Africa: continuità e cambiamenti sotto Trump 2.0

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Il continente africano rappresenta un’area geopolitica e geoeconomica di limitato interesse da parte dei governi statunitensi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi 40 anni. I Paesi africani raramente sono stati al centro dell’agenda di politica estera delle amministrazioni a stelle e strisce e mai all’interno di una visione strategica ad hoc. Di conseguenza, i governi di questa regione si sono orientati sempre più allo sviluppo di relazioni internazionali con attori alternativi a quelli occidentali – Cina, Russia e Paesi del Golfo su tutti –, che propugnano formule e progettualità distanti da quelle improntate alle “condizionalità” o ad approcci paternalistici. 

Sotto questo profilo, il mantra dell’“America First” e la scelta radicale di tagliare i fondi ai numerosi e rilevanti programmi di cooperazione internazionale nel continente (come l’USAID) rischiano di far ampliare la distanza geopolitica e geoeconomica con il continente africano. 

Nonostante ciò, alcune iniziative e caratteristiche del nuovo governo statunitense potrebbero invece contribuire a far recuperare una parte del soft power che gli Stati Uniti sono andati perdendo nel corso degli ultimi anni nel continente africano.   

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L’Amministrazione “Trump 1.0” in Africa

La prima amministrazione Trump si era caratterizzata per una sostanziale continuità con le tradizionali politiche estere sviluppate dalle precedenti amministrazioni, sia democratiche che repubblicane, nei confronti del continente africano. Molti dei programmi ereditati dai precedenti governi vennero mantenuti, anche grazie all’intervento del Congresso.    

A parte l’enfasi sul concetto di “America First” e il fatto che il presidente Trump fosse stato il primo inquilino della Casa Bianca dai tempi di Ronald Reagan a non aver effettuato visite ufficiali nel continente africano durante il suo mandato, la principale differenza di approccio riguardava la predilezione per forme di relazione e cooperazione bilaterali, a discapito di politiche e strumenti multilaterali. Inoltre, buona parte delle manifestazioni di interesse di Washington rientravano nella più ampia politica di contrasto all’avanzata politico-economica della Cina e alle molteplici iniziative militari russe.   

Nel dicembre 2018 Trump, due anni dopo la sua elezione, approvava il lancio del programma “Prosper Africa”, principale iniziativa del suo primo mandato relativamente al continente africano. Il piano aveva come pilastri lo sviluppo di rapporti commerciali basati sul mutuo beneficio e il contrasto alla minaccia del terrorismo islamico e dei conflitti violenti. Inoltre, si sottolineava la necessità di usare in modo efficiente le tasse dei contribuenti per gli aiuti allo sviluppo, portando a tagli soprattutto nei progetti multilaterali. 

Nel tipico stile pro-business del presidente, le iniziative economico-commerciali e gli investimenti statunitensi divennero prioritari, con una struttura organizzativa e una comunicazione simili a quelle di un’azienda di consulenza per l’internazionalizzazione. 

Infine, sotto il profilo del contrasto al terrorismo, l’amministrazione repubblicana continuò le operazioni in varie parti del continente; tuttavia, in linea con il più generale focus sulla sfida geostrategica posta da Cina e Russia, Trump annunciò il taglio del 10% della presenza militare in Africa, al fine di riallocare le forze nei contesti internazionali dove era necessario mantenere una postura competitiva.   

Il secondo mandato presidenziale di Trump

Nel rispetto delle attese, il discorso inaugurale di Trump quale 47° presidente degli Stati Uniti d’America non ha presentato riferimenti diretti al continente o a specifici Paesi africani. Nonostante ciò, alcune delle prime misure adottate hanno già avuto e, verosimilmente, avranno un impatto significativo nelle dinamiche di molti Paesi della regione, soprattutto di quelli più fragili sotto il profilo economico e sociopolitico. 

L’Ordine esecutivo “Reevaluating and Realigning United States Foreign Aid” ha portato al sostanziale “blocco” di USAID, l’agenzia governativa per la cooperazione internazionale, con conseguente sospensione immediata di centinaia di programmi rivolti al continente africano, pur con alcune deroghe relativamente alle iniziative di assistenza alimentare d’emergenza e umanitaria. Tali decisioni andranno a incidere significativamente sul futuro degli aiuti rivolti ai Paesi africani, distribuiti oltre che da USAID (12 miliardi di dollari nel 2024) anche dal Dipartimento di Stato, dalla Millennium Challenge Corporation (MCC) su base bilaterale e, in forma multilaterale, attraverso il sistema dell’ONU, il G7 o la Banca mondiale. Per non citare le centinaia di organizzazioni non governative operanti sul campo e i progetti di diversi centri studi e di ricerca.

È presumibile che alcune misure vengano riviste o mitigate, anche a causa delle pressioni delle istituzioni internazionali, delle organizzazioni non governative statunitensi, nonché delle sentenze dei giudici, ma la strada in questo senso appare delineata. Nel suo discorso al Congresso del 4 marzo 2025 Trump ha fatto riferimento al continente africano in relazione alla riduzione di fondi federali destinati a iniziative internazionali, in linea con la critica alle spese considerate superflue nell’ambito della politica estera del Paese, con particolare riferimento ai progetti legati alla promozione dell’inclusività, ai cambiamenti sociali e comportamentali e alle questioni climatiche.   

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Aspetti politico-diplomatici

Il congelamento o l’abbandono di programmi e iniziative a forte impatto sociale, come quelli per la lotta all’HIV o per lo sviluppo di infrastrutture medico-sanitarie ed educative, rischiano di danneggiare l’immagine statunitense presso l’opinione pubblica africana: già da anni il grado di consenso nei confronti del sistema statunitense è in discesa, un fattore che ha contribuito a far diminuire il soft power di Washington nel continente, favorendo la Cina e altri attori (Figura 1). 

Figura 1

Detto ciò, l’immagine statunitense rimane significativa nell’ambito del continente, supportata anche dai legami storico-culturali (gli USA ospitano la più grande diaspora di origini africane nel mondo occidentale).  

Non va sottovalutato il fatto che in diversi Stati africani le comunità religiose anglicane e pentecostali guardano alla figura di Trump come a quella di un garante di determinati valori tradizionali e conservatori ma anche come un alfiere della contrapposizione tra mondo cristiano e mondo islamico, che in diverse aree del continente, soprattutto nella fascia saheliana, hanno assunto la dimensione di scontro culturale e politico. In Paesi quali Nigeria, Burkina Faso, Ghana o Mali parte della popolazione percepisce il presidente Trump come una sorta di “liberatore” giunto in loro soccorso nella lotta al fondamentalismo islamico. Questo aspetto, unito al mantenimento della presenza militare statunitense nella lotta alle organizzazioni vicine ad Al Qaeda e Stato islamico costituisce un punto di forza per gli USA.  

Inoltre, lo stile “negoziale” di Trump – che fa storcere il naso a buona parte delle leadership europee – non risulta sgradito ad alcuni capi di Stato e di governo africani, che puntano a riposizionare i loro Paesi nel contesto internazionale, attrarre investimenti e far crescere le proprie economie: la formula “trade not aid”, se incanalata nel verso giusto, potrebbe dimostrarsi utile a rafforzare l’interlocuzione con alcune leadership africane; il presidente del Kenya William Ruto ha, infatti, invitato i suoi omologhi africani a vedere il blocco di USAID come una “wake-up call” per cessare l’atavica dipendenza dagli aiuti allo sviluppo.

Non mancano comunque i punti di scontro, come nel caso delle tensioni tra Washington e Pretoria a seguito del congelamento dei finanziamenti al Sud Africa, in risposta alla legge sugli espropri terrieri varata dal governo sudafricano e fortemente criticata soprattutto da Elon Musk. Nonostante le dure reazioni del presidente sudafricano Ramaphosa e di numerosi rappresentanti delle forze politiche sudafricane, il governo di coalizione del Sud Africa è tuttavia desideroso di rafforzare la sua immagine “pro-business” e punta ad attrarre le imprese statunitensi – comprese quelle che fanno capo a Musk – per stimolare la crescita economica, ormai da troppo tempo stagnante. Probabilmente la crisi diplomatica verrà derubricata a incidente di percorso, sulla falsa riga di quello che già durante il primo mandato avvenne con il riferimento di Trump ai cosiddetti “shithole Countries”, e come altre situazioni che verosimilmente emergeranno a causa delle posizioni e dello stile comunicativo dell’inquilino della Casa Bianca. 

Aspetti economici

L’ambito dei rapporti economico-commerciali e degli investimenti è quello sui cui Trump ha sempre posto maggiore enfasi rispetto al continente africano e su cui, verosimilmente, continuerà a insistere. In particolare, l’attenzione sarà focalizzata sulla necessità di cogliere le grandi opportunità che tale regione offre agli operatori economici statunitensi (“Africa has tremendous business potential…”), senza compromettere la tutela degli interessi nazionali. 

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Nella realtà, nel corso degli ultimi 15 anni circa gli USA hanno visto progressivamente diminuire il proprio peso all’interno delle dinamiche di economiche africane, venendo scalzati dalla Cina quale principale partner commerciale del continente; un esempio è la Nigeria, Paese più popoloso e ricco del continente, storicamente legato a Washington. Anche nell’ambito degli Investimenti diretti esteri (IDE), il ruolo statunitense è andato diminuendo e, soprattutto, rimane limitato a pochi Paesi: nel 2023 gli IDE statunitensi in Africa sono ammontati a 56,3 miliardi di dollari, circa il 50% verso l’Egitto, la Nigeria e il Sud Africa – le tre principali economie del continente che, da sole, equivalgono al 40% del PIL africano.   

Durante il primo mandato di Trump le relazioni commerciali statunitensi con il continente africano sono state inferiori rispetto a quelle sviluppate dall’amministrazione Biden. Da questo punto di vista, se la riduzione delle importazioni dall’Africa è giustificabile con gli effetti delle politiche protezionistiche a tutela della produzione interna statunitense e della diminuzione degli approvvigionamenti di idrocarburi – che storicamente costituiscono la maggior parte dell’import americano dal continente africano –, ciò che stona è il volume ridotto delle esportazioni rispetto all’amministrazione democratica, che passa da 118 miliardi cumulati nel periodo 2021-24 a 97 miliardi di dollari in quello 2017-20 (Figura 2). 

Figura 2

Il principale strumento per la partnership economico-commerciale tra USA e Africa del XXI secolo è stato l’African Growth Opportunity Act (AGOA), varato dal Congresso nel maggio 2000 ed esteso nel 2015 per un altro decennio. L’AGOA, che fornisce ai Paesi dell’Africa subsahariana ritenuti idonei (32 in totale nel 2024) l’accesso esente da dazi al mercato statunitense per migliaia di prodotti, è in scadenza a settembre 2025 e sarà quasi sicuramente oggetto di revisione. Tra i Repubblicani e all’interno della cerchia di Trump vi sono forti le critiche per la mancanza di reciprocità nell’accesso ai mercati africani, sottolineando i rischi per l’economia statunitense di un’ulteriore implementazione dell’accordo. Tuttavia, non mancano i riscontri circa il contributo dell’AGOA al rafforzamento delle relazioni economico-commerciali tra USA e continente africano, anche nell’ottica della partecipazione africana alle catene del valore globale, soprattutto in relazione alle forniture di materie prime critiche. L’amministrazione Trump punterà verosimilmente al rafforzamento delle relazioni economiche con alcuni Stati, nonché allo sviluppo di specifici interessi come nel caso degli investimenti in infrastrutture quali il “Lobito Corridor” tra Angola, Repubblica Democratica del Congo e Zambia: quest’ultimo, pur rappresentando un pilastro delle politiche di Biden per rafforzare la presenza statunitense e contrastare la penetrazione cinese in Africa, ha ottenuto l’avallo da parte della nuova amministrazione, che ne garantirà verosimilmente il completamento.

Un ruolo significativo nello sviluppo della presenza statunitense nel continente africano potrebbero averlo i grandi gruppi economici vicini a Trump e in particolare le aziende di Musk, come nel caso di Starlink. I Paesi africani rappresentano attualmente un mercato di enorme valore per le aziende che forniscono servizi telefonici e accesso a internet. Sin dall’apertura in Nigeria agli inizi del 2023, i servizi di Starlink sono cresciuti significativamente con circa un quarto dei Paesi africani raggiunti in due anni e l’obiettivo di “coprirne” un’altra dozzina entro la fine del 2025 (incluso il Sahara Occidentale). Tuttavia, il gruppo di Musk deve far fronte a resistenze da parte di alcuni governi africani. Emblematico il caso del Sud Africa, patria di origine di Musk: qui Starlink non è ancora riuscita a ottenere le licenze per operare, principalmente a causa dei vincoli regolamentari posti dalla legislazione del “Black Economic Empowerment” (BEE). In più occasioni le autorità sudafricane hanno mostrato segnali di apertura e proposto soluzioni in grado di facilitare l’ingresso di Starlink (così come di Tesla) nel Paese. Tuttavia, le già citate tensioni diplomatiche tra l’amministrazione statunitense e il governo di Pretoria non giocano a favore di un rapido ingresso del gruppo di Musk nella principale economia dell’Africa australe. Anche in questo caso si può intravedere l’approccio negoziale tipico dell’attuale amministrazione Trump, in cui si cerca di forzare la mano alla controparte per scoprirne le carte e raggiungere quanto prima i propri obiettivi. 

Aspetti della sicurezza

La gestione della sicurezza rappresenta, senza dubbio, la tematica su cui si è registrata la maggior continuità nell’azione di politica estera degli USA verso il continente africano, specialmente dopo l’11 settembre 2001. 

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Il Dipartimento della Difesa (DoD) statunitense e altre agenzie a stelle e strisce hanno contribuito direttamente al contrasto ai gruppi della galassia jihadista in varie regioni africane e al rafforzamento delle capacità militari e di sicurezza dei Paesi africani per gestire instabilità armata e conflitti. La costituzione dell’US Africa Command (AFRICOM) durante il secondo mandato di George W. Bush ha rappresentato l’apice della volontà statunitense di impegnarsi per la sicurezza del continente africano e uno strumento di fondamentale importanza nel supportare i rapporti diplomatici tra Washington e vari governi africani. Il destino dell’AFRICOM è attualmente oggetto di dibattito, dato che anche il DoD è finito sotto la scure del Department of Government Efficiency (DOGE), nonché visti gli annunciati probabili tagli ai programmi o al personale ritenuti non indispensabili. Verosimilmente nel corso dei prossimi mesi le autorità statunitensi potrebbero stabilire di incardinare la struttura militare africana sotto il comando regionale europeo (EUCOM), depotenziandone il valore simbolico. Ciò potrebbe impattare significativamente sulla percezione di potenza statunitense presso le leadership di alcuni Paesi africani. 

Inoltre, una minor presenza statunitense rafforzerebbe le intenzioni di Pechino e Mosca di espandere la propria influenza militare nel continente africano, orientandosi sempre più verso le coste dell’Oceano Atlantico, come nel caso delle trattative russe per una base militare in Guinea Bissau o degli interessi cinesi in Gabon e Guinea Equatoriale. La lotta al terrorismo internazionale continuerà a rappresentare un aspetto centrale della politica estera e di sicurezza statunitense anche nel continente africano, ma verrà prioritariamente svolta attraverso operazioni mirate, in particolare su alcune aree di interesse primario (come la Somalia).

Nonostante la probabile ridefinizione della presenza militare statunitense in Africa, è presumibile che alcuni contesti di instabilità politico-militare nel continente vedranno un incremento dell’azione di Washington, soprattutto sotto il profilo diplomatico. È il caso del conflitto armato in Sudan. La crisi sudanese tocca direttamente gli interessi strategici dell’attuale amministrazione a Washington perché inserita in quello che è il tentativo di “pacificazione” della regione mediorientale. Si tratta di un caposaldo della politica estera USA fin dal primo mandato di Trump, rappresentata dagli Accordi di Abramo, dalla partecipazione dello stesso Sudan nell’intelaiatura politico-diplomatica costruita attorno a Israele – messa a dura prova dalle evoluzioni successive al 7 ottobre 2023 così come dal coinvolgimento di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nell’instabilità politico-militare sudanese. Trump ha dichiarato che non solo rafforzerà gli Accordi di Abramo, ma li espanderà per includere altri Stati arabi, in particolare l’Arabia Saudita. 

È quindi verosimile che, una delle missioni della diplomazia statunitense sarà quella di mettere a sedere attorno al tavolo i principali stakeholder regionali coinvolti nel conflitto in Sudan, per giungere a un cessate il fuoco che, almeno nel breve termine, possa “normalizzare” il contesto regionale, evitando scontri tra quelli che sono considerati partner strategici per Washington. Molto dipenderà anche dalle evoluzioni della crisi ucraina e di quella a Gaza, ambiti di attuale prioritario interesse e coinvolgimento della diplomazia USA.



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