistema Paese, e che indirizzi al meglio le risorse pubbliche per affrontare e superare le sfide della triplice transizione, ecologica, digitale e geopolitica» [1].

Finalmente, si potrebbe dire, si aprono nuove aspettative su quelle che saranno le scelte per una nuova politica industriale italiana che, da quanto risulta dal testo ministeriale, tenderà a convergere su tre obiettivi chiave e cioè la transizione verde, quella tecnologica, e la completa decarbonizzazione degli impianti. In questo scenario, il documento propone obiettivi per ridare centralità al settore manifatturiero, ridurre i costi energetici e promuovere la collaborazione tra Stato e imprese e, con molta enfasi, viene evidenziata la necessità di una politica industriale che supporti settori strategici come siderurgia, auto motive, difesa, spazio e mare.

Insomma, dopo più di un quarto di secolo di assenza di un vero piano industriale, assenza alla quale si può imputare anche parte dell’attuale degrado e declino dell’industria italiana, verrebbe quasi la voglia di celebrare il momento.  Purtroppo il tanto atteso Libro Verde non ci concede di farlo pienamente e con convinzione. Sebbene sia possibile prendere atto del «gradito ritorno» della mano pubblica come guida nella competizione economica – il ministro Urso ha parlato addirittura di «Stato stratega»  – dominata selvaggiamente dalle mai calmierate regole di mercato, destano preoccupazione se non incredulità, le scelte con le quali si vogliono raggiungere gli obiettivi ricordati.

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Ha senso puntare sul per generare energia elettrica? E dove va ricercata la logica che tenderà, per il settore automobilistico, a sostituire i carburanti più inquinanti con i biocarburanti e i carburanti sintetici?

Nel primo caso, è ormai noto un po’ a tutti che i famosi «piccoli» reattori di nuova generazione, gli Small Modular Reactor (SMR), sono ancora da considerare fra gli strumenti più costosi con la conseguenza che il costo dell’elettricità, generata dalla fonte nucleare, è di molto maggiore dei costi ad esempio delle rinnovabili. Ad esempio, come evidenzia lo studio predisposto da Alleanza Clima Lavoro – un tavolo permanente di confronto al quale aderiscono tra gli altri Campagna Sbilanciamoci!, FIOM Cgil, Kyoto Club, Legambiente e WWF Italia – «Il costo industriale stimato dal governo inglese per il nucleare, basato sui costi assunti per Hinkley Point, più bassi rispetto alle spese reali, sono quasi il triplo di quello valutato per il solare a scala industriale in un Paese molto meno soleggiato del nostro», concludendo che «coloro che continuano a parlare di elettricità generata dalle rinnovabili come più costosa di quella generata dalle centrali nucleari o sono in malafede, e ricorrono ad una pubblicità ingannevole per promuovere le centrali nucleari, oppure non sono aggiornati: sono fermi a 15 anni fa, quando effettivamente l’elettricità generata dalle centrali nucleari costava meno di quella generata dal solare e dall’eolico» [2].

Non solo, ma risulta difficile credere che gli esperti del ministero delle Imprese e del Made in Italy abbiano potuto sorvolare su uno degli aspetti forse più critici legati ai reattori nucleari e cioè gli alti costi di gestione dei rifiuti radioattivi. Solo per dare le dimensioni del problema, lo smantellamento, ad esempio, di centrali nucleari anche di dimensioni contenute in ampiezza e in quantità di scorie, prevede costi elevati e tempi di esecuzione molto lunghi. Sebbene non esistano stime attendibili e verificate di queste cifre, un documento ufficiale richiesto dalla Commissione Europea ad uno staff di esperti, e discusso nel Parlamento di Bruxelles, da titolo inequivocabile, Inventario aggiornato sulle scorie radioattive e i suoi costi. Prospettive future, ci fa sapere che «in Europa, la più recente stima del 2019 del costo previsto di gestione delle scorie, escluso lo smantellamento delle centrali, è nell’intervallo 422—566 miliardi di euro» [3]. Ogni commento credo sia superfluo.

C’è da ricordare che gli indirizzi strategici verso questo nuovo avvicinamento alla politica industriale contenuti nel Libro Verde vengono raggruppati ed individuati in 15 distinti obiettivi, e tra questi quello sul quale penso corra l’obbligo di soffermarci per la sua criticità riguarda lo sfruttamento delle risorse marine attraverso l’estrazione mineraria nei suoi fondali, tecnica conosciuta come Deep Sea Mining.

Questo è un argomento estremamente delicato per l’equilibrio ambientale che bisognerà a tutti i costi garantire come uno dei beni più preziosi. A ricordarcelo è Pierroberto Folgiero, Amministratore delegato di Fincantieri, il quale pur ammettendo che «sott’acqua sarà quello che era lo spazio 40 anni fa», lancia un pesante monito ad azioni indiscriminate nei fondali ricordando che «siamo molto seri riguardo all’aumento delle capacità sottomarine perché crediamo che il nostro Paese [l’Italia] dovrà prendersi cura del Mar Mediterraneo. Nelle acque attorno all’Italia, ci sarà sempre più congestione … per l’immigrazione, per i sottomarini russi, per i cavi, per i fondali marini, per l’estrazione mineraria dei fondali marini» [4]. Non sono queste frasi di circostanza anche perché è noto che le industrie interessate alle materie prime, custodite nei fondali del Mediterraneo e necessarie per la “doppia transizione” ecologica e digitale, sono infatti molte: si va dalla difesa all’elettronica, dall’automotive al navale, e già nel 2017 addirittura la «Assorisorse», l’associazione di Confindustria per le aziende del settore minerario, geotermico e di idrocarburi, aveva diffuso alla Conferenza e alla Mostra Offshore Mediterraneo di Ravenna un documento, in cui si parlava della necessità di «estrarre i minerali in modo responsabile e sostenibile per garantire alla nostra generazione e a quelle future i materiali necessari per la vita quotidiana» [5].

Se come appare da queste precise prese di posizione di importanti operatori del settore, la Deep Sea Mining sia materia da trattare con estrema cautela, perché allora nel Libro Verde viene praticamente concessa mano libera alle grandi aziende come Stellantis, Leonardo, MSC Crociere, Saipem, di operare sostanzialmente senza controlli e alcun riguardo verso i fondali marini? Perché il ministro Urso adopera il termine «dominio dello Spazio e del Mare»? Quel termine fin troppo riecheggiante gli slogan di una conquista coloniale, poco riesce ad abbinarsi ad una equilibrata scelta di sviluppo. Forse per svelare questo segreto e togliere la maschera dell’ipocrisia al ministro Urso, è bastato un accurato lavoro di ricerca effettuato da Greenpeace Italia dove si evidenzia che nessuna delle big della transizione ecologica e digitale, nonché del settore della difesa, fa esplicita menzione nei propri report del termine  «sostenibilità».

«I riferimenti del capo di gabinetto del MIMIT a un maggior coinvolgimento delle imprese italiane sul DSM (Deep Sea Mining, ndr), anche nell’ottica di “un futuro inserimento di queste attività nel Piano Mattei per l’Africa recentemente approvato dal governo italiano”, lasciano intendere che una delle aree potenzialmente interessate dall’estrazione mineraria in acque profonde possa essere proprio il Mediterraneo. Dove, vale la pena ricordarlo, si affaccia non solo l’Italia ma anche alcuni dei Paesi dell’Africa del Nord con cui l’Italia intrattiene già notevoli rapporti commerciali, orientati soprattutto alle energie fossili, Algeria (attualmente il maggior fornitore di gas dell’Italia, dati MASE), Tunisia, Libia ed Egitto» [6]. Quindi, come si può difendere il mare se si apre indiscriminatamente alle estrazioni minerarie nei fondali, cioè ad una delle attività più impattanti e deleterie per mantenere una stabilità dell’eco sistema? Questo il Libro Verde non lo dice.

Ma ancora preoccupanti lacune si rintracciano nelle soluzioni che si intenderebbe adottare anche negli altri obiettivi definiti strategici che trovano spazio nel Libro Verde. Fra questi, direi giustamente, viene annoverato quello di creare nuove condizioni affinché si possano aumentare i livelli occupazionali, la retribuzione e i redditi da lavoro.
«Questo problema è legato soprattutto alla scarsa produttività e ad un mercato del lavoro poco flessibile, per cui le imprese hanno difficoltà ad alzare gli stipendi senza un aumento effettivo della produttività. Il basso livello salariale rappresenta un ulteriore fattore di debolezza in un mercato unico del lavoro, perché i lavoratori qualificati preferiranno mansioni maggiormente retribuite all’estero, riducendo il processo di accumulazione del capitale e producendo gravi costi per la collettività» [7]. Questo si legge nel Libro Verde, dove certo si riconosce senza mezzi termini la gravità del problema, ma allo stesso tempo è anche evidente e riconoscibile la «cultura» che spinge a semplificare e confondere causa con effetto. Salari bassi causa scarsa produttività.
Un assioma unilaterale, che non prende in considerazione l’altro aspetto del problema e cioè che con una migliore e più adeguata retribuzione, magari anche con una profonda revisione delle dinamiche salariali, la produttività ne beneficerebbe. Inoltre per quello che riguarda la poca flessibilità del lavoro evidenziata dal ministro Urso, viene giustamente notato «come le riforme susseguitesi nel nostro Paese a partire dagli Novanta – dal Pacchetto Treu al Decreto Poletti, fino al Jobs Act – siano andate tutte nella medesima direzione di flessibilizzare e deregolamentare il mercato occupazionale (producendo peraltro effetti trascurabili sull’aumento dell’occupazione). Il risultato è che in Italia il lavoro non è mai stato così precario come è oggi. Si tratta di una tendenza che riguarda del resto tutte le economie avanzate, come certificato dagli indicatori sintetici sulla rigidità della legislazione sulla protezione del lavoro elaborati dall’OCSE» [8].

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A tutto ciò occorre aggiungere il problema del rinnovo dei CCNL scaduti, che riguarda ad oggi oltre cinque milioni di lavoratori dipendenti.

L’ultimo degli obiettivi da raggiungere sul quale è opportuno soffermarci, riguarda il comparto della Difesa. Questo notoriamente è sempre stato in Italia un settore estremamente sviluppato e diversificato, comprendendo aziende attive in una vasta gamma di sottosettori che vanno dalla progettazione e produzione di aerei, elicotteri, unità navali, mezzi terrestri e sistemi d’arma di altro tipo, ai sistemi satellitari e di lancio, alla fornitura di componenti e servizi. Questa realtà è riportata nel «Libro Verde» con un certo orgoglio tanto che  «Gli attori di questo settore, uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy, sono fra i più significativi di tutto il panorama della manifattura avanzata nazionale e offrono un contributo importante in termini di fatturato (17 Mld € circa in base alle ultime rilevazioni) e livelli occupazionali (52.000 addetti, che con l’indotto superano i 200.000), all’economia nazionale»[9].

Quindi l’industria della Difesa, nel suo complesso, viene vista come un asset altamente strategico tant’è che non si fa mistero di rafforzare il vincolo di collaborazione fra le imprese vocate alla Difesa e quelle civili che producono materiali ad alto contenuto tecnologico. Come abbiamo ricordato in un precedente nostro articolo, già in questi primi mesi la spesa militare italiana per il 2025 ha raggiunto la cifra record di 32 miliardi di euro, con un aumento del 12,4% rispetto al 2024. Nell’ultima legge di Bilancio per il periodo 2025-2027 è prevista una spesa vicina ai 40 miliardi, da spalmare in tre anni, solo per i c.d. sistemi d’arma che sono l’associazione tra un’arma vera e propria (cannone, mitragliatrice, missile) e un dispositivo che lo serve (ad esempio un radar) per migliorarne le prestazioni di fuoco. Puntare sullo sviluppo industriale del Paese incrementando l’industria delle genera non solo problemi etici ma vuole essere quasi una scappatoia alla soluzione del problema sicurezza che invece andrebbe affrontato in maniera indubbiamente più articolata e lunga, imbastendo accordi politici e diplomatici saldi, nonché iniziative utili a prevenire il possibile inizio di conflitti. E’ una strada lunga e difficile e le armi non possono certo aiutarci.

Ora le proposte contenute nel Libro Verde sono a disposizione degli investitori pubblici e delle aziende che, ci auguriamo, possano portare correttivi e contributi per un deciso miglioramento delle modalità di sviluppo del nuovo piano industriale. Proposte che dovranno poi confluire nel Libro Bianco del Made in Italy 2030. Intanto la società civile si sta organizzando, e per il 13 e 14 marzo si svolgerà a Torino il convegno nazionale di Alleanza Clima Lavoro che affronterà i temi della politica energetica per in nostro Paese unitamente agli sviluppi degli altri settori come l’automotive per concludere con la definizione delle azioni da intraprendere nelle sedi di Bruxelles e Strasburgo, sede del Parlamento europeo.
Stefano Ferrarese

[1] Valentina Innocente, https://geagency.it/politica/urso-lancia-libro-verde-per-politica-industriale-al-2030-stato-come-stratega/, 16 ottobre 2024
[2] https://sbilanciamoci.info/wp-content/uploads/2025/01/RAPPORTO-I-COSTI-DEL-NUCLEARE.pdf, pagina 5, 5 marzo 2025
[3] https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=SWD:2019:0436:FIN:EN:PDF, 17 dicembre 20219
[4] Aaron Mehta, https://breakingdefense.com/2024/04/fincantieri-ceo-looks-to-tap-growing-undersea-market/, 5 aprile 2024
[5] https://www.assorisorse.org/wp-content/uploads/2020/07/0_Minerali-per-Lindustria-2017_web.pdf, prefazione, pag. 2, 5 marzo 2025
[6] https://sbilanciamoci.info/wp-content/uploads/2025/01/aziende-italiane-e-deepseamining_media-briefing.pdf, pag. 16, 6 marzo 2025
[7] https://www.mimit.gov.it/images/stories/documenti/allegati/Libro_verde_finale_2_2.pdf, pagg. 100-101, 6 marzo 2025
[8] https://sbilanciamoci.info/wp-content/uploads/2025/01/Sbilanciamoci_Nota-sulla-politica-industriale_Mimit-2025.pdf, pag. 4, 6 marzo 2025
[9] https://www.mimit.gov.it/images/stories/documenti/allegati/Libro_verde_finale_2_2.pdf, pag. 125, 6 marzo 2025

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