come un mito ha plasmato la vita delle donne – Filosofemme

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Come succede per altri due grandi miti legati alla vita delle donne, ovvero quelli della femminilità e della bellezza, anche la mistica della maternità, pur essendo sbagliata e dannosa, ha messo radici molto profonde.

Tuttavia, quando nel 1981 Elisabeth Badinter pubblica L’amore in più (1) porta avanti una lotta che, se non riesce a estirpare completamente il mito dell’amore materno spontaneo, quantomeno lo fa barcollare.

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Per l’autrice l’istinto materno non è un sentimento proprio di ogni donna, ma è qualcosa in più: «[…] può esistere o non esistere; esserci e sparire. Rivelarsi forte o fragile. Privilegiare un bambino o comprenderli tutti» (2).

Quella di Badinter non è semplicemente un’opera che si limita ad analizzare la mistica della maternità affrontandola da un punto di vista filosofico e morale, ma è il risultato di un seminario durato due anni all’École polytechnique in cui l’autrice ha riportato dati e statistiche attraverso un’indagine storica di quella che è stata la maternità in Francia dal XVII secolo fino alla fine del XX, periodo in cui il libro è stato pubblicato.

Badinter individua la fine del Settecento come una data spartiacque, che permette di tracciare un prima e un dopo del mito dell’amore materno e dimostra come la sua concezione odierna sia solo il risultato di una rivoluzione del pensiero avvenuta molto tempo fa.

Nel XVI secolo teologi e pedagoghi «raccomandavano ai genitori la freddezza verso i figli e li mettevano continuamente in guardia contro la malvagità innata nei bambini che sarebbe stato colpevole incoraggiare» (3).

Tra questi si distingue il predicatore spagnolo Juan Luis Vives, che nel suo L’Éducation de la femme chrétienne (4) accusa severamente le donne per la tenerezza e la cura che riservavano ai loro figli e alle loro figlie.

Secondo l’autore, infatti, queste eccessive attenzioni li avrebbero condannati a un destino di vizi e debolezze.

Vives e i suoi contemporanei si sono scagliati contro un comportamento materno affettuoso che all’epoca era molto diffuso e che le madri di un secolo più tardi sembreranno dimenticare totalmente. Nonostante la parola degli intellettuali avesse un peso non indifferente sull’opinione pubblica, sarebbe ingenuo credere che questa bastasse a influenzare il comportamento dei genitori nei confronti dellǝ propriǝ figliǝ. Questo è ancora più vero se si tiene conto di come teologi e intellettuali si rivolgessero alle classi colte e tralasciassero quindi una grossa fetta di popolazione.

Tuttavia, ciò che in quegli anni accomunava classi povere e ricche, seppur per motivi differenti, era ritenere che lǝ bambinǝ fosse un peso.

Si pensi per esempio alle contadine che dovevano accudire unǝ neonatǝ e allo stesso tempo dedicarsi alle faccende domestiche e al lavoro nei campi, sforzi difficilissimi da coordinare. Certamente in un futuro quellǝ bambinǝ si sarebbero trasformatǝ in braccia utili per la sopravvivenza della famiglia, ma nei suoi primi anni di vita rappresentavano una bocca in più da sfamare e richiedevano cure che necessitavano di tempo e denaro.

Per questo motivo, spesso le famiglie più bisognose erano costrette a condannare lǝ neonatǝ a una fine crudele, liberandosene, abbandonandolǝ in un ospedale oppure affidandolǝ a una balia. Per quanto possano sembrare opzioni dignitose, si deve ricordare che all’epoca entrambe significavano morte certa per lǝ bambinǝ (4).

Tuttavia, le madri costrette per ragioni economiche a separarsi per sempre dallǝ propriǝ figliǝ ancora in fasce non possono essere oggetto di biasimo, poiché «erano ridotte a un tale stato di miseria fisica e morale che viene da chiedersi come avrebbero potuto affrontare un altro sacrificio vitale» (5).

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È quindi comprensibile che in questi casi l’istinto di sopravvivenza avesse la meglio su quello materno.

Ma un’indagine completa e veritiera sull’innatismo dell’istinto materno non può limitarsi a prendere in considerazione solo situazioni di indigenza, in quanto è «soltanto partendo da donne che erano libere di scegliere [che] possiamo concretamente interrogarci sulla spontaneità dell’amore materno» (6).

Infatti, anche le donne aristocratiche, che nel XVIII secolo prendono il nome di précieuses e la cui ricca condizione economica avrebbe permesso loro di crescere lǝ propriǝ figliǝ nel privilegio, ricorrevano all’abbandono della prole.

Si pensi che la pratica del baliatico (7) inizialmente veniva utilizzata solo dalle famiglie abbienti, aspetto che Badinter considera la prima tra le prove dell’indifferenza materna. In generale, infatti, le donne più benestanti si rifiutavano di allattare lǝ  propriǝ bambinǝ, sia poiché sostenevano che questo avrebbe avuto ripercussioni estetiche (es. deformazione del seno), sia perché subivano le pressioni di una società che sconsigliava loro di farlo, considerandolo un compito ignobile e poco decoroso.

Tra le altre prove dell’indifferenza materna l’autrice inserisce la mancanza di segni evidenti di dolore qualora lǝ bambinǝ perdesse la vita (i genitori non presenziavano neppure al funerale) o dell’iscrizione dei ragazzi e delle ragazze nei collegi o nei conventi per la loro formazione. Questi erano istituti in cui entravano verso i sette anni e da cui uscivano molto tempo dopo e avendo ricevuto pochissime visite e lettere da parte dei genitori.

In altre parole, «secondo l’ideale mondano del tempo nulla è considerato meno elegante che mostrare un eccessivo attaccamento ai figli e rinunciare al proprio prezioso tempo per loro» (8).

Tutto questo sta a significare che «quando la madre non subisce nessuna pressione, agisce secondo la propria natura, che è egoista, e non sotto l’impulso di un istinto che le comanda di sacrificarsi per il bambino che ha appena messo al mondo» (9).

Le précieuses adottavano quindi un comportamento che si distingueva per la sua ostilità verso la maternità: quest’ultima non era motivo di vanto, ma rappresentava tutto ciò che le avrebbe condannate a una vita infelice e priva di libertà.

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Si trattava di donne avide di sapere, femministe autodidatte e inconsapevoli, non disposte al sacrificio materno e alla rinuncia delle briciole di un sapere maschile a cui avevano accesso solo partecipando a cene importanti e a balli sfarzosi.

La mancanza di senso di colpa assoluta nelle madri aristocratiche è destinata a resistere fino alla metà dell’Ottocento, motivo per cui le interlocutrici a cui si rivolgerà il mito della “nuova madre” (10) nel Settecento saranno le madri borghesi.

Questa rivoluzione dell’istinto materno prende piede verso la metà del secolo e presenta due motivazioni che secondo Badinter portano allo stravolgimento delle convenzioni e al conseguente ritorno al centro dell’attenzione dellǝ bambinǝ.

La prima ragione è di natura economica e consiste nella presa di consapevolezza dell’importanza che assume ogni nuova vita per lo Stato: la demografia inizia a essere lo strumento attraverso cui misurare la potenza di una nazione e di conseguenza ogni nasciturǝ diventa una «ricchezza potenziale» (11) che in futuro collaborerà per la produttività e la difesa dello Stato stesso.

L’argomento economico non è però abbastanza forte per convincere le donne, soprattutto se si tiene conto di quanto fosse una disciplina lontana dal loro sapere e interesse.

È a questo punto che entra in scena la filosofia illuminista, che con i suoi principi di amore, uguaglianza e felicità fa leva sulla parte emotiva delle donne e al contempo le illude di essere essenziali per la società francese.

Nasce così il sopracitato mito della “nuova madre”, ovvero di una donna che vede nella maternità la possibilità di emanciparsi attraverso una serie di nuove responsabilità.

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Infatti, a queste donne non viene chiesto semplicemente di accudire lǝ propriǝ figliǝ, ma anche di educarlǝ a diventare cittadinǝ modello. Quello di cui le madri non si rendono conto è che la nuova funzione di “madre maestra” (12) altro non è che uno stratagemma per ritenerle responsabili di tutti i comportamenti non esemplari adottati dalla prole.

Persino la causa dei comportamenti criminali è da attribuire a un deficit educativo (e quindi alla madre).

Ne Il mostruoso femminile (13) Sady Doyle scrive che «il fatto è che per il patriarcato la madre cattiva è l’asso nella manica, l’ultimo appiglio a cui aggrapparsi: spostando la responsabilità della violenza maschile indietro di una generazione, fa delle donne, che sono sue vittime, le vere colpevoli» (14).

La donna che si rifiuta di tornare alla cosiddetta “legge di natura”, cioè alla sua funzione di madre, e che non si sente soddisfatta nel vivere una vita per gli altri, è un mostro, un errore della natura. Rousseau ne l’Emilio (15), attraverso la figura di Sofia, traccia il ritratto della donna perfetta, che deve essere debole, complemento dell’uomo, sempre pronta al sacrificio e dedita solo alla cura del focolare domestico.

Si tratta di una concezione della donna che nel Novecento verrà rinforzata dalla psicanalisi e che resiste ancora oggi come la principale immagine a cui le donne devono tendere.

Ma, al netto di tutto ciò, che significato ha credere nell’esistenza di un istinto materno che viene imposto e che non si manifesta universalmente?

«Invece di chiamarlo “istinto” non sarebbe più giusto parlare di una colossale pressione sociale esercitata per costringere le donne a realizzarsi soltanto nella maternità?» (16).

Note

1. E. Badinter, L’Amor en plus. Histoire de l’amour maternel (XVIIe-XXe siècle), 1980, trad. it. di Rosetta Loy, L’amore in più. Storia dell’amore materno, Roma: Edizioni Tlon, 2024.

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2. Ivi, p. 361. 

3. Ivi, p. 52.

4. Ivi, p. 70 

5. Ivi, p. 71.

6. Ivi, p. 73. 

7. Si tratta di una pratica che fa la comparsa in Francia già nel XII secolo e che nel Settecento diventerà un fenomeno proprio di tutte le classi sociali urbane, anche delle più povere. Il baliatico consisteva nell’affidare lǝ propriǝ figliǝ a una donna più povera che quasi sempre si trovava costretta a scegliere tra l’allattare il proprio bambino o mettersi a servizio di una famiglia estranea pur di portare a casa qualche spicciolo.

8. Ivi, p. 79. 

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9. Ivi, p. 136. 

10. Ivi, p. 195. 

11. Ivi, p. 149. 

12. Ivi, p. 254. 

13. J.E.S. Doyle, Dead Blondes and Bad Mothers: Monstrosity, Patriarchy, and the Fear of Female Power, 2019, trad. it. di Laura Fantoni, Il mostruoso femminile, Città di Castello: 2021.

14. Ivi, p. 208. 

15. J.J Rousseau, Émile ou De l’éducation, citato in E. Badinter, op. cit. 

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16. Badinter, op. cit., p. 349. 

Bibliografia

E. Badinter, L’Amor en plus. Histoire de l’amour maternel (XVIIe-XXe siècle), 1980, trad. it. di Rosetta Loy, L’amore in più. Storia dell’amore materno, Roma: Edizioni Tlon, 2024.

J.E.S. Doyle, Dead Blondes and Bad Mothers: Monstrosity, Patriarchy, and the Fear of Female Power, 2019, trad. it. di Laura Fantoni, Il mostruoso femminile, Città di Castello: Edizioni Tlon, 2021.



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