USA e Israele hanno rifiutato il piano arabo per la ricostruzione di Gaza


Gli Stati Uniti e Israele hanno rifiutato la proposta egiziana per la ricostruzione di Gaza, presentata ieri al Cairo in occasione di un vertice della Lega Araba. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense, Brian Hughes, ha dichiarato che il piano avanzato dai Paesi arabi non tiene conto del fatto che «Gaza è attualmente inabitabile», mentre Israel Katz, il ministro degli Esteri israeliano, ha accusato i Paesi arabi di non considerare «lo stato di cose dopo il 7 ottobre, rimanendo ancorati a prospettive obsolete». La proposta egiziana si articola in tre fasi, durerebbe complessivamente circa cinque anni e costerebbe 53 miliardi di dollari: durante la prima fase, che durerebbe sei mesi, Hamas cederebbe il potere a un’amministrazione tecnica ad interim e verrebbero installati 200.000 alloggi temporanei per la popolazione della Striscia. Nelle fasi successive, verrebbero rimosse le macerie e verrebbe ricostruita la Striscia, mentre il controllo di Gaza passerebbe nelle mani dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Il piano egiziano per la ricostruzione di Gaza è stato elaborato dai Paesi arabi in risposta al piano di Trump per rendere Gaza la futura “Riviera del Medio Oriente”. Il piano prevederebbe tre fasi, della durata complessiva variabile tra quattro e cinque anni. Dopo la prima fase preparatoria, in cui verrebbero spesi 3 miliardi, si passerebbe a una seconda fase di rimozione delle macerie e costruzione delle abitazioni; in questa fase, che dovrebbe costare complessivamente 20 miliardi, verrebbero costruite 400.000 case e, nell’arco di circa due anni e mezzo, verrebbero assicurati tetti per tutti i palestinesi. Sempre durante la seconda fase, verrebbero riparate le infrastrutture per l’erogazione dei servizi essenziali (acqua, elettricità, linea telefonica, smaltimento dei rifiuti) e verrebbero costruite aree industriali, porti e aeroporti, oltre ad aree dedicate alle attività produttive e commerciali come la pesca. Le bozze visionate dalla CNN parlano di un «piano ambizioso per sviluppare centri commerciali, un centro congressi internazionale e persino un aeroporto entro cinque anni», ma anche di «resort» e strutture turistiche per «valorizzare la costa mediterranea dell’enclave». La terza fase, che costerebbe in totale 30 miliardi, prevede infine il cambio di governance e porterebbe i cittadini alle urne.

La prima e la seconda fase hanno trovato l’appoggio di Hamas; anche la terza fase sembra essere stata accolta positivamente, ma non è ancora nota la posizione del gruppo riguardo a una possibile guida con l’ANP a capo. Tel Aviv, invece, si è sempre rifiutata di lasciare il controllo della Striscia tanto ad Hamas quanto all’ANP. Ieri, Katz ha ribadito la contrarietà di Israele a qualsiasi piano arabo senza fornire una vera e propria motivazione: secondo il ministro degli Esteri, «ora, con l’idea del presidente Trump, c’è l’opportunità per gli abitanti di Gaza di avere la libera scelta basata sul loro libero arbitrio. Invece, gli Stati arabi hanno rifiutato questa opportunità, senza darle una giusta possibilità, e continuano a muovere accuse infondate contro Israele». L’amministrazione statunitense, invece, ha sollevato un’obiezione pragmatica, sottolineando che Gaza è inabitabile «e i residenti non possono vivere dignitosamente in un territorio coperto di detriti e ordigni inesplosi». Per tale motivo, «il presidente Trump sostiene la sua visione di ricostruire Gaza libera da Hamas». Insomma, USA e Israele insistono con l’idea che i gazawi dovrebbero venire deportati in massa fuori dalla Striscia, pur sempre lasciando loro la possibilità di scegliere e ai Paesi arabi di proporre alternative. Di fronte alla scelta dei gazawi e alle alternative dei Paesi arabi, tuttavia, la loro risposta si traduce in un secco «no».

La situazione a Gaza e in Cisgiordania continua a essere critica. Nella Striscia, Israele ha interrotto l’ingresso di aiuti umanitari, bloccando i colloqui per la seconda fase della tregua. In Cisgiordania, invece, lo Stato ebraico ha invaso Jenin con i carri armati per la prima volta in vent’anni, ampliando la cosiddetta operazione Muro di Ferro. Oggi, l’esercito israeliano ha emesso ordini di demolizione per 17 case palestinesi nel campo profughi di Nur Shams, nel nord della Cisgiordania. In generale, dal lancio dell’operazione Muro di Ferro lo scorso gennaio, Israele ha sfollato 40.000 palestinesi, ucciso 700 cittadini e demolito oltre un centinaio di case.

[di Dario Lucisano]





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