Perché i medici di famiglia non vogliono diventare dipendenti del Ssn

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Lo studio di un medico di medicina generale – undefined

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Potrebbe arrivare presto in Consiglio dei ministri la bozza di riforma della medicina territoriale, che il ministro della Salute, Orazio Schillaci, sta elaborando con i tecnici del ministero, tenendo conto anche delle indicazioni che vengono dai presidenti delle Regioni. Se l’esperienza della pandemia di Covid-19 ha messo in evidenza carenze e disomogeneità, in realtà da tempo si discute di riforma della medicina territoriale, visto che la legge Balduzzi (2012) non è stata completamente attuata. Il ministro stesso, nel question time alla Camera il 26 febbraio, ha ammesso che «il sistema è sotto pressione» citando il fatto che dal 2017 al 2023 i medici di medicina generale (mmg) sono diminuiti del 13% e che il numero di “massimalisti” (per numero di assistiti) è aumentato del 42%.

Se è vero, come ripetuto da Schillaci, che i mmg «rappresentano non solo il primo contatto dei cittadini con il Servizio sanitario nazionale (Ssn), ma il vero cuore pulsante della medicina di prossimità», e che sulla base del rapporto di fiducia tra medico e paziente sono determinanti «nella prevenzione e nell’orientare i cittadini verso stili di vita corretti», i problemi non mancano.

Da un lato la medicina generale, ha rilevato Schillaci, sembra rappresentare «una seconda scelta rispetto alle scuole di specializzazione, considerate più prestigiose e remunerative» (e in effetti la borsa di studio in medicina generale è meno della metà di quella degli altri specializzandi).

Il ministro punta a trasformarla «in una vocazione di eccellenza, equiparandola alle altre specializzazioni non solo nel percorso formativo, ma anche nel riconoscimento professionale, economico e con nuovi parametri di efficienza». In più, come emerso dall’ultimo rapporto presentato da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) nel 2022 il 22% degli accessi totali in Pronto soccorso, pari a 3,9 milioni, è stato improprio, vale a dire classificato con codice bianco o verde (con esclusione dei traumi), e concluso con dimissione a casa o in strutture ambulatoriali. D’altra parte sono numerosi i segnali di sofferenza manifestati dai medici stessi, che continuano a rappresentare la prima linea nell’assistenza: dei 383 camici bianchi morti durante la pandemia, più della metà (220) erano medici di famiglia.

Un primo confronto a metà febbraio a Palazzo Chigi non ha sciolto i nodi su come organizzare la presenza e quali compiti affidare sul territorio ai mmg in una nazione che invecchia, tra denatalità e aumento della vita media. A tenere banco nel dibattito sembra soprattutto la questione della forma contrattuale: oggi sono liberi professionisti che sottoscrivono una convenzione, che prevede alcune prestazioni e un vincolo orario di apertura dell’ambulatorio. Tra le proposte del ministro Schillaci il figura il passaggio del mmg a rapporto di dipendenza, in modo analogo a quello dei medici ospedalieri. Una scelta obbligata per chi entrerà in servizio prossimamente, facoltativa per chi è già abituato alla convenzione.

Si parla di 38 ore settimanali da suddividere (in proporzione al numero di assistiti) tra attività in proprio e attività prestata presso le Case della comunità, le strutture previste dal Decreto ministeriale 77 del 2022 che, in base al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dovrebbero essere 1.300 su tutto il territorio nazionale. Scopo di queste Case, strutture intermedie tra lo studio del medico e l’ospedale, è offrire una assistenza sanitaria e sociosanitaria di base con la presenza appunto di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, infermieri, psicologi di comunità, farmacista, assistente sociale, specialisti ambulatoriali con la possibilità di eseguire esami clinici di base, come prelievi, ecografie, elettrocardiogrammi, vaccinazioni, eccetera.

La prospettiva della dipendenza è appoggiata in particolare dalle Regioni, di cui si è fatto portavoce il presidente del Lazio, Francesco Rocca: «Quello che chiediamo, 21 governatori, è di poter governare le 38 ore che paghiamo e di poter controllare la spesa». Ma alla dipendenza si sono opposti non solo Forza Italia («far diventare tutti i medici dipendenti pubblici mi pare una cosa da stato socialista» ha detto il ministro Antonio Tajani), ma anche gran parte dei sindacati dei mmg, in particolare la Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg, sindacato prevalente con il 64,49% di rappresentatività) e la Federazione dei medici territoriali (Fmt, composta da Fismu, Simet, Sumai, Uil-Fp e Umi, al 6,89%); più articolate le posizioni di Sindacato nazionale autonomo dei medici italiani (Snami, 17,94% di rappresentatività) e Sindacato medici italiani (Smi, al 9,05%).

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Al di fuori dei sindacati spicca la posizione del Movimento medici per la dirigenza, associazione nata sulla scorta delle riflessioni provocate dal “Libro azzurro per la riforma delle cure primarie in Italia” (settembre 2021), che invece vede con favore il passaggio del medico di medicina generale alla dipendenza del Ssn. Tra i principali vantaggi che questi medici individuano nell’essere inquadrati come dirigenti medici, spiega Laura Viotto (mmg a Roma) figurano: «La possibilità di godere dei diritti e delle tutele dei lavoratori (ferie, permessi, malattia, maternità, eccetera), una retribuzione prevalentemente “a salario” equiparabile ai medici ospedalieri, lo svolgimento di una attività esclusivamente clinica, una maggiore collaborazione tra colleghi, l’azzeramento di tutte le voci di spesa per l’esercizio della libera professione, e in definitiva un miglioramento della qualità della vita». «Riteniamo però – conclude Viotto – che occorra pensare prima a una “riforma strutturale delle cure primarie”. Quando verrà definito il ruolo del medico sul territorio, a cascata verrà sciolto il nodo del contratto».





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