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Venerdì 7 marzo l’amministrazione Trump ha cancellato in tronco 400 milioni di dollari in sovvenzioni e contratti federali alla Columbia University di New York, una delle più prestigiose del paese, ritenendo la misura necessaria a causa del «fallimento della scuola nel proteggere gli studenti ebrei dalle molestie». Il colpo è pesante, perché (ha spiegato il New York Times) più di un quarto dei 6,6 miliardi di dollari che fanno funzionare quell’università provengono da finanziamenti federali. La Columbia era sotto attacco da un pezzo, col pretesto delle proteste di studenti e personale contro la guerra a Gaza, catalogate sbrigativamente da Trump e dai suoi come antisemitismo.
La notizia è sconcertante, ma non sorprende. I repubblicani statunitensi attaccano da un pezzo le istituzioni culturali di alto livello, non solo per quel che chiamano arbitrariamente “antisemitismo”, ma soprattutto per i programmi DEI (diversità, equità e inclusione), che l’amministrazione Trump contrasta brutalmente. Da giorni colleghi e colleghe di vari atenei Usa mi girano infatti inquietanti comunicati dei loro vice president (l’equivalente dei rettori). Una disposizione del 14 febbraio del Dipartimento dell’educazione – dice uno di questi comunicati – vieta di adoperare il criterio della razza «nelle decisioni relative ad ammissioni, assunzioni, promozioni, retribuzioni, aiuti finanziari, borse di studio, premi, supporto amministrativo, provvedimenti disciplinari, alloggi, cerimonie di laurea e tutti gli altri aspetti della vita studentesca, accademica e del campus». Il comunicato stabilisce anche che «è illegale trattare gli studenti in modo diversificato secondo la razza in vista di obiettivi nebulosi come la diversità, il bilanciamento razziale, la giustizia sociale o l’equità». In pratica, sono cancellate tutte le misure che da anni le università prendono a contrasto delle esclusioni e in sostegno dei diritti delle minoranze.
La strategia
Chris Rufo, stratega dell’estrema destra trumpiana, ha spiegato che quegli obiettivi sono collegati: «La teoria critica della razza, gli studi postcoloniali e il DEI sono ideologie intimamente connesse», di cui «l’antisemitismo di sinistra è solo un’espressione». Ha precisato poi: «Sono matrioske. L’antisemitismo, l’odio anti-bianco e il desiderio di rovesciare l’Occidente sono tutti costruiti sulle stesse fondamenta».
Di rincalzo, qualche giorno fa Trump stesso aveva avvisato con un truce post su X che «cesseranno i finanziamenti federali per qualunque college, scuola o università che permetta proteste illegali. I manifestanti saranno incarcerati o rispediti permanentemente nel paese di origine. Gli studenti americani saranno espulsi permanentemente o, secondo il reato, arrestati. Non è ammesso l’uso di mascherine».
Non è ancora una disposizione normativa, ma quel che è successo a Columbia mostra che Trump non sta scherzando, e che la sua arma più comoda e efficace consiste nel cancellare i finanziamenti di ricerca federali. L’obiettivo apparente è quello di contrastare le proteste contro le operazioni di Israele in Palestina. Ma il supposto “antisemitismo” degli ambienti accademici è spacciato come pretesto per un giro di vite generale.
Diverse università si sono messe in riga, alcune perfino preventivamente. Atenei di solida tradizione liberale (come Harvard) sono ricorsi a uno stratagemma acrobatico: hanno inventato una propria definizione di antisemitismo avvisando che chi non rientra nel perimetro della definizione corre il rischio di incorrere in provvedimenti di disciplina. Per Harvard, per esempio, è antisemita chi esprime dure critiche a Israele e al sionismo, ritiene che Israele pratichi un “doppio standard” (cioè calpesti per i palestinesi i diritti umani e li difenda in patria) e paragona le sue politiche al nazismo. Per conseguenza, chiunque (studente o professore) accusi Israele di azioni genocide a Gaza corre il rischio di essere punito o espulso. Ma non è all’antisemitismo, vero o supposto, che il trumpismo ha dichiarato guerra. I suoi veri bersagli sono la sinistra e il libero pensiero nelle università e, più in generale, le università stesse.
L’ideologo Vance
Il più feroce ideologo di questa guerra è il vicepresidente J. D. Vance, laureato a Yale ma odiatore dell’università e dei professori, contro cui ha sferrato numerosi pesantissimi attacchi. Le sue formule sono primitive e inequivocabili: le università sono “il nemico” e bisogna “distruggerle”, perché «hanno troppi soldi e non fanno niente di buono». «Non educano bene i nostri figli, e stanno seppellendo la prossima generazione sotto montagne di debiti studenteschi».
Gli studi quadriennali, troppo lunghi, creano solo giovani «spostati» e «peggiori». Lo sforzo di conseguire un’istruzione universitaria «sconvolge la gente»: prima la si convince che la laurea è necessaria, ma poi l’università l’addestra «a odiare il proprio paese e odiare la propria famiglia». Perciò gli americani dovrebbero «attaccarla onestamente e aggressivamente». Le accuse, come si vede, sono tanto violente quanto grossolane, ma il loro tono percussivo è allarmante.
È noto che l’antiintellettualismo è una radicata tradizione americana, come mostrò bene nel 1956 Richard Hofstadter in saggio famoso (Anti-intellectualism in American Life). Ma stavolta i toni sono minacciosi. In una delle sue uscite, Vance ha indicato un modello che gli piace: la stretta che Orbán ha dato alle università del suo Paese. Nel 2019, la gestione di una ventina di università ungheresi è stata trasferita ad apposite fondazioni dirette da elementi governativi, che possono accettare finanziamenti anche da privati. In pratica, quasi tutte le università sono cadute sotto il controllo del potere politico, violando il principio formulato nella Carta dei diritti fondamentali della UE, secondo cui «le arti e la ricerca scientifica sono libere. La libertà accademica è rispettata».
Di recente, Vance ha aggiunto che il giro di vite di Orbán è «quanto di meglio i conservatori abbiano mai ottenuto per contrastare il predominio della sinistra nelle università». Così vengono fuori i veri spauracchi della banda Trump: la sinistra e il dissenso.
La situazione in Italia
Se le cose che ho descritto finora sembrano esecrabili, come crediamo che sia la situazione in Italia? che sia più rosea? Tomaso Montanari, in un vibrante pamphlet appena uscito (Libera università, Einaudi, euro 13), ritiene decisamente di no. Con una panoramica fitta di documenti e riferimenti, mostra che anche in Italia, sia pure sottotraccia e senza urla scomposte, la libertà dell’università è in pericolo. Illustro velocemente i suoi argomenti. Intanto è sotto attacco l’autonomia degli atenei, sebbene la garantisca la Costituzione (art. 33). La ministra Anna Maria Bernini è arrivata a sostenere dinanzi alla Conferenza dei rettori che «università non è una zona franca».
Nel giugno 2024 il Consiglio dei ministri ha delegato il governo a «riordinare e razionalizzare» il sistema da cima a fondo. Per far capire che aria tirerà, i fondi per l’università sono stati tagliati di un miliardo di euro sui circa 9 di cui disponeva. Il Consiglio dei ministri ha intanto riordinato le posizioni pre-ruolo, il canale di ingresso all’insegnamento universitario. Montanari ricorda che il 45 per cento del corpo accademico è costituito da precari, dei quali solo un quarto avrà la possibilità di proseguire la carriera. Il riordino effettuato inventa confusamente sei figure diverse di pre-ruolo, la maggior parte destinate a precariato perpetuo. Il Decreto sicurezza, approvato qualche giorno fa, apre una prospettiva inedita: all’art. 31 «prevede che le pubbliche amministrazioni e i soggetti che erogano servizi di pubblica utilità [come le università] sono tenuti a prestare al Dis, all’Aise e all’Aisi collaborazione e assistenza necessarie per la tutela della sicurezza nazionale». Inoltre, consente ai servizi segreti di «stipulare convenzioni con questi soggetti, nonché con le università e con gli enti di ricerca. Le convenzioni possono prevedere la comunicazione di informazioni anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza». Al contempo, la Conferenza dei rettori ha invitato gli atenei italiani ad adottare una definizione precauzionale di “antisemitismo” molto somigliante a quella di Harvard.
Secondo Montanari, l’insieme coordinato di queste misure serve a due scopi. Anzitutto privilegiare le università telematiche a scapito di quelle pubbliche e in presenza. I favori che le telematiche hanno ricevuto dal mondo politico, e gli intrecci viziosi tra le une e l’altro, sono troppo numerosi per essere casuali. Inoltre, suggerisce Montanari, agli occhi della destra al governo le università telematiche hanno l’enorme vantaggio di evitare le aggregazioni studentesche fisiche, possibile fonte di dissenso. Per parte mia, credo che la portata di queste iniziative sia più ampia e indichi una strategia. Limitazione dell’autonomia, tagli dei fondi di funzionamento, precarizzazione del personale, prospettive di asservimento a compiti di polizia: tutto questo non fa pensare piuttosto a una trumpizzazione strisciante delle nostre università?
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