Il disastro ecologico di Baia Mare, il peggior incidente industriale europeo dopo Chernobyl

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Credit: Délmagyarország/Karnok Csaba, CC BY–SA 3.0

Sono trascorsi 25 anni da un incidente industriale forse poco conosciuto, ma che come gravità è superato in Europa soltanto dal disastro di Chernobyl: era il 30 gennaio 2000 quando un bacino contenente fanghi altamente inquinanti crollò nei dintorni di Baia Mare (Frauenbach in tedesco), cittadina mineraria della Romania Occidentale, avvelenando ettari di terreno prima di riversarsi inizialmente nel fiume Săsar. L’avanzata dei veleni, costituiti soprattutto da cianuro e metalli pesanti come zinco e rame, raggiunse il fiume Tisza entrando in territorio ungherese e confluendo nel Danubio. Seguendo il suo corso arrivò a inquinare le rive dei Paesi che attraversava, fino a tornare in Romania e lambire l’Ucraina alla foce sul Mar Nero. Tra le cause dell’incidente, carenze strutturali e la mancanza di controllo dei livelli del bacino di contenimento dei fanghi, unito alle eccessive precipitazioni. Nonostante venga ricordato come il peggior incidente industriale europeo dai tempi di Chernobylquesto disastro ha contribuito a strutturare norme europee più restrittive per i siti industriali.

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Le attività minerarie della Aurul e lo sversamento di Cianuro

L’area di Baia Mare e il nord-ovest della Romania hanno una secolare tradizione mineraria, particolarmente dopo la seconda guerra mondiale e lo sviluppo dell’industria locale. Al termine degli anni ’90, la joint venture Romeno-Australiana Aurul si interessò alla possibilità di sfruttare il materiale di lavorazione accumulato nei decenni da queste industrie: si trattava di scarti contenenti frazioni di oro ma difficilmente lavorabili, detto “tailings”.

La cittadina di Baia Mare (Credits: POPOVIC Dan Cristian, Wikimedia Commons, CC BY–SA 3.0)

Nel maggio 1999 l’azienda avviò il trattamento degli scarti utilizzando del cianuro, tecnica in grado di estrarre l’oro rimanente: i fanghi prodotti da questa lavorazione ulteriore venivano poi convogliati in un apposito bacino nelle campagne della vicina Bozinta Mare.

Appena 8 mesi dopo l’inizio delle attività, il 30 gennaio, le pareti del bacino di raccolta crollarono. I fanghi si sparsero prima di tutto nei terreni circostanti e in piccoli fiumi della regione (il Săsar, che sfocia nel Lăpuș e da questo nel Someș), per poi essere trasportati fino al fiume Tisa/Tizsa, un corso di maggior dimensione che sconfina in Ungheria confluendo infine nel Danubio, dal quale andò a inquinare le rive di tutti i Paesi attraversati: l’Ungheria stessa, la Yugoslavia (territori Serbi della federazione Serbo-Montenegrina, poi dissolta) e la Bulgaria, per tornare in Romania e lambire l’Ucraina alla foce sul Mar Nero.

Le cause del crollo e la risposta europea

Sotto accusa dalle autorità Ungheresi, la compagnia Aurul si difese incolpando le eccessive precipitazioni: successive indagini dimostrarono però carenze nella costruzione del bacino di raccolta e mancanze organizzative, come l’assenza di un monitoraggio dei livelli del bacino. Appena 5 settimane dopo, un secondo incidente coinvolse gli stabilimenti di estrazione di Baia Borsa, sempre in Romania, in seguito a una nuova ondata di precipitazioni.

I due ravvicinati incidenti, uniti allo sversamento avvenuto un paio di anni prima ad Aznalcóllar in Spagna (1998), influirono sull’introduzione di norme più restrittive per i siti industriali Europei: nel 2001 furono varate proposte di modifiche alla cosiddetta Direttiva Seveso II, che verrà poi rimpiazzata nel 2003 dalla più recente 2003/105/CE attualmente in vigore.

Le conseguenze per gli habitat e gli esseri umani

I fanghi contenevano metalli pesanti, inquinanti già presenti nei fiumi locali a causa delle storiche attività minerarie, ma l’impatto maggiore fu certamente quello del cianuro.

Le concentrazioni rivelate furono di 50 mg/l nel fiume Lăpuș, 2 mg/l nel tratto Yugoslavo (Serbo) della Tizsa. Perfino al delta del Danubio, 2000 km a valle del luogo dell’incidente, si vennero misurati livelli di cianuro di 0,05 mg/l (50 μg/l). Per dare una idea della portata del disastro, quest’ultimo è il valore massimo previsto per una acqua potabile dalla legge Italiana: dopo il disastro di Baia Mare, per centinaia di km lungo i fiumi precedenti, i valori oscillarono quindi tra 40 e 1000 volte questo limite.

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Queste altissime concentrazioni di cianuro causarono la morte di 1241 tonnellate di pesce nella sola Ungheria, avvelenando o uccidendo inoltre di migliaia di animali predatori (come cigni e oche, volpi, lontre…) lungo le rive dei fiumi.

Il livello di devastazione degli habitat fu anche peggiore di quello dell’ultimo grande disastro nell’Est Europa, quello della centrale di Chernobyl, ma con effetti fortunatamente ridotti nel tempo: se nel 2000 alcuni studi registrarono solamente 63 esemplari da 12 specie di pesce nel fiume Someș, già nel 2004 si è tornati a più di 4000 individui di 23 specie diverse.

L’impatto sulle comunità fluviali fu comunque enorme, a partire dai divieti di pesca all’impossibilità di utilizzo delle acque sotterranee a contatto con le acque dello Tisza e del Danubio: questi fiumi, i più grandi dell’Ungheria, erano all’epoca fonte di acqua potabile per 2,5 milioni di cittadini e fonte di reddito per 15.000 pescatori.





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