Brescia
di ELISA GARATTI
09 mar 2025 17:19
Cosa rimane, dopo il carcere? In un mondo che vive nella paura e nel pregiudizio, che è punitivo e mai comprensivo, che condanna chi ha sbagliato all’ergastolo “a vita” negandogli una seconda opportunità, questa domanda risuona come un tuono in una notte buia e fredda. Quando un detenuto, che ha scontato regolarmente la sua pena, torna alla realtà, deve fare i conti con la solitudine, l’isolamento, lo stereotipo e, soprattutto, le difficoltà a trovare un lavoro e una casa. La strada per il riscatto, per la conquista dell’autonomia e dell’indipendenza, è un purgatorio, o forse un secondo inferno.
Opera segno. Proprio partendo da questa triste consapevolezza, la Diocesi di Brescia ha individuato in questa fragilità un’opera segno per l’Anno Giubilare. “Via dei Bucaneve, 25: la libertà trova casa” è un progetto dedicato al reinserimento nella comunità di persone che hanno terminato di scontare la loro pena. “Spesso, con le numerose opportunità legate alle misure alternative esterne, gli strumenti vengono offerti più a chi sta ancora scontando la pena rispetto a chi è uscito – spiega Isabella Belliboni, della Fraternità Tenda di Dio e vice presidente del Vol.Ca. (Volontariato Carcere) di Brescia -. Chi esce dal carcere rimane in balia della solitudine, della paura e delle difficoltà”. A partire dalla fase di ascolto delle priorità di chi vive e lavora in carcere, è stato individuato un bisogno: il binomio casa-lavoro per le persone a fine pena. Ecco perché la diocesi ha deciso di coinvolgere le parrocchie nella candidatura di spazi abitativi (il cui affitto viene pagato dai fine pena/ex detenuti in virtù del lavoro che, nel contempo, viene trovato loro, ndr). Non solo: “La diocesi ha deciso di investire su una figura responsabile di mediazione tra carcere e ricerca di una casa e un lavoro, che opererà in maniera integrata con Vol.Ca e Caritas Diocesana di Brescia, valorizzando le connessioni e le sinergie con il sistema produttivo – sono sempre le parole di Belliboni -. È una sperimentazione, è solo il primo di tre anni (durante questo periodo, la Fondazione Opera Caritas San Martino si impegnerà a garantire la copertura dei costi relativi all’assunzione della professionalità indicata, ndr).
La comunità diventa così protagonista di un’accoglienza importante, riuscendo al contempo a responsabilizzare la persona che ha compiuto un errore e ora ha bisogno di rimettersi in campo, dandogli fiducia e accompagnandolo passo passo per la sua piena autonomia.
Non solo: non tralascerei nemmeno il tema della famiglia, visto che, spesso, il carcere allontana dagli affetti. C’è tutto un percorso di ricostruzione e di riconciliazione da considerare. Ecco perché un passaggio necessario è aiutare le persone, laddove è possibile, a rientrare nel proprio contesto familiare e comunitario, per poter ripartire con fiducia. Il reinserimento della persona nella società potrebbe diventare anche una ricchezza e una testimonianza per la comunità”.
Scoprire il mondo del carcere. Ma questo progetto non è solo un aiuto al detenuto: con questa iniziativa vengono offerti degli strumenti alla comunità per comprendere e avvicinarsi ad un mondo, quello del carcere, che spesso fa paura. “Credo sia importante, soprattutto in questo anno Giubilare, accompagnare le comunità in questa ‘scoperta’, per ridurre la paura e dare le chiavi di lettura adeguate per capire il carcere – continua la vice presidente del Vol.Ca -. Non lasciamo solo nessuno, nemmeno le comunità: che sia il parroco, le associazioni o la comunità stessa, ognuno di loro ha bisogno di essere accompagnato”. Consapevolezze che derivano dalla sua ormai ventennale esperienza in carcere, come volontaria del Vol.Ca e come consacrata della Fraternità Tenda di Dio. “Con la Tenda di Dio, fin dall’inizio, è stato un servizio pastorale, legato all’animazione liturgica, per la catechesi e per la messa. Dopo poco, ho iniziato con l’attività dei colloqui personali. Sicuramente, è formativo. L’esercizio dell’ascolto è tutt’ora un’esperienza che mi mette continuamente in discussione: la persona mi consegna una parte della sua vita ed è molto bello. Quello che chiedono maggiormente i detenuti è essere visti, ascoltati, riconosciuti, ma anche responsabilizzati – conclude Belliboni -. Le tante situazioni vissute, il rapporto con i miei limiti e le mie fragilità di fronte ad altre storie di fragilità mi fanno sentire cambiata.
Avere una capacità di accogliere è una ricchezza.
Anche nei fallimenti, dentro ci si trova cambiati: si è un po’ più pazienti, un po’ più tolleranti e consapevoli che non si può risolvere i problemi di tutti. E poi ovviamente questa esperienza consente di avere uno sguardo più aperto e non settoriale”.
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