i lavoratori italiani rischiano di perdere il lavoro

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Esiste una preoccupazione diffusa, quando si parla di intelligenza artificiale, che prima che la stessa IA diventasse così presente nelle nostre vite, era già stata rappresentata in un gran numero di film di fantascienza, da 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick a A.I. Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg. Si tratta del timore che la tecnologia informatica possa in qualche modo raggiungere il dominio, avviando quella che equivale a una ribellione contro il suo maestro e creatore. Nello specifico, A.I. è un racconto quasi fiabesco sul tempo, sulle questioni etiche della scienza e della tecnologia, sul futuro della specie umana e delle intelligenze artificiali, sulle responsabilità morali degli uomini verso gli esseri da loro creati. Era, e lo sapeva Spielberg che lo ha diretto nel 2001, una profezia, così come è la storia di un moderno Pinocchio che vuole diventare un bambino vero. E la traslazione tra oggetto privo di anima ad essere senziente è un tema che da sempre spacca e divide tra chi ne accoglie la magia e chi ne ha enorme paura.

Ma c’è un altro livello di inquietudine che ha a che fare con l’IA, e che ha meno a che fare con massimi sistemi e questioni quasi filosofiche, e molto più con la vita di tutti i giorni, ed è la minaccia di poter essere sostituiti in quanto lavoratori da un chtabot. Un anno fa, per esempio, una ricerca condotta dal McKinsey Global Institute diceva che entro il 2030, più donne che uomini rischiano di perdere il lavoro a causa della crescita dell’intelligenza artificiale e dell’automazione. Ad essere a rischio, spiegavano i ricercatori, sarebbero i lavori che non richiedono un titolo di studio superiore, iniziativa, creatività e che al contrario tendono a essere molto ripetitivi. Posizioni, faceva notare il Washington Post, storicamente occupate negli Usa da donne, minoranze e lavoratori immigrati. “I posti di lavoro con salari più bassi sono oggi occupati in modo sproporzionato da persone con un livello di istruzione inferiore, donne e persone di colore”, proseguiva MGI. Le donne sono fortemente rappresentate nel supporto d’ufficio e nel servizio clienti, posizioni che potrebbero essere facilmente sostituite dall’IA e da sistemi automatizzati, riducendosi rispettivamente di circa 3,7 milioni e 2,0 milioni di posti di lavoro entro il 2030. Allo stesso modo, i lavoratori neri e ispanici sono altamente concentrati in alcune occupazioni in calo nell’ambito del servizio clienti e nei servizi di ristorazione.

Un anno dopo un nuovo studio conferma i timori, ma stavolta lo fa concentrandosi sulla situazione italiana. Da qui al 2035 sono 15 i milioni i lavoratori italiani esposti all’impatto dell’Intelligenza artificiale, in particolare 6 milioni sono a rischio sostituzione, mentre 9 milioni potrebbero dover integrare l’IA con le loro mansioni. Questi i dati che emergono da il Focus Censis Confcooperative intitolato Intelligenza artificiale e persone: chi servirà chi?, che evidenzia, al contrario dello studio americano, che il grado di esposizione alla sostituzione o complementarità aumenta con il crescere del livello di istruzione, e che per questa ragione le donne sono più esposte degli uomini. Si attende, dunque, un acuirsi del gender gap. Ma l’intelligenza artificiale rappresenta potenzialmente anche grandi opportunità, ad esempio di incremento della produttività, tanto che si calcola che porterà in dieci anni a una crescita del Pil fino a 38 miliardi, pari al +1,8per cento. Le professioni più esposte alla sostituzione nell’arco del decennio per effetto dell’AI, secondo questo report, sono quelle intellettuali automatizzabili: in cima matematici; contabili;, tecnici della gestione finanziaria; tecnici statistici; esperti in calligrafia; economi e tesorieri. Seguono periti, valutatori di rischio e liquidatori; tecnici del lavoro bancario; specialisti della gestione e del controllo delle imprese private e pubbliche. Il grado di esposizione alla sostituzione o complementarità, secondo questo studio italiano, aumenterebbe, dunque, con l’aumentare del livello di istruzione, considerando che nella classe dei lavoratori a basso rischio il 64% non raggiunge il grado superiore di istruzione e solo il 3% possiede una laurea. Per quanto riguarda le professioni ad alta esposizione di sostituzione, la maggior parte dei lavoratori (54%) hanno un’istruzione superiore e il 33% un diploma di laurea. Al contrario i lavoratori che più vedranno l’ingresso complementare delle IA nei processi produttivi posseggono una laurea (59%) mentre sono il 29% quelli con un diploma superiore. Tuttavia l’Italia non è (ancora) un paese particolarmente dedito all’uso della AI. Nel 2024 solo l’8,2% delle imprese italiane utilizza l’IA, contro la media europea del 13,5%: siamo lontani dal 19,7% della Germania, e restiamo al di sotto dell’11,3% della Spagna e al 9,91% della Francia. Il divario è particolarmente evidente nei settori del commercio e della manifattura, dove l’Italia registra tassi di adozione inferiori alla media europea. Pesa probabilmente la struttura del nostro sistema produttivo che vede numericamente la forte prevalenza di micro imprese e PMI.

C’è preoccupazione, infine anche per quanto riguarda il perpetrarsi degli stereotipi di genere, proprio grazie alla tecnologia. Il problema, su questo, è che l’85% del mondo IA è maschile: a nutrire le macchine di dati sono perlopiù uomini ipertecnologici, bianchi americani o cinesi: sapranno garantire l’inclusione? Già nel 2020 l’Unesco aveva lanciato l’allarme scrivendo che l’IA ha il potere di “diffondere e rafforzare gli stereotipi e i pregiudizi di genere, che rischiano di emarginare le donne su scala globale” e farle rimanere “indietro nella sfera economica, politica e sociale”. Se l’intelligenza artificiale è lo specchio della società perché è creata da esseri umani e risente della cultura nella quale siamo immersi – cioè delle immagini, dei testi, delle parole captate nel mondo reale – è necessario al più presto aiutarla a “correggere” le storture della realtà. Gli studi sul mercato del lavoro dicono che l’IA andrà sempre più a sostituire quei lavori ripetitivi che, purtroppo, sono tipicamente femminili e creerà invece opportunità nell’area delle materie Stem e, in particolare, dell’informatica dove la popolazione femminile rappresenta solo il 14%. “Le donne rischiano di non sfruttare questa grande opportunità, di venirne escluse. – spiega Darya Majidi, presidente di Donne 4.0 – Che fare? Rimettersi a studiare, intraprendere percorsi di re-skilling. I lavori del futuro avranno tutti una componente di IA. Più una donna subisce questo passaggio, più ne viene allontanata. Se invece ne è consapevole e capisce quanto l’intelligenza artificiale sia diversa dai sistemi tradizionali, riuscirà a essere protagonista. Non serve necessariamente una laurea in informatica: è sufficiente acquisire un mind set digitale sensibile all’IA che potrà creare un sacco di opportunità, anche di lavoro, in un Paese, il nostro, dove lavora una donna su due”.



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