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«Solo chi ha il coraggio di fare una previsione può sbagliarla, sia ben chiaro, perché se uno non fa previsioni non sbaglia mai. Ma io dico che, a scanso di gravi imprevisti o eventi storici inattesi, il vicepresidente americano J.D. Vance sarà il presidente degli Stati Uniti dopo Trump per i successivi due mandati». Mauro della Porta Raffo parla a ragion veduta, in virtù della sua passione per l’America e la sterminata, meticolosa conoscenza della storia e delle istituzioni degli Stati Uniti (è tra l’altro presidente emerito dell’Associazione Italia-Usa). Quando lo invita nel suo salotto di Porta a Porta, Bruno Vespa, tanto per dare un’idea, lo presenta affermando scherzosamente che, se Mauro della Porta Raffo non esistesse, la storia sarebbe ferma al 1491 e l’America non sarebbe stata scoperta. «Sappia che ho sempre indovinato il pronostico sul presidente americano – tranne una, tredici su quattordici – fin da quando avevo quattro anni, quando azzeccai l’elezione di Truman a scapito di Thomas E. Dewey».
La tirata nei confronti dell’Unione europea, l’aggressioni verbale, ruvida e diretta a Zelensky sotto gli occhi di un Trump quasi compiaciuto. Il protagonismo politico di Vance è un unicum nella storia dei vicepresidenti americani?
«Direi di no, anche se nel caso di Vance i media, molto più potenti, capillari ed estesi del passato, hanno mostrato in tutto il mondo questo attivismo, rendendolo universalmente evidente, a differenza delle epoche precedenti. Il fatto è che la figura istituzionale del vicepresidente non è definita nei particolari nella Costituzione come quella del presidente. Nella Carta americana si dice semplicemente che c’è il vicepresidente. Bisogna poi considerare la storia della democrazia americana. Nelle prime elezioni presidenziali diveniva vicepresidente chi di solito arrivava secondo nella conquista dei Grandi Elettori».
Poteva capitare che presidente e vicepresidente appartenessero a partiti differenti?
«Sì, è capitato. Il 1796 è l’anno delle terze elezioni della storia degli Stati Uniti. George Washington non si candida a un terzo possibile mandato (allora non c’erano limiti di mandato fino al 1951, quando venne approvato il ventiduesimo emendamento che ne prevede al massimo due). A quel tempo non c’era ancora la presentazione del ticket presidente-vicepresidente, da presentare prima delle consultazioni popolari, come avviene oggi, ma il sistema che le ho detto. E così succede che nel 1796 arriva primo il federalista John Adams, unico presidente federalista della storia. Secondo è Thomas Jefferson, del Partito Democratico-Repubblicano, contraltare del Partito Federalista. Dunque, per un quadriennio, vi furono un presidente e un vice appartenenti a due partiti diversi».
Harry Truman, a sinistra, e Franklin Delano Roosevelt.
Dunque il peso di un vicepresidente dipende da quanto gliene concede il presidente?
«Esattamente. Le figure dei vicepresidenti sono state, a seconda del volere del presidente e dei suoi intendimenti, più o meno importanti. L’unica cosa che prevede la Costituzione è che il vicepresidente sia presidente del Senato. Questo a prescindere dalla maggioranza esistente. Anche se la maggioranza è del partito opposto, il vicepresidente è sempre per legge a capo del Senato».
Possiamo dire che i poteri del vicepresidente sono “a fisarmonica”, come quelli del presidente della Repubblica italiana?
«Il paragone non è appropriato. È unicamente il presidente che decide quale sarà il ruolo del suo vice. Prima di arrivare alla situazione attuale, che è molto particolare, le faccio qualche esempio storico. Andando avanti nel tempo, ci sono stati presidenti che hanno dato manica larga al vice con incarichi specifici, e altri che l’hanno tenuto completamente all’oscuro di quello che stava succedendo. Quando Harry Truman diventa vicepresidente con il quarto mandato di Franklin Delano Roosevelt, nelle elezioni del 1944, che cosa succede? Che il buon Franklin Delano, abituato a comandare, non lo tiene in alcuna considerazione. Non lo fa neanche partecipare alle riunioni di gabinetto».
Truman però diverrà presidente dopo la morte improvvisa di Roosevelt, il 12 aprile del 1945, a meno di un mese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa.
«E il buon Harry Truman si ritrova nella stanza dei bottoni alla guida di un Paese di cui sa nulla».
E a proposito di bottoni, sarà lui a schiacciare quelli delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
«Durante la conferenza di Jalta, Stalin si impegnò con Roosevelt e Churchill a entrare in guerra contro il Giappone entro tre mesi dalla fine del conflitto in Europa, il 9 maggio 1945. Le bombe vennero sganciate alla vigilia della scadenza di quei tre mesi, il 6 e il 9 agosto 1945, quasi sul filo di lana, per impedire che l’Unione Sovietica fosse presente al tavolo delle trattative con il Giappone. Tutte decisioni che Truman prese sul momento, perché fino alla morte di Roosevelt sapeva ben poco di quel che c’era da fare».
Ci sono casi opposti di presidenti che danno ampie prerogative al loro vice?
«Nel 1976 le elezioni vengono vinte da Jimmy Carter, che sconfigge Gerald Ford. Il suo vice, Walter Mondale, ottenne un grande riconoscimento e sarebbe stato partecipe della politica dell’esecutivo, al corrente di tutto ciò che accadeva nell’amministrazione. Se Roosevelt, per dirla brutalmente, non voleva nessuno che gli rompesse le scatole, Carter pensava che una sorta di coabitazione potesse essere utile».
Quando il vicepresidente prende il posto del presidente, che succede? Chi nomina un altro vicepresidente?
«Fino al 1967, quando è stato emanato il venticinquesimo emendamento, in caso di subentro il posto di vicepresidente restava vacante. Dopo l’omicidio di JFK, Johnson prende il suo posto ma nessuno diviene vice. Si aspettava la scadenza successiva per fare un nuovo ticket. Nel 1967 si vara un emendamento per risolvere la questione: dopo il subentro, il nuovo presidente nomina un nuovo vicepresidente che però deve essere approvato da entrambe le Camere del Congresso. Questo accade la prima volta l’8 agosto 1974, all’indomani delle dimissioni di Nixon per lo scandalo Watergate. Dopo essere diventato presidente il giorno dopo, il 9 agosto 1974, Gerald Ford nomina Nelson Rockefeller, ex governatore di New York, come vicepresidente degli Stati Uniti. La nomina avvenne il 20 agosto 1974 e Rockefeller fu confermato dal Congresso il 19 dicembre 1974, prestando giuramento lo stesso giorno. Questo per dare un quadro completo della situazione».
Walter Mondale, a sinistra, con Jimmy Carter.
E arriviamo ai giorni nostri, al ticket Trump-Vance.
«L’errore fondamentale che si fa nel cercare di capire chi è Donald Trump è pensare che egli abbia un’ideologia politica. Trump è un maverick».
Intende un outsider …
«Nel Far West, il maverick era originariamente il capo di bestiame che non era stato marchiato e di cui non si sapeva a chi appartenesse. Il termine è stato applicato in politica a chi va un po’ per conto suo, senza particolari appartenenze partitiche e non è collocabile ideologicamente. Se andiamo a vedere i trascorsi di Trump, sappiamo che, in occasione delle elezioni presidenziali, che prevedono per chi si registra di dichiarare un’affiliazione partitica, si iscrive (come risulta dalle liste elettorali) di volta in volta a vari schieramenti, dai Democratici al Reform Party di Ross Perot fino ai Repubblicani. Dunque, è un personaggio molto particolare, senza ideologia, estremamente pragmatico. Applica la contrattazione economica alla politica, lo stiamo vedendo con chiarezza. E come si procede in campo economico? Si fa una proposta, si mostra al contraente che si è più forti perché accetti le proprie condizioni, dopodiché gli si concede qualcosa. È un modo di fare totalmente diverso da quello politico».
Da sinistra, Zelensky, Trump e Vance nello studio ovale della Casa Bianca, il 28 febbraio scorso.
E J.D. Vance che ruolo gioca in questo frangente? Come abbiaodetto all’inizio lo abbiamo visto adoperare toni durissimi sotto lo sguardo compiaciuto di Trump con il presidente ucraino Zelensky, oppure apostrofare i leader europei accusandoli di non essere democratici, come fosse un capo di Stato …
«Vance è l’ideologo del ticket. È stato scelto oculatamente, molto oculatamente. Rappresenta la Rust Belt, la regione industriale del Midwest e del Nord-Est che era il cuore della manifattura americana e che ha subito un forte declino economico a causa della deindustrializzazione, con la perdita di milioni di posti di lavoro e l’impoverimento della classe operaia. Vance è dell’Ohio, viene da quella gente, è il prodotto classico dell’operaio in crisi che vota repubblicano. Rappresenta quella terra, quell’humus. E ha garantito la vittoria di Trump. Mentre Kamala Harris, che aveva schierato nel ticket quel poveraccio di Tim Walz, non aveva capito nulla».
Vance si è recentemente convertito al cattolicesimo. Nella sua autobiografia Elegia americana attribuisce alla religione un’importanza fondamentale.
«Le comunità religiose americane – dagli episcopali ai presbiteriani, dai metodisti ai battisti – giocano un forte ruolo nelle elezioni. Per inciso, l’essere sopravvissuto all’attentato di Butler, in Pennsylvania, nel luglio scorso, per Trump è stato fondamentale nel confermare il consenso della destra religiosa americana. Il presidente è considerato il “secondo vascello imperfetto”, dopo Ciro il Grande, nel 539 avanti Cristo, così definito perché aveva consentito agli ebrei di tornare nella terra promessa e ricostruire il Tempio. Pur essendo un peccatore, era il ‘vascello imperfetto’, il mezzo attraverso cui Dio compiva il suo volere, che aveva mandato per esaudire i propri desideri».
E Trump sarebbe il secondo vascello …
«Trump per le chiese evangeliche e le altre comunità è un peccatore, indubbiamente, da ogni punto di vista è un peccatore, ma che, per esempio, già soltanto avendo nominato i tre giudici della Corte Suprema antiabortisti durante il primo mandato ed agendo come agisce, ovvero tenendo conto delle questioni etiche, è considerato il secondo vascello imperfetto che è stato mandato dal Signore. Il fatto poi che sia sopravvissuto in quel modo, con l’orecchio insanguinato, miracolosamente, perché si è girato – altrimenti sarebbe morto – ha rafforzato questo consenso. In Pennsylvania hanno votato quasi tutti per lui. E così pure gli evangelici del resto del Paese».
Parlavamo del cattolicesimo di Vance.
«Vance si è convertito al cattolicesimo. La moglie, Usha Chilukuri, invece, ha mantenuto la religione induista. È un uomo di grandissima preparazione culturale, tutto quello che ha fatto, l’ha fatto in maniera strepitosa, soprattutto è uscito dalla condanna della miseria dei ‘poveri bianchi’ cui appartiene. Durante l’incontro con Zelensky, mentre lo accusa con toni ruvidi, Trump lo fa proseguire tranquillamente. Concorda con quello che viene detto. Questo vuol dire che tra i due c’è un’implicita intesa. Dunque il ticket si compone da un presidente pragmatico, pratico, e da un uomo che gli dà conforto dal punto di vista ideale e dei valori. E dunque, se non accade nulla di imprevisto, sarà il prossimo presidente americano».
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