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Majdi Karbai, deputato tunisino in esilio, denuncia la repressione di Saied e il maxi-processo contro gli oppositori. Critica il “Piano Mattei” di Meloni, l’Europa complice delle violazioni dei diritti umani e il trattamento disumano dei migranti in Tunisia.
L’intervista a Majdi Karbai
Lo scrittore Eugenio Cardi ha intervistato Majdi Karbai, deputato del parlamento tunisino eletto nel 2019 con il partito Attayar (“Corrente democratica”), partito di sinistra e ecologista. Vive in esilio volontario in Italia a seguito del colpo di Stato del dittatore tunisino Kais Saied. Per lui infatti sarebbe pericoloso far rientro in patria. Laureato in Lingue applicate al commercio internazionale presso l’Università di Mannouba in Tunisia.
Ricercatore di dottorato in scienze sociali e politiche presso l’Università di Liegi in Belgio, ha conseguito anche vari Master presso gli atenei di Roma, Milano, Parigi e Liegi. Majdi Karbai collabora con varie organizzazioni nell’identificazione di Best Practice per la promozione dell’economia circolare.
Egregio Onorevole Karbai, innanzitutto grazie della cortese disponibilità. Vorrei iniziare questa intervista chiedendole quanto le manchi il suo Paese, la Tunisia. È un Paese meraviglioso che ho avuto l’occasione di visitare diverse volte…
La Tunisia è un Paese che porto sempre nel cuore, con la sua ricca storia, la cultura vibrante e la bellezza dei suoi paesaggi. Certo, ci sono momenti in cui la nostalgia si fa sentire, soprattutto per la famiglia, gli amici e i sapori autentici della cucina tunisina. Tuttavia, vivo questa lontananza come un’opportunità per poter difendere lo stato dei diritti, la libertà e la democrazia e denunciare la deriva autoritaria di Saied.
So che purtroppo sarebbe rischioso per lei far rientro in Tunisia, almeno per il momento; un suo collega, rientrato temporaneamente nel suo Paese, non è più potuto tornare a Parigi, dove viveva…
Si tratta del mio collega parlamentare sulla circoscrizione francese, Zied Gahnney. Colgo l’occasione per esprimere a lui la mia solidarietà e il mio sostegno. Purtroppo, la situazione che descrive è reale e riflette le difficoltà che molti affrontano in contesti politicamente complessi. Per me, la democrazia e la libertà di espressione sono valori fondamentali, e al momento rimanere al mio esilio è la scelta più prudente.
Questo non significa che non speri in un futuro in cui potrò tornare nel mio Paese senza preoccupazioni. Nel frattempo, continuo a lavorare e a portare avanti i miei obiettivi da qui, mantenendo viva la connessione con la Tunisia attraverso la militanza per i diritti e la libertà. Il 4 marzo 2025 è iniziato il maxi-processo contro oppositori politici e attivisti, arrestati e accusati di “cospirazione contro la sicurezza dello Stato”.
Tra le accuse, emergono anche presunti contatti con diplomatici internazionali, tra cui figurano i nomi degli ex ambasciatori italiani in Tunisia, Lorenzo Fanara e Fabrizio Saggio. Tra gli imputati ci sono personalità di spicco come Ridha Belhaj, Issam Chebbi, Jawhar Ben Mbarek, Ghazi Chaouachi, Abdelhamid Jelassi, Khayam Turki, Chaïma Issa, Kamel Eltaïef e Bochra Belhaj Hmida. Molti di loro sono stati arrestati nel 2023 durante un’operazione contro l’opposizione, e il presidente Saied li ha definiti “terroristi”.
Dopo che Saied si è attribuito pieni poteri nel 2021, l’opposizione e le ONG hanno denunciato un arretramento dei diritti e delle libertà in Tunisia, un Paese che, con la rivoluzione del 2011, aveva dato il via alla “primavera araba”. Le autorità giudiziarie hanno stabilito che gli imputati in custodia cautelare debbano comparire al processo tramite videoconferenza, una decisione contestata dai familiari degli accusati, che chiedono la loro presenza fisica in aula.
Secondo me, questo regime ha scelto di condurre il processo a distanza perché si tratta di un processo politico contro gli oppositori. Se fosse svolto pubblicamente, emergerebbe la farsa di questo regime e la verità dietro questi arresti.
Purtroppo l’argomento “diritti umani” è molto difficile da affrontare in Paesi del Nord Africa come Tunisia, Egitto, Algeria, Libia… Crede che potrà mai cambiare qualcosa in questo senso?
La situazione dei diritti umani in Nord Africa, come in molte altre regioni del mondo, è influenzata da fattori storici, politici e sociali profondamente radicati. Tuttavia, credo fermamente che il cambiamento sia possibile, anche se richiede tempo, impegno e una pressione costante sia dall’interno che dall’esterno.
La società civile, i giovani, le donne e molti attivisti in questi Paesi stanno lottando ogni giorno per promuovere i diritti umani, la giustizia e la libertà. Nonostante le difficoltà, ci sono segnali di progresso, anche se lenti e spesso contrastati.
La diffusione dell’accesso a internet e ai social media, ad esempio, ha dato voce a molte persone che prima non potevano esprimersi, creando un terreno fertile per il dialogo e la consapevolezza. Credo che il sostegno della comunità internazionale, unito alla resilienza delle popolazioni locali, possa contribuire a un cambiamento positivo.
Tuttavia, è essenziale che questo sostegno rispetti le specificità culturali e sociali di ogni Paese, evitando imposizioni esterne che potrebbero essere controproducenti.
In definitiva, sono cautamente ottimista. Il cammino verso il rispetto dei diritti umani è lungo e irto di ostacoli, ma la storia ci insegna che nessun regime o sistema è immutabile. La speranza è che, con il tempo, si possano costruire società più giuste e inclusive in tutta la regione.
Questa domanda si ricollega a quella precedente: le due questioni principali in tal senso sono il tema scottante dei migranti e quello altrettanto scottante dello sfruttamento delle risorse: come si intersecano queste due facce della stessa medaglia e come si allacciano con le politiche europee e principalmente con quelle italiane del governo Meloni?
È una domanda complessa e molto importante. La questione dei migranti e lo sfruttamento delle risorse sono temi interconnessi, legati a dinamiche globali e locali complesse, con forti implicazioni per le politiche europee e italiane, in particolare quelle del governo Meloni.
Il fenomeno migratorio verso l’Europa è spesso causato da povertà, conflitti, instabilità politica e cambiamenti climatici, fattori aggravati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali nei paesi africani.
Questo sfruttamento, spesso favorito da politiche commerciali e investimenti europei poco attenti agli impatti sociali e ambientali, crea disuguaglianze e degrado, spingendo molte persone a emigrare. Il governo Meloni ha adottato un approccio rigoroso sul controllo delle frontiere e la riduzione degli arrivi irregolari, ma rischia di essere inefficace se non affronta le cause profonde del fenomeno, come la mancanza di opportunità economiche e lo sfruttamento delle risorse.
Per un cambiamento significativo, l’Italia e l’Europa dovrebbero promuovere politiche di cooperazione internazionale che favoriscano sviluppo sostenibile, investendo in energie rinnovabili, agricoltura sostenibile e formazione professionale nei Paesi di origine e, soprattutto, basta finanziamenti ai regimi dispotici ed autoritari.
A proposito della Meloni, cosa pensa del tanto sventolato e propagandato “Piano Mattei”?
Il “Piano Mattei”, promosso dal governo Meloni, mira a posizionare l’Italia come ponte energetico e diplomatico tra Europa e Paesi del Nord Africa e del Mediterraneo. L’obiettivo è diversificare le fonti energetiche, ridurre la dipendenza da Paesi come la Russia e promuovere sviluppo e stabilità in Africa attraverso partenariati economici e infrastrutturali.
I punti in positivo si evidenziano nella diversificazione energetica, che potrebbero contribuire nel garantire approvvigionamenti sicuri e diversificati, sfruttando le risorse del Nord Africa. Potrebbero favorire investimenti in infrastrutture, energie rinnovabili e sviluppo sostenibile, riducendo le spinte migratorie.
Rafforzerebbero inoltre il ruolo dell’Italia come mediatore tra Europa e Africa, aumentandone l’influenza diplomatica. Ma c’è il serio rischio di neo-colonialismo, tale progetto potrebbe essere percepito come sfruttamento delle risorse africane a vantaggio dell’Europa, alimentando tensioni.
Il piano Mattei deve includere il rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro nei Paesi partner, evitando disuguaglianze.
Finora, il piano è più un’idea propagandistica che un progetto operativo, mancando una roadmap chiara. Penso comunque che Il Piano Mattei ha potenzialità interessanti, ma per essere credibile ed efficace deve evitare il rischio di neo-colonialismo e dimostrare un reale impegno verso sviluppo sostenibile e diritti umani. La sua riuscita dipenderà dalla capacità del governo Meloni di tradurre le promesse in azioni concrete, bilanciando interessi italiani ed esigenze africane.
In conclusione, è necessario un approccio integrato che unisca sicurezza, sviluppo e rispetto dei diritti umani, intervenendo sia sugli effetti che sulle cause del fenomeno migratorio. Solo attraverso una cooperazione equa e sostenibile si potrà costruire un futuro più stabile e giusto per tutte le parti coinvolte.
Cosa succede ai migranti che per arrivare in Italia provano ad attraversare la Tunisia? Tutti abbiamo visto e letto reportage con foto terribili di corpi abbandonati nel deserto, persone morte strada facendo per mancanza di acqua e di assistenza… Saied ha gravi responsabilità in tutto questo, fa il lavoro sporco per conto dell’Europa…
La situazione dei migranti che attraversano la Tunisia per raggiungere l’Europa è una delle crisi umanitarie più gravi del nostro tempo. Le immagini di corpi abbandonati nel deserto e di persone morte per disidratazione, fame o mancanza di assistenza testimoniano un sistema che fallisce nel proteggere i diritti e la dignità umana.
Kais Saied è accusato di gravi responsabilità per le politiche rigide adottate contro i migranti, spesso spinti verso aree desertiche pericolose senza accesso a acqua, cibo o cure. Gli spostamenti forzati, le espulsioni arbitrarie e gli atti di violenza contro i migranti subsahariani sono stati documentati come notiamo delle testimonianze del report di State Trafficking.
Queste pratiche hanno raggiunto il loro apice nel 2023, quando diverse centinaia di migranti sono stati abbandonati in zone di confine pericolose con la Libia e l’Algeria provocando la morte di una decina dei migranti, torture e trattamenti disumani e degradanti. Queste azioni sono viste come un modo per fare “il lavoro sporco” per conto dell’Europa, impedendo ai migranti di raggiungere le coste europee.
L’Europa, con politiche di esternalizzazione delle frontiere, ha contribuito a creare un ambiente in cui i diritti umani sono sistematicamente violati. Accordi bilaterali e finanziamenti a paesi come Tunisia e Libia spesso mancano di garanzie per il rispetto dei diritti fondamentali, trasformando questi Stati in guardiani di frontiera disposti a usare metodi brutali.
Le morti nel deserto tunisino sono il risultato di scelte politiche precise, sia locali che internazionali. La comunità internazionale, in particolare l’Europa, deve assumersi le proprie responsabilità, promuovendo politiche migratorie che proteggano i diritti umani e favoriscano una cooperazione sostenibile, anziché limitarsi al contenimento dei flussi.
La situazione in Tunisia è un monito: senza un cambiamento radicale nell’approccio alla migrazione, continueremo a vedere sofferenza e morte.
Vi è una possibilità che si riesca prima o poi ad abbattere la dittatura di Saied in Tunisia e ad attuare un sistema democratico?
La possibilità di abbattere la dittatura di Kais Saied in Tunisia e ripristinare un sistema democratico dipende da varie fattori. Dal luglio 2021, Saied ha sospeso il Parlamento e assunto poteri eccezionali, interrompendo il percorso democratico del Paese.
Penso che una società civile attiva e organizzata, potrebbe guidare un movimento di opposizione nonostante la repressione. Fattori come disoccupazione, inflazione e povertà alimentano il malcontento, aumentando la pressione per un cambiamento. Attualmente l’opposizione è frammentata, ma una maggiore unità tra partiti, sindacati e movimenti sociali potrebbe sfidare il regime.
Un ritorno alla democrazia è possibile, ma richiede mobilitazione interna, e soprattutto l’unità dell’opposizione. Senza un’azione coordinata, il regime di Saied potrebbe consolidarsi ulteriormente, rendendo più difficile un cambiamento. La storia della Tunisia dimostra che il cambiamento è possibile, ma serve determinazione e coesione.
Allargando il quadro, alla luce degli ultimi terribili avvenimenti, cosa pensa di quel che sta attuando lo Stato di Israele in Palestina?
Il conflitto tra Israele e Palestina rappresenta una violazione sistematica del diritto internazionale da parte di Israele, con gravi conseguenze per la popolazione palestinese. Le azioni di Israele, tra cui operazioni militari, demolizioni di case, espansioni di insediamenti illegali e restrizioni alla libertà di movimento, hanno aggravato la crisi umanitaria nei territori palestinesi occupati.
Organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, condannano queste pratiche come una forma di apartheid, evidenziando in particolare, la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania viola il diritto internazionale e ostacola una soluzione a due Stati. Il blocco imposto su Gaza da oltre 15 anni ha creato una crisi umanitaria cronica, con carenze di beni essenziali come medicine, acqua ed elettricità.
Le operazioni militari israeliane causano numerose vittime civili, sollevando critiche sulla proporzionalità e sul rispetto del diritto internazionale umanitario. Quello che si è visto a Gaza è stato descritto da molti come un genocidio, perpetrato sotto gli occhi e con la complicità del mondo intero; l’ultima tregua, fragile e di breve durata, non ha migliorato le condizioni di vita dei palestinesi.
Israele ha violato più volte i termini del cessate il fuoco, mentre le violazioni dei diritti umani e le operazioni militari continuano a perpetuare violenza e sofferenza, specialmente a Gaza e Cisgiordania. Israele è stato ripetutamente condannato per le sue politiche di occupazione, demolizioni di case, espulsioni forzate e discriminazione sistematica, paragonata da molti a una forma di apartheid.
La comunità internazionale ha la responsabilità di intervenire per porre fine a queste violazioni, esercitando pressioni equilibrate su Israele affinché rispetti il diritto internazionale e ponga fine all’occupazione illegale dei territori palestinesi.
La situazione in Palestina è una tragedia umanitaria ben documentata che richiede un’azione immediata e decisa. La violenza e l’occupazione non portano a una soluzione duratura, ma solo a ulteriore sofferenza. La comunità internazionale deve impegnarsi per una soluzione giusta e sostenibile, riconoscendo il diritto del popolo palestinese di esistere e vivere una vita umana e dignitosa, nel rispetto dei principi di giustizia e uguaglianza.
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