Diecimila posti di lavoro, e siamo solo all’inizio. I tagli voluti da Donald Trump ed eseguiti da Elon Musk con il suo Doge, il Dipartimento dell’Efficienza Governativa, hanno già influito nel ritoccare al rialzo il tasso di disoccupazione, che va al 4,1% dal 3,7%. Dopo un mese e mezzo di Trumpeconomy, la situazione negli Stati Uniti appare incerta, almeno a sentire i consumatori, la cui fiducia è precipitata di 7 punti, attestandosi a 98,3, il più grande calo mensile dal 2021. Quando l’indice scende sotto quota 80, gli economisti lo interpretano come un segnale allarmante che potrebbe preannunciare una recessione. E non va dimenticato che tutti e tre i principali indici di Wall Street hanno registrato performance negative, con il Nasdaq Composite entrato in territorio di correzione rispetto ai massimi di dicembre 2024. Mentre i prezzi cominciano a salire in vista dei dazi imposti dal presidente. Anche Tesla, il titolo simbolo dell’avvento di Trump e Elon Musk è calata del 48% dal picco raggiunto con l’elezione di Donald Trump mandando quasi in fumo i 700 miliardi di dollari di guadagni realizzati dopo il voto.
Anche Jerome Powell, il capo della Federal Reserve, solitamente pacato, ha riconosciuto le «enormi incertezze» legate alle politiche commerciali e fiscali della nuova Amministrazione, pur cercando di rassicurare i mercati e ricordando che l’economia statunitense «rimane in una buona posizione». Powell ha parlato alla fine di una settimana movimentata in cui Trump ha imposto e poi rinviato al 2 aprile le tariffe del 25% sui principali partner commerciali, Messico e Canada, mentre altre tariffe sulle importazioni potrebbero essere in arrivo, forse prima di allora. Powell ha anticipato che i tassi di riferimento rimarranno invariati nella riunione del 18 marzo, ma quanto al futuro ha fatto capire che, considerati i significativi cambiamenti politici in materia di commercio, immigrazione, politica fiscale e regolamentazione, la Fed intende mantenere la cautela. «Non dobbiamo avere fretta, siamo ben posizionati per aspettare di avere maggiore chiarezza» sulle politiche di Trump, prima di procedere con le prossime mosse sui tassi d’interesse. Insomma, l’idea è di separare «i segnali concreti dal rumore». La pacatezza del capo della Fed davanti alla turbolenza scatenata dalle mosse dell’Amministrazione, sembra però non avere eco nei palazzi del potere.
Le operazioni aggressive di Elon Musk, compiute senza consultarsi con i ministri, comincia a irritare alcuni esponenti di spicco dell’Amministrazione. Tra i primi a scontrarsi con il magnate c’è il Segretario di Stato Marco Rubio, che negli ultimi giorni ha fatto trapelare la sua frustrazione per l’ingerenza di Musk nell’apparato governativo. Il confronto tra i due si è acceso lo scorso giovedì, nel corso di una riunione di Gabinetto alla Casa Bianca, alla presenza dello stesso Trump. Secondo un resoconto dettagliato del New York Times, la discussione si è trasformata in un acceso botta e risposta, in cui Musk ha accusato Rubio di non aver fatto abbastanza per ridurre il personale del Dipartimento di Stato. «Nessuno scontro, io c’ero», ha smentito Trump.
Sul fronte dazi intanto cresce la probabilità di escalation di una guerra commerciale, con possibile estensione del numero di paesi colpiti e ritorsioni diffuse. Nel report riservato (Weekly Economic Monitor) che l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo elabora ogni venerdì, emergono tutte le conseguenze (negative) sull’inflazione Usa e i danni per le famiglie. Il rischio-dazi non è immediato perché è stato concesso un rinvio di un mese inizialmente alle tre principali case automobilistiche (il 40% dei veicoli di Stellantis e Gm e il 20% di Ford sono fabbricati in Messico o Canada) e, a seguire, su tutti i prodotti inclusi nell’accordo di libero scambio tra Canada, Messico e Stati Uniti d’America Usmca (che dovrebbero pesare per circa le metà dell’import dal Messico e quasi il 40% degli acquisti dal Canada).
L’ALIQUOTA
Secondo il Budget Lab, che è il centro di ricerca che fornisce analisi approfondite delle proposte di politica federale per l’economia americana, citato dal report, dazi al 25% sui vicini nordamericani, e al 20% sulla Cina, innalzerebbero l’aliquota tariffaria effettiva media del 7%, portandola vicina al 10% (un massimo dal 1943), con un impatto al rialzo sull’inflazione di oltre un punto percentuale e un costo annuo di 1.600-2.000 dollari per famiglia; la crescita tendenziale del Pil a fine 2025 sarebbe più bassa di -0,6%, e il livello del Pil di medio-lungo termine sarebbe inferiore di tre-quattro decimi di punto. Nel complesso, il quadro resta segnato da forte incertezza, sia per le potenziali ritorsioni dei partner commerciali (già attuate da Canada e Cina), sia per l’impatto (tendenzialmente stagflazionistico) non solo sui prezzi al consumo ma anche sulle catene del valore.
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