Rivoltare il carcere, basta chiacchiere e lagne contro le misure del governo Meloni

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Fatichiamo a pensare iniziative di opposizione all’altezza della sfida. Ora che, con le nuove misure volute dal governo Meloni, anche la disobbedienza e la resistenza pacifca dei detenuti saranno sanzionate penalmente tocca a noi fuori lottare con più forza.

Di seguito il testo dell’intervento di Franco Corleone al convegno organizzato da Antigone il 14 febbraio scorso per i 50 anni dell’ordinamento penitenziario.

Lo pubblichiamo in occasione della grande assemblea che, sabato 8 marzo, la Società della Ragione terrà a Firenze per ricordare la presidente Grazia Zuffa a un mese dalla sua scomparsa. Psicologa, femminista, grande studiosa anche delle questioni legate al mondo della pena, a lei si devono – tra le moltissime cose – contributi fondamentali sulla salute in carcere, l’ergastolo, il superamento della cultura manicomiale, la condizione femminile nelle prigioni. Tra le sue ultime battaglie, quella contro il Ddl sicurezza e la vergognosa norma che vorrebbe chiudere in cella anche le donne incinte e con figli fino a un anno di età. Di Franco Corleone, conosciuto tra i banchi del Parlamento, Grazia Zuffa è stata compagna di vita, di impegno, di lotta.

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Come potete immaginare non ho preparato una relazione, non ero in condizione di una sufficiente concentrazione; tuttavia, ho scritto degli appunti e predisposto delle note che rappresentano il filo di una riflessione che ho sviluppato in questi ultimi anni. Innanzitutto, mi viene da dire che noi, non da oggi, del carcere sappiamo tutto: il nostro problema non è scavare questioni, bensì affrontarle e risolverle. Come si diceva una volta riprendendo il monito di Marx, il problema non è interpretare il mondo ma cambiarlo. Ieri Mauro Palma ha ricordato la rivista Il Ponte del marzo 1949 e vorrei fare due chiose al riguardo.

Quel numero speciale, interamente dedicato alle carceri, raccoglieva tante riflessioni di antifascisti; Mauro si è soffermato su quella di Altiero Spinelli, io fedele alla mia tradizione culturale richiamo l’intervento di Ernesto Rossi che era intitolato “Quello che si potrebbe fare subito” ed elencava esempi tragici della quotidianità del carcere, compreso l’uso del cosiddetto “Sant’Antonio” (un manganello per i pestaggi rivestito per non lasciare segni), in particolare quelli relativi all’alimentazione, all’igiene e alla salute. Ernesto Rossi faceva una sorta di autocritica sul fatto che, usciti dal carcere e distratti dalle urgenze economiche e sociali, la questione della detenzione, era stata trascurata da quegli stessi che l’avevano dovuta subire a causa della loro opposizione al fascismo.

Si era dunque arrivati al 1949 per cominciare a occuparsene. Al riguardo vorrei aggiungere una cosa a quanto detto da Patrizio Gonnella. Piero Calamandrei nella discussione alla Camera aveva proposto un’inchiesta sulle carceri e sulla tortura. Un’attenzione e un’idea incredibilmente attuali. Dato che troppo spesso i problemi di quel tempo li riscontriamo tuttora presenti e irrisolti, “Sant’Antonio” compreso: quello che, secondo i padri costituenti, si poteva e doveva fare subito per dare diritti e dignità ai reclusi ce lo ritroviamo in molte parti anche oggi, fatiscenza dei luoghi di detenzione compresa, a dispetto delle riforme intervenute, della maggiore sensibilità sociale e anche del nostro impegno. Che pure ha dato risultati importanti, da ricordare e da rivendicare. Dalla legge Finocchiaro sulle detenute madri alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti; dall’incompatibilità con la detenzione per i malati di Aids e di altre gravi patologie alla legge Simeone-Saraceni per evitare la carcerazione per chi poteva usufruire di misure alternative. Fondamentale fu poi l’approvazione del Regolamento penitenziario del 2000 che rappresentò una grande conquista, sostituendo finalmente quello fascista del 1931.

Dopo l’improvvisa scomparsa di Michele Coiro, rigoroso garantista, per sostituirlo il ministro Flick decise di nominare a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Alessandro Margara (chiedendomene il consenso – allora ero sottosegretario alla Giustizia – mentre eravamo su una nave che ci portava al carcere di Gorgona o a quello di Pianosa). Tempestivamente, intervenendo su Fuoriluogo, Mauro Palma invitò Margara a dedicarsi all’elaborazione di un nuovo Regolamento. La sollecitazione venne anche da me raccolta e così fu costituito un gruppo di lavoro ad hoc, il quale produsse rapidamente un testo ancor più avanzato della legge penitenziaria del 1975, in sintonia con le proposte di associazioni come Antigone. Il nuovo Regolamento, cui demmo vita un quarto di secolo fa, conteneva anche la previsione del diritto all’affettività; diritto però subito contestato dai sepolcri imbiancati del Consiglio di Stato, così il ministro Piero Fassino piegò la testa, contro il mio parere. Peraltro, ricordo che mi fu tolta la delega a seguire un “pacchetto sicurezza” su cui avevo molte riserve. Lo rammento perché, oltre a quel che siamo riusciti a fare per migliorare le carceri, va ricordato anche quanto non siamo riusciti, o ci è stato impedito, di realizzare. E anche dove abbiamo sbagliato. Poiché oggi non c’è solo il sottosegretario Delmastro che rappresenta l’apocalisse, anche nel nostro campo tocca talvolta rilevare l’enfatizzazione strumentale e fuorviante del tema della sicurezza, che conferisce nuova centralità al carcere e alla risposta penale, a discapito di quelle sociali.

Tamar Pitch ha ricordato il ruolo di Grazia Zuffa nell’elaborazione di un pensiero originale sulla detenzione: sulla salute in carcere, sulla salute mentale, sull’ergastolo, sul caso Cospito e su tanti altri aspetti e questioni. A me piace ricordare che Grazia era esigente e non corriva alla banalità. Invito a leggere il suo saggio L’ergastolo come pena di morte nascosta; è l’introduzione assai originale ai testi sull’argomento di Papa Francesco, Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo, contenuta nel libro Contro gli ergastoli, curato da Stefano Anastasia, Andrea Pugiotto e da me, pubblicato da Futura nel 2021. Abbiamo sentito molte osservazioni sui limiti della riforma del 1975, ma ricordo che Margara era ben consapevole delle sue criticità tanto che vi lavorò con l’aiuto di alcuni amici, tra cui il sottoscritto e Franco Maisto, presso la Fondazione Michelucci e il risultato fu la presentazione di una proposta di legge di un “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà”. La data è del 3 novembre 2005 (venti anni fa!) e porta il n. 6164 con le firme dei deputati Boato, Finocchiaro, Fanfani, Pisapia e molti altri. Quello sforzo rimase nell’archivio del Parlamento, però dobbiamo confessare che neppure il movimento la sostenne e la fece propria.

Allora, la mia proposta oggi – perché l’occasione del cinquantenario dell’approvazione dell’ordinamento penitenziario non si risolva in un mero cahier de doléance – è di riprendere quel monumentale lavoro, ovviamente aggiornandolo alle modifiche non irrilevanti intervenute successivamente, dal passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario pubblico alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), in modo da avere un testo coerente e audace. Così potremo essere pronti, quando sarà il momento, a non ripetere errori, evitando l’onda banale del senso comune rispetto al fertile terreno del buon senso. Come Garante dei diritti della Toscana nel 2015 organizzai a Firenze il seminario intitolato “Un bilancio disincantato dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani” ragionando del senso degli Stati generali sull’esecuzione penale e della sorte degli Opg, a partire dall’antologia degli scritti di Margara La giustizia e il senso di umanità.

Partiamo dunque dalle cose buone fatte. Il diritto alla salute è definito dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale e avere esteso ai detenuti la copertura della sanità pubblica ha rappresentato una svolta di principio davvero straordinaria, eliminando una competenza domestica opaca della amministrazione penitenziaria. La responsabilità è stata così affidata alle Regioni e alle Asl, ma dobbiamo vigilare ed essere intransigenti, non tollerando malfunzionamenti che danno spazio a chi vorrebbe tornare indietro. È inaccettabile la subalternità della sanità alla amministrazione penitenziaria, che si verifica troppo spesso: la salute non vale meno della sicurezza. La chiusura degli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari, ha rappresentato una rivoluzione gentile di cui sono stato protagonista ed è folle che in questi giorni il Ministero della Salute proponga di trasformare le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), in nuovi piccoli manicomi e che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia approvato un documento preoccupante e ignobile che dà fiato alla reazione securitaria. Sono angosciato di fronte a questa prospettiva.

Di fronte a questo pericolo, dobbiamo capire se le associazioni, a cominciare da Antigone, dalla Società della Ragione e dal Volontariato, sono pronte a scendere in campo. Vi confesso che leggendo Ristretti orizzonti, trovo singolare vedere, alla fine della rassegna stampa, ogni giorno l’elenco di decine di incontri, seminari e convegni sul carcere. Mi pare, cioè, stravagante dare un’impressione di normalità di fronte alla strage quotidiana di vite e di diritti, alle urgenze e priorità che dovrebbe porci. Abbiamo una situazione terribile, ma fatichiamo a pensare azioni di opposizione e di resistenza all’altezza della sfida. Tamar Pitch in un intenso ricordo di Grazia Zuffa ha sottolineato che «Grazia non è stata solo una studiosa rigorosa e brillante, ma, insieme, come si conviene ad una femminista seria, ha “praticato”, ossia ha fatto su queste cose un’intensa attività politica e sociale». Il 14 maggio 2023 Grazia aveva lanciato la campagna “Madri fuori”, vale a dire fuori dallo stigma e dal carcere, ed era fiera ed orgogliosa delle tante adesioni individuali e collettive. Aveva inventato lo slogan «ogni bambino e ogni bambina ha il diritto di nascere in libertà» e il fatto che sia stato ripreso in uno striscione nel corteo contro il disegno di legge sicurezza l’aveva resa felice.

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Occorre che noi, fuori, siamo maggiormente capaci di pensare e mettere in campo campagne forti; a maggior ragione poiché, dentro, con le nuove misure volute dall’attuale governo, anche la disobbedienza e la resistenza pacifica dei detenuti saranno penalmente sanzionate. Tocca allora a noi lottare con maggior decisione ed energia, dando voce a chi è costretto al silenzio. Devono disobbedire anche i magistrati! Margara aveva scritto come bisognava rispondere a proposito delle leggi razziste e ingiuste: il suo è un saggio fondamentale sulla disobbedienza. Proprio da qui partirà il prossimo seminario annuale della Società della Ragione; approfondiremo il ruolo delle corti internazionali e nazionali, la responsabilità del Presidente della Repubblica nel firmare le leggi sbagliate perché non sono in maniera clamorosa anticostituzionali; ma nella Costituzione che non c’è scritto questo, semmai che può rimandare al Parlamento le leggi con un messaggio motivato.
Però, il coraggio spesso manca pure nel nostro mondo associativo. Di fronte al diritto all’affettività stabilito da una sentenza della Corte costituzionale come reagiamo al boicottaggio del ministro Nordio? Possiamo provare a mobilitare le famiglie dei detenuti anche con manifestazioni davanti alle carceri?

Nel governo c’è chi immagina i corpi speciali per fare prove di guerra civile in carcere, noi dobbiamo rispondere con i corpi di pace, nel nome dello stato di diritto. Ho ricordato che nel Regolamento del 2000 fu colpevolmente stralciato il fondamentale diritto all’affettività, ma fu mantenuta la possibilità di incontri lunghi con i famigliari, per consentire anche la consumazione di un pasto condiviso; eppure, anche questa possibilità non è mai stata implementata. Al riguardo, sarebbe il caso che giuristi e avvocati inizino cause per omissione di atti di ufficio perché dal 2000 al 2025 non è più una accettabile che si sostenga che la norma è ordinatoria e non perentoria.

Veniamo al sovraffollamento. Riccardo De Vito ha sostenuto che ci vuole subito un’amnistia e un indulto e, contestualmente, l’approvazione di una legge che istituisca il numero chiuso nel caso la capienza raggiunga il massimo. Dobbiamo dire basta alla detenzione sociale in carcere. Basta sul serio. Abbiamo più di 90mila persone in misure alternative, compresa la messa alla prova che in realtà non è una misura alternativa ma incide notevolmente assicurando addirittura con un processo di reinserimento la cancellazione del processo penale. Credo di poter ragionevolmente affermare che in carcere non dovrebbero essere presenti più di 30mila reclusi. Se le persone in misure alternative diventassero 120mila sarebbe favorita l’inclusione sociale con meno costi, senza problemi di carenza di personale di polizia penitenziaria e senza necessità di nuova edilizia. Insomma, la detenzione in carcere dovrebbe essere limitata ai responsabili dei reati di sangue, contro la persona, contro le donne, magari ai reati economici e informatici.

La detenzione sociale dovrebbe invece essere diffusa nelle città realizzando le case di reinserimento sociale: è una proposta depositata in Parlamento, ripresa da una idea di Margara, per rimediare all’errore di avere chiuso le case mandamentali, esistite in Italia dal 1940 al 2000, che erano centinaia, gestite dal sindaco, che consentivano una detenzione leggera con la positiva partecipazione degli enti territoriali. Il momento richiede anche la fantasia di misure straordinarie. Ad esempio, i magistrati di sorveglianza dovrebbero dare ai detenuti tutti i giorni dei permessi premio consentiti e previsti dalle norme. Di fronte alle inerzie annose e dolose di governi e parlamento nell’emanare le necessarie misure deflattive, come amnistie e indulti, forse dovremmo chiedere al Presidente della Repubblica di esercitare in maniera ampia e dispiegata il potere di grazia. Dobbiamo, insomma, inventarci delle cose scandalose, nel senso etimologico di turbare le coscienze attraverso l’azione.

Azione. Perché il momento che stiamo vivendo rappresenta una discontinuità assoluta e per questo temo il rischio di analisi astratte, anche se lucide; la conseguenza potrebbe risolversi in una eterogenesi dei fini e portarci da parte di loro signori ad accettare la critica al principio rieducativo realizzando pienamente il carcere duro, perché oggi il carcere mite è davvero un mito. Riccardo De Vito ha fatto bene a riproporre un testo di dieci anni fa di Grazia Zuffa pubblicato su Questione Giustizia: “Ripensare il carcere, dall’ottica della differenza femminile”. Rileggendolo credo che tutte e tutti rimarremo colpiti dall’intelligenza acuminata di Grazia e saremo d’accordo nel ritenere che questo sguardo su “tutto” il carcere che muove dall’ottica della soggettività femminile, per uscire dalle ambiguità di un trattamento penitenziario sempre in bilico tra approcci retributivi e prospettiva correzionale, può essere la via per sperimentare un sistema penitenziario che trasformi i corpi da custodire in soggetti responsabili e che alla logica dei premi sostituisca quella dei diritti. Secondo me, questo deve essere il nostro manifesto della riforma necessaria. È quanto Grazia sostiene: la necessità di restituire alle autrici e agli autori di reato la piena responsabilità, nella prospettiva del reinserimento sociale; gli strumenti di socializzazione devono uscire dalla sfera della discrezionalità per essere declinati il più come diritti che non come concessioni.

Grazia Zuffa – come sa bene Susanna Marietti – era impegnata contro l’isolamento disciplinare, una questione discriminante che dobbiamo porre come tale.
Molto spesso viene ripetuta la richiesta di una presenza degli psicologi in carcere e della necessità di loro assunzioni senza distinguere ruolo e funzioni. Dobbiamo certamente chiedere alle Asl la presenza di medici che assicurino assistenza anche nelle ore serali e nei giorni festivi, che garantiscano con il Dipartimento di salute mentale la presenza di psichiatri e psicologi. Non mi convince, invece, la richiesta di assunzione di psicologi da parte della amministrazione penitenziaria, poiché crea confusione; tanto è vero che le psicologhe o psicologi esperti ex articolo 80 partecipano ai consigli di disciplina per irrogare sanzioni, con un vero conflitto deontologico.

Non basta. Non dobbiamo essere corrivi. Ad esempio, di fronte al problema della presenza del disagio mentale in carcere non dobbiamo favorirne un’enfatizzazione strumentale, utilizzata da chi sostiene fosse meglio quando persone di difficile gestione venivano mandate in Opg per osservazione, col rischio di rimanerci per sempre. Diversamente, tocca a noi chiedere l’applicazione della sentenza 99 della Corte costituzionale per individuare luoghi terapeutici al posto della detenzione, evitando ritorni al passato. Abbiamo in corso anche ricerche su questo tema, proprio per contrastare in modo scientifico e argomentato il risorgere della nostalgia dell’istituzione totale. Noi dobbiamo essere rigorosi, denunciando che il disagio mentale in carcere è massimamente determinato non dalle patologie individuali ma dalle condizioni quotidiane di vita del carcere. Se dimentichiamo questo costruiamo delle figure di persone da curare, da redimere, da controllare, ma non è la strada del tentativo di rispettare soggettività e autonomia. Non è facile, ma dobbiamo tentare di avere un pensiero lungo.

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Grazie a un lavoro di ricerca sulle misure di sicurezza e sulle case di lavoro abbiamo pubblicato il volume Un ossimoro da cancellare che contiene una proposta di legge per cancellare una misura introdotta dal fascismo costruita sulla figura del “delinquente professionale, abituale e per tendenza”. Abbiamo il sostegno del teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto che si è espresso contro una realtà che contraddice la Costituzione. Dobbiamo fare una battaglia per l’eliminazione di quelle strutture che fanno proseguire la detenzione anche dopo avere scontata la pena: con la truffa delle etichette trasformano questi soggetti da detenuti a internati producendo il rischio di una pena infinita, di proroga in proroga, senza diritti. Una realtà che ora riguarda 300 persone, di fatto scelte casualmente, come monito. Pensate che due nuove case lavoro sono state aperte ad Aversa e a Barcellona Pozzo di Gotto nei locali dell’ex Opg.

Tale esperienza negativa vale anche per i cosiddetti sine titulo, cioè la realtà di alcune decine di persone detenute e che grazie alla valutazione di un perito o di un magistrato si trasformano in non responsabili di intendere e volere e con il diritto di trovare accoglienza in una Rems (che hanno un caposaldo nel numero chiuso), come internati. Forse un po’ di attenzione e di coordinamento su questo sarebbero necessari, senza aumentare la demagogia e la polemica contro la mancanza dei posti in Rems e la strumentalizzazione della lista d’attesa. Anche la denuncia della presenza dei cosiddetti tossicodipendenti in carcere rischia, paradossalmente, di far tornare in auge la prospettiva delle comunità chiuse. Allora, io penso che dovremmo proporre un referendum su alcuni punti della legge proibizionista sulle droghe. Abbiamo già una bozza di testo possibile; lo valuteremo assieme e poi dovremo fare il miracolo di raccogliere le firme occorrenti – come è avvenuto per quello sulla cittadinanza – per rispondere a chi ha aumentato le pene per i fatti di lieve entità e vuole equiparare la canapa tessile alla canapa con qualche potere stupefacente. Forse questo governo ha paura delle lenzuola come luogo peccaminoso: denunciano la denatalità, però le lenzuola di canapa per il sottosegretario Mantovano vanno proibite!

Infine, mi piace ricordare che Grazia voleva una giustizia di comunità, nella comunità, e aveva costruito un modello perché la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità fossero alternative ricche di opportunità, occasioni di vita, fuori dal sistema penale, anziché essere pene mascherate. Dobbiamo lavorare sul riconoscimento integrale ed effettivo della dignità della persona reclusa, è un discrimine che va tenuto assolutamente presente. Oggi la pena reclusiva non solo non la riconosce, ma la nega quotidianamente in mille modi. Le celle stracolme non consentono dignità a nessuno. Il sovraffollamento ha una consistenza materiale che viene celata e misconosciuta. Chiediamoci che conseguenze umane si realizzano quando in cella si vive l’intera giornata con un’altra persona sconosciuta; chiediamoci la stessa cosa quando la convivenza è con altre tre o quattro persone o quando arriva a sette. Il problema non è solo che si sta con persone che non si sono scelte, ma pure che si ha un solo cesso. Ecco: il problema è anche il cesso! Rappresenta un’intollerabile vergogna civile che tre, quattro, sette, otto persone, di notte e di mattina, abbiano a disposizione un solo servizio igienico in cui spesso, oltretutto, di fianco al wc, c’è il lavandino dove si lava e prepara il cibo.

Facciamo convegni e dotte analisi – pur certo necessarie – tutti i giorni. Ma l’abbiamo mai fatta una battaglia sul cesso? No! Una persona, un cesso. Ecco, forse, questo potrebbe essere uno slogan efficace ed eloquente su di un aspetto della dignità distrattamente negata a chi sta in carcere. Il sabato prima di Natale abbiamo organizzato a Udine una marcia dal Duomo fino al carcere di via Spalato, con la presenza del vescovo. Incredibilmente sono intervenute centinaia di persone, con una rosa bianca in mano per ricordare la resistenza antinazista. Ieri Patrizio Gonnella ha evocato la riscrittura dell’articolo 27 da parte del sottosegretario Cirielli, ma non ha detto che nella legislatura precedente una proposta simile era già stata presentata da Giorgia Meloni e dal sottosegretario alla Giustizia Delmastro. In passato, all’epoca del ministro Angelino Alfano (non ci siamo fatti mancare nulla in questo paese, persino Giovanardi zar antidroga!), il nostro Alessandro Margara aveva ironizzato su come avrebbe voluto modificare l’articolo 27 quel Guardasigilli del governo Berlusconi. Non aveva immaginato che esponenti del governo e che giurano sulla Costituzione sarebbero stati capaci di mettere nero su bianco uno stravolgimento di un principio fondamentale.

Concludo dicendo che abbiamo molto da fare e assieme dobbiamo valorizzare tutte le cose buone già fatte. Seguendo la linea e il pensiero di Grazia Zuffa, che era molto esigente e non faceva sconti. In questi anni a Udine come Garante, Società della Ragione e associazione di volontariato Icaro, assieme, abbiamo realizzato un calendario per i detenuti con dodici articoli della Costituzione; a gennaio l’articolo 27, a dicembre l’articolo 32 e così via. In una riunione del Consiglio dei detenuti li ho invitati a imparare a memoria l’articolo 27 e a recitarlo agli agenti nei momenti difficili. È quella la bussola, il programma e l’indicatore di marcia che ci hanno consegnato i padri costituenti. Abbiamo molto da fare per trasformarli in realtà e per non farli manomettere dagli epigoni del Guardasigilli Alfredo Rocco. Dopo tante Commissioni per cambiare il Codice Rocco, assistiamo attoniti al paradosso del peggioramento di alcune norme dello stesso codice fascista. È l’ora di chi ha filo da tessere.

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