Da oggi è in libreria il primo romanzo di Flavia Todisco, firma di LuciaLibri, che ha all’attivo una raccolta di poesie, due di racconti e un testo teatrale. “Ringrazio l’inverno” (286 pagine, 20 euro), pubblicato da Affiori, ha come protagonista Ersilia, all’ultimo inverno della sua vita, che scrive un diario per la nipote Cecilia; a lei racconterà i suo passato più doloroso, a cominciare dall’allontanamento dal marito e dai figli. Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore anticipiamo qui un estratto, in cui si evoca l’alluvione di Firenze del 1966 e in cui sono presenti gli affetti-personaggi e le angosce di Ersilia
1 febbraio
In laboratorio la festa prosegue, i ragazzi stanno facendo baldoria: Sara, Manuela e Monica si sono scatenate nelle danze, Saverio e Nicola le guardano con circospezione e ogni tanto, diciamo non spontaneamente, si uniscono a loro per “qualche salto”, come dice Nicola. Serena fa gli onori di casa, Alfonso la aiuta, le loro splendide bimbe saltellano qua e là, seguendo un ritmo tutto loro.
Ho ballato per un po’ anch’io, era la mia festa e la musica così bella, da non riuscire a tenere ferme neppure le mie sempre più precarie ossa. Immagino che chi osservi i miei movimenti, probabilmente veda quello che vedevo io quando guardavo mio padre, ultraottantenne, camminare: il suo corpo esile, pieno di acciacchi, si reggeva su due gambette gracili che sembrava si potessero spezzare da un momento all’altro, ciò nonostante lui, passo dopo passo, procedeva stanco ma sicuro verso quello che aveva in mente di fare; io, che vegliavo alle sue spalle, restavo con il fiato sospeso, preoccupata e, al tempo stesso, rapita dalla sua tenacia e costanza. È sempre stato così, non si è mai arreso e su quelle sue gambette vacillanti ha protetto la mamma dalle insondabili angosce che la agitavano e da qualsiasi ostilità le derivasse dagli esseri umani, ha fatto progetti e avuto obiettivi fino al suo ultimo giorno. Ora che sono io a vacillare su arti sempre più instabili, lo ritrovo nei miei passi e nella voglia sfrenata, per gli altri forse cocciuta e azzardata, di sgambettare dandomi alle danze.
Avessi visto come scuoteva la testa Olimpia, mentre mi guardava dimenarmi goffamente. Se avesse potuto, credo, mi avrebbe legata a una sedia.
E forse non avrebbe fatto male, Cecilia, sono proprio esausta. Per questo mi sono ritirata nella mia camera e ne approfitto per scriverti, prima che il sonno abbia la meglio.
La mia adorabile “guardiana” ne sarà contenta, perché penserà che me la sia andata a cercare. Anche se, conoscendola, non resisterà e, magari fra un po’, verrà a sincerarsi che stia bene e a offrirmi una tisana al karkadè.
Nuovamente grazie, per il bouquet di tulipani che mi hai fatto recapitare: sono bellissimi. Grazie anche per il quadro che hai ricavato da una tua foto dell’aurora boreale: quanta luce e che colori!
Che dire, sai sempre come sorprendermi e regalarmi un sorriso. E, alla mia età, non è affatto facile e neppure scontato: complimenti, brava.
Non ti preoccupare, anche se non è stato possibile fare coincidere i nostri tempi con i tuoi, sei stata in ogni caso presente con il video messaggio che hai registrato: come stai bene con il nuovo taglio! Sembri una ragazzina.
Compiere gli anni porta inevitabilmente a fare bilanci, specie quando non si è più in erba e gran parte del tempo a nostra disposizione se n’è andato. Rimpianti, sogni mai realizzati, delusioni o immensi dolori si affollano nella nostra mente e non ci danno tregua o, almeno, è così finché decidiamo di dare loro ascolto.
E, dunque, a cosa sto io pensando questa sera?
Credo che questo sia l’ultimo compleanno, non penso che ne festeggerò altri, ma sono pervasa da gioia e gratitudine, perché è stato caldo, colmo di gioia e affetto, come uno scialle di lana pesante, per questo è stato ancora più bello.
È così, lo sento e è giusto che te lo dica e ti prepari, Cecilia. Non volermene.
Oltre alla consapevolezza serena del tempo a me rimasto e alla gioia per le molte attenzioni e il grande affetto che ho attorno, mi manca tuttavia qualcosa.
La mia famiglia, i miei figli.
È un dolore lacerante sentirli distanti, non averli accanto, non intrattenersi con loro neppure oggi, che la fine si fa più vicina.
Mi manca Vera, anche.
Mi manca terribilmente.
[…]
La conobbi nei giorni terribili che seguirono l’alluvione del ’66.
Per intere giornate l’acqua era caduta copiosa, incessante, impietosa sulla Toscana, tanto che alla vigilia del 4 novembre in tutta la regione non c’era corso d’acqua che non minacciasse di esondare, generando fra la popolazione smarrimento, rabbia, panico o disarmata rassegnazione, in alcuni casi accompagnati dai più altisonanti e coloriti scongiuri.
Su invito di Pietro e Claudia, quella sera i bambini e io ci trasferimmo a casa loro, un’antica villa, costruita secoli prima dai Palmieri nella periferia Sud di Grosseto, lasciata in eredità a Pietro dal padre: se l’Ombrone fosse esondato, saremmo stati al sicuro e in loro compagnia; il giorno dopo, festivo, le scuole e le Università sarebbero state chiuse, saremmo quindi potuti restare a letto fino a tardi.
Non avevo esitato a accettare, innanzitutto, per l’entusiasmo di Giorgio e Mara: amavano stare con Claudia e Pietro, che li coccolavano come se fossero loro figli o nipoti e che probabilmente, l’indomani, li avrebbero lasciati giocare con gli strani oggetti gelosamente custoditi nello studio di Pietro. Quella proposta, inoltre, offriva una salda sponda alle domande angosciose e assillanti che nella mia mente si affastellavano, generando un ammassarsi altrettanto angosciante di risposte dagli scenari più disastrosi e inquietanti. Se il fiume avesse fatto il suo ingresso trionfale in città, che fine avrebbe fatto la nostra casa? Si sarebbe sicuramente allagata, dopotutto non era altro che un garage affacciato sulla strada. Avremmo perso quel poco che, nell’ultimo anno, noi tre avevamo messo a fatica insieme. E se ciò fosse accaduto, dove avremmo potuto trovare riparo? Da Enzo, a casa dei miei suoceri? Dai miei? Con quali conseguenze? I bambini come avrebbero reagito? E la scuola? Ci sarebbero state comunque le lezioni? In ogni caso, come avrei fatto a occuparmi di loro e, al tempo stesso, raggiungere Firenze e l’Università? Già, Firenze, minacciata dalla piena dell’Arno, che ne sarebbe stato? E a tutti noi cosa sarebbe successo? Quali rivolgimenti avrebbe causato tutta quell’acqua alle nostre vite, a ciò cui tenevamo e alle nostre meravigliose città?
L’essere al sicuro insieme ai miei figli, confortati dall’affetto di cari amici, mitigò solo in parte l’arrovellarsi dei miei pensieri, ma fece sì che i bambini trascorressero ore serene, esaltati per la mitica stanza! e il lettone!, in cui si trovarono a dormire.
Un improvviso sordo boato anticipò il risveglio. Era la rottura degli argini. L’acqua dilagò ovunque, travolgendo tutto ciò che incontrava.
Anche il resto della Toscana quel mattino fu inondato dall’acqua, soprattutto Firenze, dove all’alba, Dio solo sa quanti metri cubi di acqua e fango, trascinato con sé dall’Arno, travolsero macchine, case, corpi e il patrimonio artistico, conservato nei secoli.
Le vittime risultarono essere diciassette, mentre furono calcolati cinquanta milioni di metri cubi d’acqua, mezzo di fango, ma forse furono molti di più.
Da noi, l’immensa pozza d’acqua che sommerse la città e le campagne circostanti, recava con sé carcasse di animali, tronchi d’albero, attrezzi e macchinari agricoli che, come in una installazione, fuoriuscivano ora qui, insieme agli zoccoli di una bestia, ora là, con i pali della luce infilzati in enormi copertoni, e insieme al resto che galleggiava in superficie, offrivano una testimonianza terrificante dello stravolgimento che si era consumato da poco.
Increduli, i volti premuti contro le finestre del secondo piano, tutti e cinque, i bambini si erano svegliati spaventati dal trambusto che, fuori e dentro la villa, era seguito al fragore dell’acqua che dilagava ovunque, spaziavamo con lo sguardo da un’estremità all’altra della distesa limacciosa che ci si parava innanzi, soffermandoci sui tetti di case, cascine, stalle e granai, in cerca di un segnale, un movimento o un gesto che ci suggerisse che qualcuno laggiù era vivo; poi spingevamo lo sguardo alle strade e vie che portavano in centro delle quali non si distinguevano gli ingressi di abitazioni e negozi, fagocitati dalla voracità del fiume che, nella periferia Nord, come venimmo a sapere più tardi, aveva mietuto una vittima, un pastore che insieme alle sue bestie cercava di mettersi in salvo.
Era una visione incredibile, spaventosa. Ne fummo profondamente turbati, tanto che, ammutoliti, non riuscivamo a formulare pensieri né tanto meno a trasmettere al corpo impulsi per un qualsiasi movimento.
Osservavamo soltanto.
Rimanemmo così, immobili, non so per quanto. A un certo punto, non ricordo come e neppure perché, io, Claudia e Pietro ci riavemmo, guardammo Mara e a Giorgio al nostro fianco con le manine e il naso incollati ai vetri. Sembravano pietrificati. Ce ne eravamo dimenticati o, meglio, avevamo momentaneamente scordato quanto fossero sensibili e impressionabili i bambini.
Li strinsi a me e provai a spiegare loro l’interminabile palude che ricopriva e uniformava l’orizzonte, provando anche a accennare quello che, molto probabilmente, era successo al nostro appartamento: la piena doveva averlo già espugnato, ne avemmo la conferma nella tarda mattinata, quando giunse voce che, nelle vie centrali, l’acqua aveva sfiorato i tre metri e mezzo, in alcuni punti addirittura quattro.
“Mammina, ma se la nostra casa è diventata un grande acquario, che fine hanno fatto i miei quaderni e i miei colori? E i miei giochi?”, mi chiese a bruciapelo Mara. “E il nostro letto? Chi ci dorme adesso? I pesci?”
Lei e Giorgio avevano un letto a castello, per metà rosa, per metà celeste, lo avevamo dipinto insieme e loro due ne erano entusiasti e orgogliosi. Provai a dirle che avremmo comprato altri giocattoli e colori, che nel frattempo c’erano quelli con cui la faceva giocare o disegnare Claudia; aggiunsi anche che insieme a Giorgio dormiva nel lettone, sul quale la sera prima, per la gioia, aveva saltato più e più volte, divertendosi un mondo. Non la convinsi, voleva le sue cose. E anche il suo letto. Trovò pace soltanto all’idea che Lillo e Rosy, i pesci rossi che le avevo regalato a Natale, potessero nuotare in una vasca più grande, avendo a disposizione l’intera città.
Giorgio, invece, si era trincerato in un silenzio meditabondo, quasi sdegnoso, dal quale non ci fu verso di farlo uscire. A nulla valsero le mie carezze e i baci che letteralmente gli stampai su guance, capelli, mani. Non sembrava neanche importargli molto del suo trenino, delle figurine, collezionate con tanta dedizione e pazienza, della sua adorata bicicletta, la SuperScheggia. Non sembravano smuoverlo neppure i pizzicotti, le boccacce o le smorfie della sorella.
Giorgio era assente. Non ci vedeva, né sentiva, neppure parlava.
Ci provò Claudia, era una delle maestre più brave e amate delle “Mazzini”, la stimavo molto e spesso facevo ricorso ai suoi pareri e consigli. La lasciai fare.
Diede dei fogli ai bambini e li invitò a disegnare quello che secondo loro avremmo fatto con tutta quell’acqua nelle vie e nei campi.
Mara fece due disegni, in uno ci raffigurò con alti stivali colorati attraversare la città con un unico lungo passo, raggiungere casa, farne uscire tutta l’acqua e recuperare in una ampolla di vetro Lillo, Rosy e la loro famiglia, nel frattempo cresciuta, come sembravano suggerire i due pesciolini che nuotavano vicino a Rosy. In un altro disegno, una grossa piscina troneggiava nel giardino di Pietro, noi cinque le stavamo attorno festanti, mentre ammiravamo Lillo, Rosy e i loro piccoli che guizzavano fuori dall’acqua, come delfini.
Giorgio, non capimmo perché, non volle usare i fogli di Claudia e stette a lungo davanti alle pagine bianche del quaderno di matematica che aveva portato con sé, quindi si mise a disegnare un complesso sistema di tubi, che pompava l’acqua dalle strade e dalla campagna e creava un grande lago, lungo il quale io e Claudia eravamo distese a prendere il sole, mentre lui e la sorella, insieme a Pietro, giocavano a palla.
Quei disegni ci rallegrarono e mi rassicurarono: almeno nelle loro fantasie, i bambini sembravano sereni e ottimisti. Attraverso quelle immagini sembravano, infatti, dirci che avremmo superato le difficoltà contingenti e la nostra vita ne avrebbe guadagnato. Iniziai a crederci anch’io. Dopotutto, avevamo già imparato a affrontare le emergenze e a uscirne più forti e uniti. Non sarebbe stata un’alluvione a fermarci o separarci.
Pietro, nel frattempo, si era già messo al lavoro: cercava di organizzare i soccorsi nel quartiere grazie all’aiuto di un suo paziente, un certo Renato, se ricordo bene, che, nel momento in cui l’esondazione dell’Ombrone si era rivelata sempre più probabile e Pietro si era reso disponibile a coordinare volontari e non, dove fosse servito, gli aveva offerto la sua radio amatoriale e la propria collaborazione. In poche ore, poi, gliel’aveva installata in casa insieme all’attrezzatura necessaria. Quell’uomo era commesso in un negozio di ferramenta, ma nel tempo libero, rinchiuso nella soffitta della propria abitazione, si intratteneva con altri radioamatori, attivi non solo da noi, ma anche a Firenze e nel resto del Paese.
La sua fitta rete di contatti si rivelò importante per comunicare all’esterno lo stato reale della situazione, di quali mezzi disponessimo, di quali aiuti avessimo bisogno, e per ricevere notizie di prima mano sui danni causati a Firenze e in tutta la Toscana dalla stessa micidiale combinazione di acqua, fango e nafta riversatasi, all’alba del 4 novembre, su abitazioni, scuole, chiese, musei, attività economiche e migliaia di vite.
Pietro fu bravissimo, in tempi estremamente ridotti mise in piedi una squadra di medici, infermieri e altri volontari che si occupò di soccorrere chi era rimasto bloccato sui tetti o nei piani alti delle abitazioni, prestare cure, distribuire viveri e indumenti agli sfollati.
Allo stesso tempo, io e alcuni colleghi dell’Università, insieme agli insegnanti delle scuole, ci prodigammo per mettere in salvo gli oggetti d’arte, i libri e gli archivi di chiese, musei, palazzi istituzionali o sontuose ville private.
Fu un momento di dolore e smarrimento, la città sembrava spacciata, ma anche di grande coesione, che ci vide prodigarci tutti per fare fronte alla fiumana limacciosa che ci aveva investiti, stravolgendo ogni nostro gesto quotidiano.
Dopo qualche giorno, quando i collegamenti con l’esterno furono ristabiliti e avviati i primi interventi a tutela del nostro patrimonio artistico-culturale, io e i colleghi ci organizzammo per raggiungere Firenze e secoli di storia e arte, patrimonio comune, seriamente minacciati.
Non fu facile partire. Fu come strappare le nostre carni lacere dal corpo tumefatto e straziato della città, dove i nostri affetti sarebbero rimasti a gemere, privi del nostro conforto.
Doveri e amori contrapposti si scontravano.
La maggior parte di noi scelse di correre in soccorso dell’arte e della cultura, assecondando il senso del dovere professionale, soprattutto perché le nostre famiglie erano in salvo e, in caso di bisogno, potevano contare sull’aiuto di quanti restavano a sgomberare e ripulire la città, proprio come avremmo fatto anche noi, una volta arrivati a Firenze.
Io combattei un giorno e una notte interi contro i miei peggiori mostri: le mie paure e insicurezze di madre, i sensi di colpa nel lasciare i miei figli in quell’assedio, per andarne a combattere un altro, lontano da loro.
Pietro e Claudia si erano offerti di accudirli in mia assenza; Enzo e i nonni sarebbero andati a trovarli.
Io, comunque, non ero tranquilla; forse perché sapevo che mi sarei sentita in colpa, qualsiasi fosse stata la mia scelta o forse perché, a livello inconscio, percepivo qualche minaccia.
Poi, senza che me lo aspettassi, l’innocente saggezza di Mara e Giorgio venne in mio aiuto e mi risolsi a partire.
Parlai loro dell’eventualità di dovermi assentare per andare a curare Firenze, i suoi libri e la sua storia. Mi posero mille domande e, quando compresero che quel repertorio apparteneva a tutti e che, in ogni caso, sarei tornata presto, reagirono con l’entusiasmo schietto e diretto dei bambini: “Vai, mamma, salva la Bellezza e la Storia!”
Erano ancora così piccoli, lui aveva undici, lei otto anni, eppure tanto sensibili da rinunciare a qualche giorno con me, in un momento delicato come quello, per consentirmi di occuparmi di entità tanto astratte quali la Bellezza e la Memoria di una città e della sua gente.
Ne rimasi colpita e compresi che mi stavano insegnando una delle verità più importanti: l’amore vero è gratuito, non conosce ricatti o minacce. Lascia liberi di scegliere, anche di andarsene e fallire. Se proprio chiede qualcosa, domanda chiarezza e onestà, altrimenti si nega oppure volta le spalle e se ne va.
Arrivammo a Firenze alcuni giorni dopo la visita del Presidente della Repubblica. Il disagio era estremo, nonostante i Fiorentini si fossero dati da fare fin dalle prime ore del 4 novembre, per mettere in salvo le persone, i loro beni e l’immane patrimonio culturale della città, e la macchina istituzionale dei soccorsi fosse ormai operativa e dotata dei mezzi e degli uomini necessari: le telefonate che Saragat aveva fatto prima di rientrare a Roma erano servite proprio a questo, come i colleghi e io potemmo constatare di persona.
Pensavamo di avere già visto abbastanza devastazione e desolazione nelle nostre vie e piazze, ma ci sbagliavamo: il fango aveva invaso piazza Santa Croce e l’intero centro, dove l’aria era irrespirabile, perché vi si era riversata la nafta degli impianti di riscaldamento, raggiunti e travolti dall’Arno, soprattutto negli scantinati.
Anche le strade offrivano il loro contributo a quello scenario apocalittico: i tombini, divelti dalla furia dell’acqua, avevano rigurgitato quanto era sempre stato custodito in gran segreto dalle fogne.
Nella melma, per lo più rappresa quasi ovunque, si era riversata l’intera vita della città, nei suoi splendori, oggetti di valore, suppellettili, mobilio, e nelle sue frattaglie, avanzi e rifiuti.
Era difficile riconoscere Firenze, tanto aveva il volto tumefatto.
Una sinistra massa scura, nauseante, multiforme, la avvolgeva e minacciava.
Sui visi delle persone si leggeva costernazione, nonostante la pronta volontà di reagire e riconquistare palmo dopo palmo la città, sottraendola al mostro deforme e maleodorante che l’aveva presa d’assalto e conquistata.
Vidi una donna, di spalle, il corpo ricurvo, intenta a togliere detriti dall’ingresso di quella che fino a pochi giorni prima doveva essere stata una sartoria, in vetrina svettavano ancora uno scampolo di stoffa e un manichino, seppure malandati. Sconsolata, il capo chino, muoveva le mani dentro e fuori dal fango, regolari, parallele, perfettamente coordinate. Scuoteva le spalle, dimenava la chioma corvina, salmodiava: non so se preghiere o imprecazioni, percepii soltanto un suono indistinto, anch’esso cadenzato, anche se meno regolare del movimento degli arti. Voleva andare avanti, stava cercando di farlo, lo dicevano le sue braccia, le mani, mentre il resto del corpo e quella litania sommessa testimoniavano il suo sconforto e forse ne occultavano le lacrime agli sguardi indiscreti, come il mio.
Non so dirti, Cecilia, quanti uomini e donne in preda al medesimo scoramento incrociai quel giorno, e anche dopo, mentre ci dirigevamo verso la Nazionale. Alcuni li ho scordati, di altri e altre conservo un’impressione fugace. Quella donna, invece, mi è rimasta dentro, nitida, ben definita.
Quel mattino di inizio novembre la sua immagine mi accompagnò, passo dopo passo, fino all’ingresso della Biblioteca dove, insieme ai colleghi, mi unii al gruppo di tecnici che si stava occupando del recupero dei libri alluvionati. Mi seguì anche fuori, nei giorni e settimane successivi. Rimase con me, come un’icona, sacra e laica a un tempo, cui pensare e rivolgermi nei momenti di disperazione o di ritrovata gioia, nel corso di quelle lunghe e cupe giornate di fango. Mi fece compagnia e consolò. Mi trasmise forza e fiducia, capaci di andare oltre la stanchezza e l’abbattimento collettivi. L’ho conservata nella memoria del cuore in tutti questi anni, per restituirla alla luce oggi, mentre te ne parlo. Non so a che cosa ti possa servire, ma se hai posto, portala con te.
All’interno la Biblioteca aveva un aspetto terrificante: l’acqua aveva invaso e poi espugnato l’intero piano terreno, quindi era calata nei sotterranei e li aveva allagati, travolgendo tutto quello che custodivano.
Il grande tempio della cultura italiana era stato profanato e restava sotto assedio. In quel momento era impossibile valutare i danni e ipotizzare le possibilità di recupero e restauro di quanto era stato fagocitato dall’acqua. Ci guardavamo attorno attoniti, incapaci di formulare pensieri. Ci esprimevamo a monosillabi, suoni soffocati di sbigottimento.
Nei magazzini sotterranei erano conservati volumi a stampa di straordinaria importanza, quelli della collezione Palatina e del corpus Magliabechiano, e l’intero fondo dei giornali italiani, stampati dall’Unità al giorno prima dell’alluvione.
Fortunatamente gli incunaboli e i manoscritti erano salvi, conservati ai piani superiori. Se fossero andati perduti, il danno sarebbe stato irreparabile.
Ci accolse il Direttore, il volto contratto, visibilmente stanco, il quale tuttavia, mentre parlava con noi, con una tenacia incredibile coordinava il recupero delle opere dal sottosuolo e accoglieva altri soccorritori. Ci indicò come unirci a quell’opera maieutica. Senza indugiare, ci disponemmo lungo le scale laterali che portavano al piano inferiore.
Stetti in fila, per ore, lungo la scala di sinistra e divenni parte integrante della catena umana che stava contribuendo, passaggio dopo passaggio, di mano in mano, a riportare alla luce, e forse al genere umano, le centinaia di migliaia di volumi incastrati in una fanghiglia densa e spessa.
Tra le nostre dita e le palme transitavano brandelli di libri, ammassi indistinguibili di carta e materiale scuro e limaccioso, in cui era pressoché impossibile ravvisare arte, bellezza, poesia e qualsivoglia alta manifestazione del pensiero e dell’animo umani. Tutto sembrava irrimediabilmente distrutto e perduto.
Ciò nonostante, noi eravamo lì a nutrire la speranza che qualcosa di quegli antichi tesori potesse essere salvato. Intenzionati a dedicarci a quella impresa senza desistere, finché non l’avessimo portata a termine. E come noi, molti altri erano già all’opera o sarebbero arrivati.
Stare fermi per ore su un gradino, gomito a gomito con altri volontari che volevano contribuire a quel disperato salvataggio, esponeva a una ridda di emozioni: si passava dallo sconforto assoluto, che accasciava l’animo e fiaccava il corpo, all’erompere della speranza che, diffondendosi tra noi come un’epidemia, ci faceva esultare per ogni brandello di carta sottratto alla mota. Difficile mantenersi in equilibrio in quelle ore. Fu per me un duplice supplizio.
Eppure, proprio nell’umida e oscura immobilità cui mi costrinse il ventre della Nazionale, trovai la forza per affrontare quel disastro e le mie ferite.
Nel pomeriggio, scesi nei sotterranei a dare il cambio a quelli che erano lì dal mattino. Mi ritrovai al buio, immersa nel fango fino a sopra le ginocchia, in preda alle mie angosce private, che fine avremmo fatto io e i bambini?, e all’ansia per quanto c’era da salvare.
Mi mancò l’aria. Lo sconforto ebbe il sopravvento. Mi sentii finita.
Soffocai le grida, che sentivo prorompere dalle viscere, perché temevo che qualcuno si potesse accorgere del mio disagio; così deglutii, contorsi il collo, le mascelle, le labbra, più e più volte, infine espirai.
Prestai maggiore attenzione, ma mi sembrò che nessuno fosse così vicino, alla mia destra e sinistra, da accorgersi di qualcosa. Rincuorata da quel vuoto e silenzio improvvisi attorno a me, stranamente isolata dagli altri volontari, in quella gola muta lurida e cieca piansi, mi dibattei, disperai, guardandomi dentro.
Vidi finalmente la realtà per quella che era, ne percepii gli effettivi contorni, l’autentica consistenza. Il rancore di Enzo, la rabbia vendicativa degli Scamicci, la vergogna risentita e ingiuriosa dei miei, l’indifferenza di amici e conoscenti: era tanto, troppo da affrontare contemporaneamente, da sola. Nell’ultimo anno tutto si era fatalmente coagulato, riversando su di me una quantità indicibile di maldicenze e cattiverie. Mi ero spostata da quel vortice, mi ero messa in salvo: era bastato stabilirsi pochi isolati più in là, ma era soltanto una tregua, ne divenni consapevole in quel frangente. Ero ancora troppo esposta e vicina a quella congerie ostile, e dunque estremamente vulnerabile, anche i bambini lo erano. E senza una casa nostra in cui vivere, lo saremmo stati ancora di più.
La mia ansia divenne materia.
Inspiravo, gonfiando il più possibile il petto. Restavo in apnea qualche minuto, in modo che l’ossigeno si diffondesse per il corpo e nella mente. Espiravo, svuotandomi dei pesi, dei rimpianti, dei sensi di colpa, della vergogna e della rabbia che erano in me ferite putrescenti, mortifere cancrene. Respiravo. Deglutivo. Ero ancora io, nonostante tutto viva, sana, lucida. Dopo la separazione ero riuscita a ricostruire una vita a tre, pacifica e armoniosa. Il garage–appartamento in cui ci eravamo trasferiti era accogliente, familiare. I miei figli erano tornati a essere sereni e io avevo ritrovato fiducia, vigore. Inspiravo, annuivo. Espiravo, sorridevo. L’alluvione aveva però spazzato via quella serenità, il nostro nuovo equilibrio. Era tutto da rifare.
Apnea.
E io dov’ero?
Vuoto. Morsa allo stomaco.
Sprofondai ancor più nel fango, completamente al buio, circondata dalla distruzione, per mia scelta lontana da casa. Scuotevo la testa, digrignavo i denti, contorcevo ogni muscolo del volto e del collo. Se fossi stata in grado, mi sarei estirpata con violenza dal corpo. Volevo morire. Apnea profonda. Meritavo di morire. Una madre irresponsabile, ecco cos’ero. Una demente. Che cosa avevo ottenuto con le mie ribellioni, la coerenza e fedeltà a me stessa? Il mondo contro. Assenza d’aria. Nessun respiro. Neanche un battito. Aveva ragione Enzo a volermi portare via Mara e Giorgio. Singulto soffocato. Lo avrebbe fatto, era solo questione di tempo, lo sentivo, lo sapevo. E mi ero addirittura assentata, adesso. Ero venuta a Firenze. Annuii e piansi, sommessamente. Piansi e piansi, stretta al terrore che qualcuno mi sentisse.
Poi, espirai, deglutendo.
Inspirai. E ritrovai pensieri migliori.
Avevo ancora il mio lavoro. Ero una docente, una studiosa stimata. Ossigeno alle membra. Forte e determinata. Ancora giovane. Abbozzo di sorriso. Sapevo ridere e correre spensierata sui prati, lungo i fiumi, in riva al mare, insieme ai miei bambini. Sospiro, breve. Li amavo. Mi amavano. Annuii sicura, forte. Avrei trovato una soluzione al marasma in cui erano precipitate le nostre vite. Ce l’avremmo fatta, saremmo vissuti insieme, felici. Fugata ogni minaccia. Inspiro. Espiro. Il respiro tornò regolare. Mi trovavo lì per dedicarmi a ciò che per me era il patrimonio umano più importante: il sapere, i libri, la parola. Lo volevo ancora. E ne avrei condiviso gli esiti con Mara e Giorgio. Ne saremmo stati entusiasti, e fieri. Riguadagnai ogni cellula del mio corpo. Ne percepii la consistenza, le energie, il volume. Ritrovai me stessa.
Ero salva.
Spalancai gli occhi, i piedi si radicarono a terra, mi risollevai, forse fu soltanto una mia suggestione.
Salda, in equilibrio: ero io. Ancora io. Viva.
E, mentre riacquistavo vigore e fiducia, qualcosa mi sfiorò o, meglio, qualcuno mi toccò, lieve. Percepii accanto a me una presenza calda, compatta. Ci fu un sospiro, seguito da una battuta, “Ma chi ce l’ha fatto fare di rintanarci quaggiù? Maremma!”, e da una sommessa risata.
Era Vera.
Accadde così. Ne conobbi prima la voce e la risata nel buio poi, quando alla fine del turno riemergemmo dall’oscurità, le vidi gli occhi e il sorriso, come se, ci ho pensato a lungo negli ultimi anni, il suo starmi accanto, fin da allora, assolvesse un compito: sostenermi nella notte, accompagnandomi oltre le tenebre a riguadagnare la luce.
E in parte è andata così la nostra vita insieme: io mi smarrivo, annaspavo, precipitavo in un limbo a mezza via tra la morte e la vita, esanime, oppure tremavo, piangevo, mi disperavo, mentre lei, salda nel proprio essere, sorreggeva la mia mano e mi scortava alla fine del tunnel, in cui ero prigioniera.
Dopo la sua morte ho dovuto imparare a riconquistare le alture e la luce da sola, ma finché lei è stata al mio fianco ho lasciato che illuminasse i miei Inverni e conducesse, leggera, la nostra danza.
[…]
3 febbraio
Non si trova. Non si trova.
Da nessuna parte.
È fuggito da scuola, dileguandosi alla fine dell’intervallo, dopo di che nessuno l’ha più visto.
A casa non è rientrato.
Carla è in pena. Luca è in giro a cercarlo.
Intanto fuori piove a dirotto, aumenta la morsa del freddo e quel bambino smarrito a sé stesso è solo nel buio, senza un amico, un sorriso, un bagliore cui aggrapparsi.
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